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Il Tibet e il fallimento dell'ultra capitalismo cinese


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Dal "boom" alle nuove diseguaglianze tra città e campagne

L'economia tibetana e il fallimento annunciato dell'ultracapitalismo cinese

Per gli occidentali il Tibet è un palcoscenico dove mettere in scena drammi morali privi di conflitti, sceneggiature hollywoodiane dove i buoni e i cattivi sono ben delineati e le circostanze storiche, politiche o economiche, non fanno parte del quadro. E' un film visto parecchie volte negli ultimi anni (Afghanistan, Iraq, Iran) e che funziona alla perfezione da quando la cosiddetta intellighenzia ha sposato il confortante e riposante modello confezionato a Washington e ha rinunciato a rompere le scatole sull'economia o sui diritti umani di casa propria. Per la maggior parte dei cinesi il Tibet è una scusa - come il Darfur - che l'Occidente usa per minare i successi di una potenza che si accinge, con le Olimpiadi, a ottenere il meritato riconoscimento planetario.

Irritati dalla solita doppia morale, che rimuove il genocidio palestinese ma si scandalizza per la repressione a Lhasa, i dirigenti cinesi hanno cavalcato il nazionalismo più becero legandosi le mani da soli: dopo mesi di isteria anti-tibetana qualunque mediazione sarebbe vista come una sconfitta. Così Pechino continua a buttare benzina sugli scontri e sui saccheggi a danno degli immigrati cinesi che hanno mandato al creatore 18 connazionali (fra cui quattro donne bruciate vive in un negozio) e la repressione continua indisturbata. Ma la protesta non fa che estendersi e ormai sono una cinquantina le città interessate anche al di fuori della Regione Autonoma del Tibet, in province con una forte minoranza tibetana - come Qinghai, Sichuan e Gansu - sempre più vicine al cuore dell'impero.

Per capire cosa accade in Tibet bisogna quindi scendere dal palcoscenico e parlare anche di economia e di politica, due cose che non piacciono molto alle star di Beverly Hills. Uno dei motivi per cui i cinesi sono tanto arrabbiati è che nel paese himalayano sono stati investiti una gran quantità di soldi per offrire ai riottosi buddisti infrastrutture e meraviglie tecnologiche come il treno più alto del mondo e relative stazioni. Secondo i parametri occidentali l'intervento cinese è stato decisamente efficace: nel 2007 il tasso di crescita tibetano (al 14%) era più alto di quello cinese e perfino i redditi rurali, negli ultimi cinque anni, sono cresciuti a un ritmo senza precedenti. Come molte città cinesi anche Lhasa registra un boom edilizio e il turismo sta letteralmente esplodendo: l'anno scorso ci sono quasi 3 milioni di visitatori, più o meno quanti sono gli abitanti. Peccato che il famoso effetto a cascata previsto dai fan del capitalismo come al solito non c'è stato e che le nuove occasioni, lungi dal portare ai tibetani le meraviglie del turbo-capitalismo, hanno accresciuto i conflitti.
La principale controindicazione di questo tipo di capitalismo è che aumenta in modo esponenziale le disuguaglianze, soprattutto fra le aree urbane e turistiche - investite dal benessere - e quelle rurali. In aggiunta c'è la specificità culturale e linguistica del Tibet, dove appena il 15 % della popolazione ha completato la scuola secondaria ed è quindi in grado di parlare cinese.

Peccato che per approfittare del boom di nuovi posti di lavoro nel turismo, nell'edilizia o in uno dei mille negozi che stanno portando i prodotti occidentali anche a Lhasa, parlare cinese sia essenziale. Così gli immigrati cinesi, spesso poveri quanto i tibetani, si riversano nel paese per prendersi i posti migliori, cosicché la nuova ricchezza accresce solo il risentimento fra i due gruppi. Come ha ben sintetizzato Nicholas Bequelin, della statunitense Human Rights Watch «per beneficiare della nuova economia devi diventare più cinese. Se non lo fai vieni emarginato e ti vedi scivolare le occasioni sotto il naso, e questo non può che accrescere la rabbia». Rabbia che esplode quando Pechino prova ad imporre anche al Tibet la sua "cura" olimpica, un maquillage che mira a nascondere i numerosi conflitti del paese, da quelli con le minoranze etniche alle rivolte delle sterminate comunità rurali.

L'atteggiamento di Pechino con il Tibet ha variato molto nel corso degli anni. Nel 1980 a capo del partito comunista tibetano venne spedito Hu Yaobang, un moderato che aprì le porte a una maggiore libertà religiosa e, dietro le quinte, negoziò con il Dalai Lama. Il dialogo venne interrotto dalle rivolte del 1987 - secondo molti fomentate dalla Cia - con i poliziotti cinesi a picchiare i monaci e l'esercito a sparare sui dimostranti. La lunga reggenza del "pacificatore" Hu Jintao, in carica dall'88 al 2001, non ha fatto che peggiorare la vita dei tibetani: per lui il buddismo è una "cultura straniera" e un ostacolo alla modernizzazione economica. Nel 2005 è salito al ruolo di "proconsole" Zhang Qingli, dirigente nella provincia di Xinjiang dove si è distinto nella campagna contro i sentimenti "anti-Pechino" della maggioranza musulmana. Campagna capillare di arresti e intimidazioni agli attivisti islamici che va avanti da mesi senza che in Occidente sia stata pronunciata una parola di condanna.

Sabina Morandi
Fonte: www.liberazione.it
8.04.08


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