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La tribù dei nuovi schiavi


Tao
 Tao
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Tre anni di lavoro, centinaia di volontari sul campo Il rapporto finale di Greenpeace sulla foresta brasiliana non è solo una denuncia nei confronti delle multinazionali ma anche un racconto da brivido di indios, sindacalisti e sacerdoti uccisi per le loro battaglie ambientaliste. E di un popolo ridotto quasi alla schiavitù

Dall’alto è facile trovarli. Con un piccolo aereo, seguendo le colonne di fumo che salgono dal manto compatto dell’Amazzonia, si arriva alle radure strappate a forza alla foresta. Dove fino a ieri si alzava un mondo verde alto 50 metri, pieno di bellezza e di acqua, ora c’è una distesa piatta destinata a inaridirsi nel giro di pochi anni: un luogo senza futuro. Ed è qui che vive chi non ha futuro, gli schiavi del ventunesimo secolo condannati a esaurirsi assieme alla terra da cui non possono scappare.

L’ultima inchiesta di Greenpeace, costata tre anni di lavoro sul campo e sulle mappe satellitari, non è solo una denuncia dettagliata delle responsabilità dei giganti del mercato della carne che trasformano in hamburger il polmone del mondo. E’ un racconto da brivido, una sorta di Gomorra tropicale in cui si descrivono gli assalti delle squadre armate, tollerate per decenni dal governo brasiliano.

Squadre che spadroneggiano in un’area grande quanto un continente uccidendo indios, sindacalisti e sacerdoti e sostituendosi al potere dello Stato.

«Alle volte gli uomini dei fazenderos arrivano sui camion, sgombrano le casupole che sorgono a ridosso della foresta e bruciano tutto», racconta Chiara Campione, responsabile della campagna foreste di Greenpeace. «Chi vuole sopravvivere è costretto a firmare un contratto basato su uno scambio drammatico ed elementare: lavoro gratuito a vita in cambio di una ciotola di riso e di notti passate sotto chiave, nella gabbie collettive in cui vengono stivati i nuovi schiavi, compresi i bambini. Altre volte invece l’agonia è più lenta. I debiti dei senza terra si accumulano progressivamente a tassi da usura finché il disperato di turno è costretto a cedere la libertà in cambio della vita».

Non si tratta di casi eccezionali. Secondo la Dirty List pubblicata nel febbraio scorso, gli schiavisti sono concentrati soprattutto nel Mato Grosso e nel Parà e le loro vittime sono migliaia. La denuncia è confermata da un rapporto Onu (UN report GeoAmazonia) in cui si afferma che tra il 1960 e il 1970 lo schiavismo è riapparso in Brazile «come conseguenza dell’espansione della moderna agricoltura in Amazzonia. L’agro business su larga scala ha provocato una pesante pressione sulle risorse naturali della regione, accelerando i processi di deforestazione e aumentando il lavoro in schiavitù».

Un disastro che, secondo Greanpeace, ha nomi e cognomi. Nel rapporto si citano tre giganti del mercato della carne e della pelle brasiliani: Bertin, Jbs, Marfrig. Sono loro l’anello di collegamento tra il disastro sociale e ambientale che sta travolgendo l’Amazzonia e il mondo che guarda con raccapriccio alla violenza degli schiavisti ma finisce, più o meno inconsapevolmente, per comprare i prodotti frutto di quella violenza.

Bertin, Jbs e Marfrig, accusano gli ambientalisti, «vengono regolarmente riforniti da allevamenti che hanno tagliato a raso la foresta ben oltre i limiti consentiti dalla legge; in alcuni casi sono state trovate le prove di un rapporto con le fazende che utilizzano gli schiavi». E a loro volta i giganti brasiliani riforniscono un numero impressionante di grandi marchi globali: le materie prime frutto di crimini forestali contaminano così le filiere produttive di settori di prima grandezza. Tra i marchi citati ci sono aziende importanti nel settore della moda, della grande distribuzione, delle auto.

