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L'Irlanda sulla via greca Berlino tassa le banche


Tao
 Tao
Illustrious Member
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La tempesta torna a spirare sull'Europa. Ma stavolta prende di mira la verde Irlanda, appena qualche anno fa indicata come un esempio da seguire, fino a meritarsi il soprannome di «tigre celtica». Erano gli anni della disinvoltura finanziaria, della «bonanza» sui «derivati», con gli irlandesi a rimorchio dei broker della City londinese.

Poi tutto è finito, tre anni fa, all'improvviso. Il governo della repubblica si è dovuto svenare per impedire il fallimento delle sue banche più importanti. e proprio l'ultimo salvataggio in ordine di tempo - quello della Anglo Irish Bank - comporta costi pari a 10 miliardi di euro. Ma per i contribuenti il conto potrebbe salire fino a 25 (misteri gloriosi della finanza, appunto). Tanto è bastato all'agenzia di rating Standard&Poor's (statunitense come Moody's e Fitch) per decidere di tagliare la valutazione del debito pubblico - quindi dei titoli di stato - irlandese. Da AA a AA-. Che sembra un'inezia, ma comporta pagare interessi sui titoli un bel po' più alti (aggravando così il debito). Il bello, si fa per dire, è che la motivazione di S&P parla proprio dei costi degli aiuti alle banche, senza peraltro escludere altri downgrade.
La decisione è stata vivacemente contestata dal Tesoro di Dublino, ma non ha migliorato la situazione dei mercati, tornati nell'incubo di un possibile default (fallimento) di uno dei paesi dell'euro. Il contagio della paura ha preso immediatamente di mira tutti i titoli degli stati «periferici», a cominciare ovviamente dalla Grecia, interessando Spagna, Portogallo e naturalmente Italia.

In apparente controtendenza va la Germania, in cui l'indice Ifo (la «fiducia» mostrata dalle imprese) è salito a sorpresa fino a 106,7 punti, invece di calare com'era nelle previsioni. Se ne trae la convinzione che anche il terzo trimestre sarà un periodo di crescita per l'economia teutonica, dopo il record segnato nel secondo trimestre. Ma anche la «ripresa» tedesca ha spiegazioni che meritano di essere indagate. Qui non si sono risparmiati soldi per salvare le banche, ma si è anche sostenuta con forza l'economia «reale», cogliendo i frutti della «moderazione salariale» imposta da quasi un decennio e della corrispondente accentuazione dell'orientamento all'esportazione. Il che ha permesso di aumentare la quota di prodotti venduti sui mercati «emergenti» senza peraltro avere effetti sui salari e l'occupazione interna.
Ma la Germania è un paese deciso. Per esempio ha rifiutato, proprio ieri, di modificare i criteri di calcolo del deficit (secondo Maastricht) nel senso chiesto dalla Slovacchia (escludere la spesa sociale, a partire dalle pensioni). Di più. Anche se il resto del G20 non è stato d'accordo, il governo ha presentato ieri il suo decreto - che dovrà essere approvato dal parlamento - che istituisce una tassa sulle banche, con cui verrà finanziato un fondo per far fronte ad eventuali nuovi tracolli. Una misura dagli effetti limitati - servirebbe, dicono tutti, se fosse istituita su scala globale - ma di un certo impatto «populista» in un momento difficile per Angela Merkel e la sua maggioranza politica.

Non esce invece dalle secche il Giappone. Nonostante, anche qui, le esportazioni abbiano fatto segnare cifre da favola (+23,5% in luglio, soprattutto verso gli altri paesi asiatici, Cina in primis), la dinamica della crescita segna un vistoso arresto. La responsabilità viene individuata nel «super-yen». La moneta nipponica, in contrasto con i fondamentali non eccelsi della sua economia, continua ad apprezzarsi rispetto a dollaro ed euro. In questo modo le merci del Sol Levante perdono terreno proprio sui mercati più ricchi e solvibili. Ma il ministero dell'economia, ieri, ha deciso di non intervenire per «raffreddare» la moneta. Per ora. Ma ogni giorno la situazione diventa meno sostenibile.

Francesco Piccioni
Fonte: www.ilmanifesto.it
26.08.2010


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