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Maonomics, la mutazione del comunismo


Tao
 Tao
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Il Caffè, in queste pagine, anticipa in esclusiva e quasi integralmente un capitolo del nuovo libro dell’economista Loretta Napoleoni, “Maonomics”, edito da Rizzoli e in libreria nei prossimi giorni. È stata la stessa autrice a scegliere il brano che, dalle bancarelle “africane” di Guangzhou alle joint venture col Congo, spiega come il nord della bussola della stabilità economica si stia inesorabilmente spostando in Cina,  ridisegnando l’assetto macroeconomico del pianeta. Un New Deal cinese visto come ancora di salvezza dalla recessione globale, al punto che molti sono convinti che i cambiamenti  in atto finiranno per spodestare il primato economico statunitense.

A Guangzhou, una delle prime zone economiche speciali della Cina, i migliori affari si fanno al Canaan Market, il mercato degli africani. Ai tassisti basta dire «portami a Chocolate City», la città del cioccolato: questo il soprannome del quartiere. Visitare Canaan è come fare un salto in Africa, dagli odori del cibo che gli ambulanti vendono lungo la strada alle pettinature delle donne che fanno acquisti. In vendita vi si trova il più economico made in China, offerto tanto dai cinesi quanto dagli africani. Entrambe le etnie, però indossano abiti di foggia africana e quindi ogni bancarella è una tavolozza di colori che colpisce chi è abituato al grigiore di questa città, inquinata dalle migliaia di fabbriche nascoste nel suo ventre.

Naturalmente tutti gli acquirenti sono africani e molti hanno ancora sulle scarpe la polvere di quella terra. Dal novembre 2009 la Kenya Airways vola non-stop da Nairobi a Guangzhou. Il volo è sempre strapieno e molti viaggiatori vanno direttamente dall’aeroporto al mercato. L’emozione è tale che non sanno resistere. Per un africano Canaan è il paese dei balocchi, c’è tutto: dai sandali di plastica che hanno rivoluzionato l’intero continente, cancellando per sempre l’immagine di bambini e adulti a piedi scalzi, alle borse finte di Prada che tanto piacciono a chi vive a Soweto, fino agli iPod, ai dvd e ai cd pirata. (...).

Canaan è uno dei mercati della globalizzazione, quella vera, iniziata da poco nel Sud del mondo, lontana mille miglia dalle eleganti sale riunioni delle banche internazionali o dalle strisce elettroniche delle sale cambio. È a Canaan che vengono a fare affari i futuri Rockefeller dei Paesi in via di sviluppo, non a Parigi. Nato nel 2002, questo è infatti un mercato riservato ai prodotti provenienti dal Terzo mondo e diretti verso il Terzo mondo, al quale, come si è visto, la Cina sente ancora di appartenere. (...)

Da molto tempo l’Occidente ha dimenticato mercati come questo. Adam Smith impazzirebbe a visitarlo e Ricardo non avrebbe bisogno di scrivere la teoria del vantaggio comparato, gli basterebbe una macchina fotografica digitale per dimostrare i vantaggi che il commercio riserva alle nazioni. Gli occidentali qui però non ci vengono neppure a fare capolino. Ed è un errore perché questa è una finestra preziosa, chi non capisce che su queste bancarelle si sta costruendo il futuro del pianeta è cieco oppure stolto. Canaan ha un messaggio rivoluzionario per noi abitanti del Primo e Secondo mondo: se non vi svegliate, alla finale dei campionati mondiali della globalizzazione arriveranno solo nazioni terzomondiste (...). Ma l’antefatto dell’unione tra Cina e Africa è il paradossale evento galeotto che ci riassume Ian Taylor, africanista e docente presso l’università scozzese di St. Andrews: “Le conseguenze politiche internazionali dei fatti di piazza Tiananmen rappresentano il punto di svolta delle relazioni tra Cina e Africa”. Ecco un’affermazione sconvolgente che vale la pena analizzare. Come si è visto, i moti di Tianammen scatenano l’indignazione occidentale. Piovono le condanne e la diplomazia del Primo e Secondo mondo fa catenaccio. Dalla sospensione delle visite ufficiali alla cessazione della vendita di armi, la Cina diventa il paria. Sotto la bandiera della difesa dei diritti umani l’ingerenza dell’Occidente negli affari privati cinesi si fa pesante: le ambasciate in Cina offrono asilo ai dissidenti e appoggio a coloro che scelgono l’esilio. Nel gran baccano, Pechino riceve l’inaspettato sostegno diplomatico di numerosi Stati africani. Il ministro degli Esteri dell’Angola esprime “appoggio per le azioni dirette a sedare la rivoluzione” e quello della Namibia, Sam Nujoma, manda un telegramma di congratulazioni all’esercito cinese.

