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Madrid, dal paradiso all'incubo Grecia


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Dopo 14 anni di crescita doppia rispetto agli altri paesi europei, la crisi fa traballare il «modello Spagna». Il governo socialista risponde aumentando l'Iva e già prepara tagli alla spesa pubblica per 50miliardi. I popolari minacciano rivolte di piazza ma hanno armi spuntate

Mamma mia che tonfo. Nel giro di due anni la Spagna di José Luis Rodríguez Zapatero è passata dagli altari alla polvere. La crisi globale esplosa nella seconda metà del 2008 è arrivata un po' in ritardo in Spagna. Ma quando è arrivata è stata uno tsunami. E ora il paese e il suo leader, osannati da destra e da sinistra, si ritrovano alle corde. Ricacciati indietro dopo gli anni della bonanza economica e politica. Quando il Fmi e la finanza internazionale innalzavano peana al social-liberismo del governo del Psoe (non nuovo peraltro, aveva già cominciato Felipe González, fu sua nell'85 la prima riforma delle pensioni e nell'87 la legge sui fondi pensionistici privati). Quando la Spagna si era issata al rango di ottava potenza economica del mondo e Zapatero annunciava il riuscito sorpasso sull'Italia nel pil pro-capite e lanciava quello prossimo su Francia e Germania. E quando i gruppi per i diritti civili e la sinistra europea si spellavano le mani ad applaudire Zapatero per ottime ragioni e per contrasto con ciò che succedeva nei loro (nostri) paesi: ritiro dall'Iraq e dal Kosovo (ma non dall'Afghanistan), politica sull'immigrazione, matrimoni gay, parità di genere, laicismo...

«W Zapatero». Ma i diritti civili sono una cosa e l'economia («stupido») un'altra.

Il 9 marzo 2008 si votò qui in Spagna e i socialisti di Zapatero tornarono a vincere la partita con la destra del popolare Mariano Rajoy, sconfitta a sorpresa il 14 marzo 2004, quando si votò sull'onda emotiva della strage terrorista di tre giorni prima. Vinsero ma non stravinsero.
Allora si disse che Zapatero non era stato fortunato, perché se avesse anticipato il voto di qualche mese, prima che si intravvedessero sull'orizzonte spagnolo i segni della burrasca in arrivo, avrebbe spazzato via la destra. Adesso viene da dire che nel marzo 2008 fu fortunato, perché se si fosse potuto votare qualche mese dopo, senza più la possibilità di parlare solo di un lieve «colpo di freno» o un passeggero «rallentamento», con ogni probabilità a essere spazzato via sarebbe stato lui.
Una fortuna? Non sarebbe stato meglio, ragionando con il cinismo della politica, per lui e il governo di centrosinistra che ad affrontare lo tsunami si ritrovassero oggi Rajoy e la sua destra scomposta che non hanno nulla da contrapporre alle sanguinose misure di salvataggio adottate da Zapatero - e alle sue proposte di una sorta di «governo di unità nazionale» contro la crisi -, se non una raffica biliosa di «no» e un vuoto bla-bla-bla?

Un caso solo, quello dell'aumento dell'Iva - 2 punti, dal 16 al 18% - a partire da luglio. Una misura troppo «facile», «intempestiva» e «ingiusta», come dice Nicolás Sartorius, che sta provocando, oltre alle proteste dei sindacati, le minacce dei settori ultrà del Partido popular di scatenare «la rivolta» di piazza. Senza vergogna: «la raccomandazione» di aumentare l'Iva - oltretutto più bassa delle media Ue, che è del 20% - è una di quelle rivolte a un eventuale governo di destra dal Faes, una sorta di pensatoio del Pp alimentato dall'ex-premier José María Aznar.

