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Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo


radisol
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Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra. È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grande latinoamericana. Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.

di Gennaro Carotenuto

L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”. Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale. Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali. Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica, massacrava nell’89 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.

Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.

Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.

Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari. Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.

È questo che la sinistra da operetta europea non ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia. È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte degli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.

Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito. Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.

Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!

Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa. La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consens
us». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.

Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.

Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it

L'intervista del 2005 a Hugo Chavez :

http://www.gennarocarotenuto.it/131-gennaro-carotenuto-intervista-hugo-chavez-frias/


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dana74
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Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. "

toh le linee guida degli otto punti di bersani.....

🙁

Obama intanto si frega le mai e pensa al nuovo rapporto con gli Usa, che gentile.
Obama si è solo limitato a finanziare la solita rivoluzione colorata


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radisol
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Che diavolo c'entra Chavez con Bersani ?

E per fortuna in Venezuela non c'è alcuna "rivoluzione colorata", ci hanno provato più volte, persino con un golpe nel 2002 ... avevano messo a capo del governo direttamente il presidente della Confindustria venezuelana .... dopo due giorni dovettero arrendersi e riportare Chavez al palazzo ...

No, in Venezuela è dura ... no pasaran !


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mincuo
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"Serrata golpista di PDVSA" a dire il vero era uno sciopero. Giusto o sbagliato Chavez licenziò 20.000 persone.
N.B. Sempre al di là delle balle e dei santini gli USA sono e restano il primo partner e di gran lunga: 40% di export va lì, e il secondo partner, la Cina, vale il 10%.
Anche il 30% di import è da US, e anche lì la Cina, il secondo, vale la metà.

Il solito mondo. Che poi uno su 100 si sia preso la briga di guardare e studiare dal 1999 a oggi il Venezuela e abbia un'idea reale, non se ne parla.

Così si passa dal Meraviglioso Paradiso Sociale al "mostro" Chavez a seconda del propagandista di turno. O uno o l'altro. O Juve o Milan. O buono o cattivo.
E qualunque troiata scrivano viene presa per oro colato, come sempre.

Madrassa forever.


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radisol
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Sono trascorsi quasi dieci anni. Era la fine del 2003. Vivevo da qualche mese a Montevideo, in Uruguay, da dove seguivo il Sudamerica per Il Sole 24 Ore e per altri media italiani. Presi un aereo per Caracas: la terra di Chavez, la mia prima volta. Non sono mai stato un guevarista, né un ribelle. Credo nel libero mercato, ma sottoposto a regole. Credo nella giustizia sociale, ma al tempo stesso nel fatto che una Borsa e una finanza che funzionino regolarmente possano aiutare lo sviluppo di un Paese. Credo che la nazionalizzazione sia davvero l’ultimo strumento a disposizione di uno Stato per risolvere una vertenza con un’impresa privata. Insomma, diffidavo molto del Presidente venezuelano.

Sulla strada dall’aeroporto verso il centro di Caracas, una successione di «barrios», le bidonville venezuelane, abbarbicate su ripide alture: quasi spudorate, presenti da ogni parte, ancora di più che in altri contesti latinoamericani. Rimasi in città una settimana. Una delle inchieste che dovevo realizzare riguardava la comunità degli italiani del Venezuela, tra le più ricche del Paese, e il loro difficile rapporto con Chavez. Erano mesi di tensione, l’estate del 2004 si sarebbe tenuto un referendum per revocare il mandato al Presidente, poi sfociato in un insuccesso (il 59% degli elettori votò a favore di Chavez). Arrivati principalmente negli anni Cinquanta, in Venezuela gli italiani avevano lavorato sodo e fatto fortuna. Ma tra di loro (non in tutti, ma in tanti) trovai molta insofferenza nei confronti dei più poveri, corredata da un razzismo più o meno velato (sui neri o mulatti che in Venezuela sono quasi sempre poveri). Nei discorsi, immancabile, affiorò addirittura un po’ di nostalgia del ventennio fascista…Al di là della comunità degli italiani, comunque, mi capitò una sera di andare a una festa organizzata alla sede del giornale El Universal, quotidiano antichavista, piena di donne rifatte, che parlavano con disprezzo dei sostenitori di Chavez. Sputavano sentenze imbarazzanti, senza alcuna vergogna, su quei «burini» vocianti.