L’Africa è istintivamente antioccidentale. Negli anni Ottanta poi non vede di buon occhio l’interesse delle grandi potenze verso la Cina e molti capi di Stato sono addirittura convinti che questa politica miri a rallentarne la crescita. E' dunque naturale che quando termina la luna di miele con l’Occidente, l’Africa faccia quadrato intorno a Pechino. Vittima da sempre degli intrighi delle ex potenze coloniali e delle loro ingerenze anche spregiudicate, l’Africa ha poche ragioni per dar credito alle incessanti accuse occidentali sulle violazioni dei diritti umani. Tiananmen, dunque, cementa l’alleanza contro un nemico comune: l’imperialismo e il neoimperialismo dei Paesi ricchi.

La solidarietà africana fa balenare al Partito comunista cinese la possibilità di tessere una ragnatela diplomatica nel Sud del mondo, in contrapposizione a quella fittissima creata dalle capitali occidentali del Nord del pianeta. Basta coinvolgere i governi contrari all’ingerenza occidentale nei loro affari. Così le reazioni africane ai fatti di piazza Tiananmen convincono Pechino che il futuro alleato strategicamente più importante per lo sviluppo politico ed economico del Paese è l’Africa. Il Pcc capisce che i governi africani, spesso autocratici, hanno bisogno di un partner diverso dagli Stati Uniti, che impongono il proprio modello attraverso minacce economiche lanciate da organismi come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale. Ciò che la Cina offre è proprio questo: un’alternativa, in aperta concorrenza con l’Occidente. Non si tratta solo di denaro e infrastrutture, dunque, ma di un intero modello di sviluppo, capitalista ma non occidentale. E questo lavoro iniziato negli anni Novanta oggi dà i suoi frutti(...)

Oltre alla fornitura di materie prime per alimentare la crescita economica è alla legittimazione della propria ascesa nella comunità internazionale che Pechino mira nel cercare l’appoggio diplomatico africano, dato che sono in gioco oltre un quarto dei voti dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel 1995 Jiang Zemin, segretario generale del Pcc dal 1989 al 2002, riformula lo slogan di Den Xiaoping per lanciare l’ennesimo grande balzo cinese: “Uscite! Diventate attori globali!”. L’anno successivo intraprende un lungo viaggio diplomatico in molte capitali africane. E subito dopo la Cina “balza” in Africa.

L’Africa è ricca di risorse e molte sono ancora disponibili a chiunque le voglia e le sappia sfruttare. Il 90% delle miniere di cobalto e platino, metà delle riserve mondiali d’oro, il 98% di quelle di cromo, il 64% di quelle di manganese e un terzo dell’uranio si trovano in questo continente. Per non parlare poi delle foreste, un patrimonio di legname e legni preziosi unico al mondo. E poi ci sono i giacimenti di diamanti e quelli di petrolio che superano di gran lunga quelli dell’America del Nord e il 40% dell’energia idroelettrica del pianeta. E i cinesi sono un miliardo e trecento milioni, un esercito in grado di far crescere questa ricchezza con la forza del lavoro. L’esortazione di Jiang Zemin non cade nel vuoto ma incoraggia una nuova generazione di contadini a cercare fortuna in Africa.

