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Misteri di un delitto perfetto e la chiamano globalizzazione


Tao
 Tao
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Quasi un romanzo criminale quello di Marco Panara, che spiega in modo chiaro «perché il lavoro non vale più»

E' un noir. Non lo sembra, pieno zeppo com'è di cifre, dati, statistiche, bilanci economici e finanziari, ma è un romanzo criminale. La storia di una rapina planetaria che si svolge da anni sotto gli occhi di tutti, una pulp fiction che lascia sul terreno milioni di vittime. Senza spargimento di sangue (per ora), velocemente e impunemente (per ora). E' la globalizzazione, bellezza.

In questo suo libro - "La malattia dell'Occidente. Perché il lavoro non vale più" (Laterza, p. 150, euro 16) Marco Panara, giornalista di Repubblica nonché esperto del ramo, ne racconta fasti e nefasti, svelando i misteri di un delitto perfetto che va appunto sotto il nome di globalizzazione.
Semplice. Di che si tratta, lo si capisce sin dalla prima pagina. «Quello che sta accadendo in Occidente da un quarto di secolo a questa parte è che, nello scontro secolare tra lavoro e capitale, in questa fase ha vinto il capitale». E questo che vuol dire? Semplice anche questo, Panara lo spiega in modo così chiaro che lo capirebbe anche un bambino. Vuol dire questo. «Sul totale della ricchezza prodotta ogni anno nei paesi industrializzati, la quota che va a remunerare il lavoro, negli ultimi 25 anni è diminuita mediamente di 5 punti, mentre la quota che va a remunerare il capitale si è accresciuta di altrettanti punti».

Volete i numeri-numeri, volete sapere che cosa c'entrate voi, uno per uno, in questa storia? Ecco, per la precisione. «Su un prodotto lordo aggregato dei paesi Ocse di 38.700 miliardi di dollari (dati 2007), il 5 per cento sono 1.900 miliardi di dollari che non vanno più a remunerare il lavoro. Distribuiti su un miliardo e 200 milioni di persone che rappresentano la popolazione complessiva dei paesi Ocse, vuol dire 1.500 dollari l'anno in meno per ciascuno».

Qualcuno, cioè, mette le mani nelle nostre tasche, con destrezza. Guardiamo noi, in Italia. «Se nel 1983, fatto 100 il prodotto lordo complessivo, 77 andava al lavoro e 23 al capitale, nel 2005 la quota che è andata al lavoro è scesa al 69 e quella andata al capitale è salita al 31»; e la stessa "cosa" si presenta in Francia, Giappone, Germania, Canada, Irlanda, Spagna, eccetera (e la tendenza è continuata e continua, brutti ladri).
Ma mica finisce qui. Non solo siamo pagati meno, ma «la perdita del valore economico del lavoro porta con sé anche la perdita del suo valore sociale e morale». Quel valore cioè che è «un elemento fondativo della società occidentale» (e questo spiega molto bene perché la nostra Costituzione proclama la Repubblica italiana «fondata sul lavoro»).

Vuol dire che negli ultimi 25 anni, il famoso popolo lavoratore è andato indietro su tutta la linea, economicamente, socialmente, politicamente. Nello stesso tempo, dai 1.500 ai 2.000 miliardi di euro, quelli appunto sottratti al lavoro, ogni anno, nei soliti noti paesi industrializzati, passano nelle tasche di poche persone (una volta si chiamavano pescicani, sempre loro...).

C'è la controprova - dati di prima mano - fornita dal Dipartimento americano del Commercio che nel 2007 ha pubblicato un'analisi, il cui solo titolo dice già tutto: "La quota del prodotto che va ai salari al suo minimo storico nel 2006. La quota che va al capitale al suo massimo storico". Infatti, «dal 1929 non era mai successo che al capitale andasse tanto e al lavoro tanto poco». Come dire, per dare un'idea «che un ottavo della ricchezza prodotta nel 2007 negli Stati Uniti è andata a un millesimo della popolazione, e quasi un quarto si è concentrato su un centesimo della popolazione».
Globalizzazione canaglia. All'insegna del grimaldello "miracoloso" del «meno Stato più mercato», di cui furono propugnatori e campioni mondiali Margareth Thatcher e Ronald Reagan (grazie).

E dopo? Prendi i soldi e scappa. Dopo, come si sa, «è arrivata la crisi». Quella che, volendo semplificare, scrive Panara, è come «un missile a quattro stadi: la crisi finanziaria, la crisi dell'economia reale, il crollo dell'occupazione, l'esplosione dei debiti sovrani». Prima eredità: 34 milioni di disoccupati in più a fine 2009; discesa del potere d'acquisto dei salari; compressione del tenore di vita; deriva sempre più forte verso il lavoro precario, flessibile o low cost; crescita negativa dell'economia mondiale, «per la prima volta da molti decenni a questa parte». Il re è nudo.

Tutte da leggere, come un thrilling delinquenziale, le 15 pagine del capitolo intitolato "Crack", il fallimento delle più grandi banche del mondo che a un certo punto assume le sembianze di una catastrofe planetaria. «La più grande bolla immobiliare della storia, quella che si è gonfiata negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2006», è scoppiata come un gigantesco disastro finanziario, che si è inevitabilmente tramutata anche in un disastro dell'economia reale (ne paghiamo e continueremo a pagare il conto). Bear Stearns, Countrywide, Fannie e Freddie, Merrill Lynch, Lehman Brothers; Ubs, Fortis, Ing: alcuni dei nomi sinistri che con i loro crack stratosferici hanno fatto tremare il mondo.

E per evitare il tracollo planetario, «tra Stati Uniti e Europa sono stati necessari (dati ottobre 2009) ben 309 interventi pubblici a salvare e sostenere circa 280 banche e un paio di centinaia di istituzioni finanziarie. Il costo per le casse pubbliche è gigantesco, i soli Stati Uniti hanno dovuto impegnare quasi 2.500 miliardi di dollari». In tutto, il salvataggio delle banche ci è costato 4.000 miliardi di dollari.

E' "il Sistema", dicono.

Maria R. Calderoni
Fonte: www.liberazione.it
20/02/2011


Citazione
Truman
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Registrato: 3 anni fa
Post: 4113
 

Più ci ripenso a questa storia di come ci hanno presentato la globalizzazione e più mi convinco che ci prendono in giro.
La globalizzazione è un fatto fisico e tecnologico: il mondo si è richiuso grazie alla potenza delle comunicazioni e non c'è più un dentro e un fuori. Emerge così il fallimento di quel sistema criminale che è il capitalismo, il quale non può più esportare nelle periferie i suoi sottoprodotti tossici e assume il suo profumo naturale di carogna. Dal fallimento del capitalismo (o meglio dalle mille forme del capitalismo) si può giungere ad uno stato mondiale totalitario sul genere di 1984 di Orwell o Il mondo nuovo di Huxley, oppure si può capire che per le masse l'unica strada è la rivolta e un governo mondiale basato sull'etica e sui bisogni delle persone. Direi che la partita è aperta.

Ulteriori dettagli in un mio commento qui:
www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=31452&highlight=


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