Sembra evidente che da parte dei popolari non verrà alcun sostegno alle proposte del governo. Zapatero ha lanciato il ballon d'essai di un «Pacto nacional anticrisis», una specie di riedizione su scala ridotta dei «Patti della Moncloa», gli accordi fra governo, sindacati, «patronal» e partiti (Pce incluso) che furono la pietra angolare della (fin troppo) celebrata «transizione morbida» dal franchismo alla democrazia. Ma il 2010 non è il 1977 e la commissione «per la riattivazione dell'economia e la creazione di posti di lavoro», con dentro partiti e soggetti economici e sociali (Ceoe, la confindustria spagnola, e Comisiones obreras e Ugt, i sindacati), alla cui testa Zapatero ha messo la ministra Elena Salgado, responsabile dell'economia, non è decollata.
La strategia del Pp sembra la stessa dei primi 4 anni d'opposizione, la «crispación»: creare un clima di tensione permanente, lasciar bollire Zapatero nel brodo della crisi nella convinzione che ci affogherà dentro, puntando tutto sul voto del 2012. I sondaggi danno Il Pp avanti di 6 punti, abbastanza ma non rassicurante. Come Papandreou in Grecia, Zapatero cala ma (finora) tiene e ha ancora 2 anni per raddrizzare la situazione.

Un test, quasi perduto in partenza, saranno le elezioni municipali e autonomiche del 2011. Per le politiche del 2012 tutto dipenderà da come andrà l'economia. Se allora la recessione non sarà finita (nel quadriennio 2010-2013 il «piano di stabilità» inviato a Bruxelles per l'approvazione prevede ancora recessione nell'anno in corso, poi la ripresa negli altri 3 anni, 1.8, 2.9 e 3.1%) e non si sarà cominciato a riassorbire la tremenda disoccupazione (4.5 milioni a spasso, quasi il 20% della popolazione, 4 mila licenziamenti al giorno,1.2 milioni di posti di lavoro evaporati nel 2009), i rischi saranno non solo per il destino politico di Zapatero e dei socialisti ma anche per la coesione sociale della Spagna, che finora nonostante tutto ha retto l'onda d'urto.
Dopo 14 anni di crescita economica doppia rispetto alla media europea, il 2009 si è chiuso con il -3.6%, la maggior caduta dell'ultimo mezzo secolo. E con la disoccupazione, che nel 2006 sotto la spinta forsennata del boom edilizio si era ridotta all'8%, precipitata a quasi il 20%, il doppio della media Ue e non lontano dal 24% del '94.

Paro e recessione (che potrebbe essere anche più dello 0.3% previsto dal governo e che in ogni caso farà della Spagna l'unica fra le economie maggiori della Ue in rosso anche quest'anno) destinati a continuare nel 2010, l'ha riconosciuto lo stesso Zapatero.
Improvvisamente il «modello Spagna» ha scoperto che i conti non tornavano più. Il deficit fiscale all'11.4% in rapporto al pil, è inferiore solo a quello della pecora nera Grecia e per farlo rientrare nel canonico 3% nel 2013 Zapatero ha dovuto mettere mano alla scure impegnandosi a tagliare la spesa pubblica per 50 miliardi di euro.

Tagliando cosa e dove? Lui giura che «i diritti dei lavoratori» non saranno toccati. Ma la sua linea, dopo vari zig-zag e sotto la pressione «dei mercati», degli euro-tecnocrati di Bruxelles e dei poteri forti di Madrid, non sembra quella pretesa da Comisiones obreras e Ugt (sindacato di matrice socialista) - «creazione di posti di lavoro, lavoro tout court e lavoro di qualità» -, ma piuttosto quella di un classico programma di aggiustamento: «plan de austeridad» (contenimento e forse congelamento salariale), «reforma del mercado laboral» (più flessibilità), «reforma de las pensiones» (età pensionabile portata da 65 a 67 anni). E come ciliegina, non imposte sul patrimonio o sui guadagni di Borsa, ma l'aumento dell'Iva.
La grande crisi è arrivata più lenta in Spagna ma è anche quella che lascerà le ferite più profonde e più tarderà a uscire, è cominciata come crisi finanziaria (anche se qui le banche hanno tenuto e una sola - la Caja Castilla-La Mancha - è saltata) ma ha colpito e devastato un'economia reale strutturalmente debole. E alla fine del giro, a quanto sembra, sarà pagata dai «lavoratori». A meno che San Zapatero non sia un mago e faccia un nuovo miracolo.

Maurizio Matteuzzi
Fonte: www.ilmanifesto.it
21.03.2010


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