(...) Noi occidentali invece guardiamo all’Africa come a un continente sciagurato, che ci scoraggia, al punto che molti di noi hanno persino rinunciato a provare a tirarlo fuori dalla povertà e dal malgoverno. A che serve pompare miliardi di dollari in qualche Paese, per quanto disperato, in cui p
rima o poi un dittatore o un genocidio faranno tabula rasa di aiuti, progetti di sviluppo e rinnovamento? Anche se la stampa occidentale è bene attenta a non criticare le crociate benefiche dei volti celebri, l’idea che l’Africa sopravviva grazie alla carità di Bono, Madonna e Angelina Jolie conferma agli occhi degli imprenditori occidentali la sua identità di continente in cui è impossibile fare affari. Ebbene, i cinesi non sono di questo avviso, sono invece molto positivi ed energici nel loro rapporto con le nazioni africane. Basta fare un giro nella capitale del Congo, Brazzaville, per averne conferma. Tutte le imprese di costruzione sono cinesi, e ce ne sono tante arrivate nel 2003, alla fine della Seconda guerra del Congo, a ricostruire il Paese. Nessuna nazione occidentale ne ha voluto sapere, il Congo è considerato troppo a rischio. I cinesi invece hanno aperto il portafoglio e applicato a questo Paese il loro modello di modernizzazione.

(...) L’altra faccia della medaglia ce la offre il Sudan, il più grande Stato africano. La Cina è di gran lunga il Paese che investe maggiormente in questa nazione: 8 miliardi di dollari soltanto nei 14 settori energetici fino al 2008! La stampa occidentale ha alterato di proposito i dati relativi alla cooperazione tra i due Paesi per farci credere che la presenza cinese abbia tutti i connotati del moderno colonialismo. Il Sudan non esporta tutto il suo petrolio in Cina, come ci viene detto. Le società energetiche cinesi che operano nel Paese lo vendono al miglior offerente e nel 2007 il Giappone ne riceve una quantità superiore di quella che va alla Cina. Nel 2006 questa nazione importa il 31% del suo fabbisogno dall’Africa, di questo il 14% proviene dall’Angola, il 5% dal Sudan, il 4% dal Congo e il 3% dalla Guinea Equatoriale.

(...)  La presenza cinese in Africa ha posto fine all’egemonia occidentale, ciò vuol dire che tutti i libri di economia dello sviluppo sono ormai obsoleti e devono essere riscritti. Ma Pechino con la sua armata di banche statali ha oscurato anche il ruolo della Banca mondiale e quello del Fondo monetario. (...) Se è vero che lo spinning occidentale descrive falsamente la Cina come un parassita è anche vero che in Africa la Cina va per fare affari, non per elargire elemosina. I rapporti di lavoro sono dunque rapporti reali e dato che i cinesi portano capitale e know-how e gli africani materie prime e lavoro sta a entrambi instaurare relazioni eque. Ciò significa che spetta ai governi locali combattere battaglie che gli operai, i sindacati e i politici occidentali, e in parte quelli cinesi, hanno già combattuto. (...) è sbagliato considerare la Cina in Africa come un elemento monolitico. Proprio perché il canovaccio che i due attori recitano si distacca da quello tragico del colonialismo, ma rispecchia i rapporti classici di produzione, l’interazione varierà da Stato a Stato e da industria a industria. Spetta a ciascun Paese africano conquistare pezzo per pezzo quei privilegi che tutti i movimenti operai hanno strappato ai datori di lavoro con lunghe e dure lotte sindacali. Sono proprio le differenze di salario e trattamento a dirci che la presenza cinese in Africa è una delle chiavi di lettura della nuova e avvincente storia che sta ridisegnando il nostro pianeta. Anche se la Cina è comunista, la sua economia è capitalista. E l’Africa è allo stesso tempo l’ultima frontiera che questo sistema economico deve conquistare e la Terra promessa dove si compirà la sua metamorfosi finale.

Loretta Napoleoni
Fonte: www.caffe.ch/
Link: http://www.caffe.ch/news/firme/47150
18.04.2010


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