Un giorno incontrai uno degli imprenditori più ricchi del Venezuela, Juan Francisco Clerico, anche lui con passaporto italiano. Finalmente mi fece qualche discorso ragionevole. Una domenica dal cielo plumbeo mi portò in giro per la città: macchinona con autista, accompagnati a breve distanza da 4×4 con guardie del corpo, muniti di mitragliette. Ci tenne a mostrarmi anche il centro e poi l’ovest povero di Caracas. Si fermò davanti a un barrio e mi disse che «anche noi, gli italiani, e tutti i cittadini più privilegiati del Venezuela abbiamo sbagliato. Non abbiamo voluto per anni vedere queste bidonville. Ci siamo girati dall’altra parte, concentrati solo a consolidare il nostro benessere personale».

Chavez, invece, è stato il primo a occuparsi dei poveri (il 49% della popolazione nel 1999, quando arrivò al potere, e il 27% oggi, senza contare che nel frattempo la mortalità infantile si è dimezzata). Ha sicuramente commesso tanti errori di gestione economica: la produzione petrolifera è calata fortemente perché non si è investito nei giacimenti. I capitali stranieri sono stati messi in fuga dalle nazionalizzazioni. Anche l’industria manifatturiera ha perso peso e il Venezuela è diventato sempre più dipendente (troppo) dalle importazioni. Ma almeno Chavez ha guardato in faccia il problema principale del Paese, quei «barrios». Oggi il 43% del bilancio dello Stato è consacrato alle politiche sociali. Bene o male, li ha aiutati. Ha cercato di superare una ghettizzazione colpevole.

In quel primo viaggio, ritornai all’aeroporto per la stessa strada, costellata di bidonville. Perfino dalla scaletta dell’aereo si scorgevano i barrios, sulle colline adiacenti, a poche centinaia di metri. Ma possibile che i ricchi del paese non li avessero mai visti in precedenza? Che non si fossero mai chiesti per anni e anni, andando a prendere un aereo per fare shopping a Miami o per studiare in un’università americana, come vivesse quella popolazione lasciata ai margini del miracolo economico del «Venezuela saudita»?

Perché si scandalizzavano così tanto del fenomeno Chavez? Perché non si erano svegliati prima? Io che non sono guevarista, né un ribelle e che credo nel libero mercato ripensai d’un botto a tutti gli stupidi discorsi ascoltati nei giorni precedenti. A quell’indifferenza ostentata. Al disprezzo per la miseria. E pensai che quel pazzo di Chavez i ricchi del Venezuela se l’erano meritato. Non uno, ma due, tre, quattro, centomila di Chavez dovevano rimanere per un po’ sul loro gobbone.

Leonardo Martinelli 7 Marzo 2013

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/07/chavez-italiani-e-stupidi-ricchi-venenzuelani/523020/


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mincuo
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Bisognerebbe fare un quadro informato del Venezuela e di Chavez. Cioè un'informazione di livello superiore al raccontino ecc..
Cosa significherebbe? Che essendo un quadro misto non si presta a un blog. Magari darebbe idea di cosa può succedere, nel senso che specie dandogli profondità, ragioni, ecc.. si individuerebebro bene quali sono i punti chiave, che lo erano già prima, specie negli ultimi due anni, ma con la morte di Chavez lo diventano anche di più. Ma non è adatto appunto. Perchè non è tutto trombe e violini. Semmai "dopo" se si verificano alcune cose, uno darà o inventerà qualche spiegazione farlocca o ideologica ex post. Meglio così.


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sankara
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Bisognerebbe fare un quadro informato del Venezuela e di Chavez. Cioè un'informazione di livello superiore al raccontino ecc..
Cosa significherebbe? Che essendo un quadro misto non si presta a un blog. Magari darebbe idea di cosa può succedere, nel senso che specie dandogli profondità, ragioni, ecc.. si individuerebebro bene quali sono i punti chiave, che lo erano già prima, specie negli ultimi due anni, ma con la morte di Chavez lo diventano anche di più. Ma non è adatto appunto. Perchè non è tutto trombe e violini. Semmai "dopo" se si verificano alcune cose, uno darà o inventerà qualche spiegazione farlocca o ideologica ex post. Meglio così.

Mincuo, perché non provi a tracciarlo questo quadro e a delineare possibili scenari? Quali sono i "punti chiave" dell'economia e società venezuelana che, a quanto dici, nemmeno Chavez avrebbe fronteggiato adeguatamente? Grazie


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