Il cuoio lavorato dagli schiavisti arriva alle fabbriche cinesi dove si produce il 60 per cento delle scarpe vendute in tutto il mondo (a comprarlo non sono solo i piccoli produttori ma anche le multinazionali). Il pellame viene utilizzato per la tappezzeria di auto prodotte negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone. La carne arriva sugli scaffali della grande distribuzione: il 90 per cento della carne brasiliana importata in Inghilterra proviene da Bertin, Jbs o Mafrig.

Anche in Italia sono molte le aziende che mettono l’Amazzonia in scatola: Mafrig, uno dei tre nomi messi sotto accusa nel rapporto di Greenpeace, ha buoni rapporti commerciali con importanti industrie del settore alimentare. Inoltre siamo il centro mondiale della produzione di pelle di alta qualità perché vendiamo l’immagine di un paese in cui la bellezza e la coesione sociale sono valori egemoni da secoli, ma se andiamo a spulciare la lista dei fornitori di alcune griffe troviamo sorprese poche piacevoli: di nuovo una delle aziende che figurano nella lista nera degli ambientalisti, la Bertin.

Il risultato di questa rete occulta di connessioni è un finanziamento globale alla distruzione dell’Amazzonia che sta creando un pressing micidiale. Un quinto del totale dei gas serra che minano la stabilità del clima viene dai roghi delle foreste. E il Brasile occupa il quarto posto (dopo Cina, Stati Uniti e Indonesia) per le emissioni di anidride carbonica principalmente a causa dell’erosione dell’Amazzonia.

La corsa alla distruzione della più grande foresta pluviale del pianeta ha vari attori, dagli agricoltori che fanno largo alla soia ai mineiros che avvelenano la foresta per estrarre oro. Ma l’allevamento dei bovini gioca la parte dell’imputato numero uno: ha l’80 per cento delle responsabilità. Nel tempo che impiegherete a leggere questo articolo un bel pezzo di foresta si sarà già trasformato in bistecca: le mandrie rubano un ettaro di foresta amazzonica ogni 18 secondi. E un ettaro di verde in Amazzonia può contenere più di 400 specie arboree, un frammento importante della più ricca concentrazione di biodiversità del mondo.

Inoltre, non solo il Brasile è il più grosso esportatore di carne a livello mondiale (l’export è aumentato di sei volte tra il 1998 e il 2008), ma le prospettive sono allarmanti: nel 2018 ogni tre tonnellate di carne vendute a livello internazionale due saranno brasiliane.

La partita però non è ancora persa. Per anni Brasilia ha incoraggiato l’attacco all’Amazzonia, ma la pressione internazionale ha ormai raggiunto un livello critico. Il Met Office, da Londra, ha avvertito: la foresta amazzonica contiene un decimo di tutto il carbonio conservato negli ecosistemi terrestri.

E l’anno scorso, per la prima volta, il Brasile ha risposto lanciando un importante segnale di apertura: creare un Fondo per l’Amazzonia che punta a rastrellare 20 miliardi di dollari per finanziare la conservazione della foresta e il suo sviluppo sostenibile. Un impegno assunto in prima persona dal presidente Lula: «La lotta contro la deforestazione è un asse centrale del nostro piano di azione contro il cambiamento climatico. Ridurremo la deforestazione dell’Amazzonia del 72 per cento entro il 2018. In questa maniera il Brasile eviterà l’emissione di 4,8miliardi di tonnellate di anidride carbonica».

«Ma il tempo dell’ambiguità è scaduto», osserva Chiara Campione. «Non si possono chiedere fondi per l’Amazzonia e finanziarne la distruzione. Non ci si può iscriversi nell’elenco delle aziende impegnate a difendere il clima e comprare materie prime che vengono dalla devastazione delle foreste pluviali».

Antonio Cianciullo
Fonte: www.repubblica.it
1.06.2009


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