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Salviamo l’Europa, adesso!


Eshin
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Salviamo l’Europa, adesso!

di Paolo Raffone*
L'europeismo è al palo e la disaffezione verso Bruxelles è ai massimi storici. L'Unione Europea deve scegliere: rilancio o regressione dell'integrazione continentale. La partita decisiva si giocherà fra Londra e Berlino, mentre il mondo corre verso Oriente.

Per approfondire: "Alla guerra dell'euro"

[Carta di Laura Canali tratta da Limes 4/2013 "L'Italia di nessuno"; per ingrandirla, scarica il numero su iPad]

L’Europa è diventata un “potere negativo”. Lo testimonia il tasso di impopolarità raggiunto presso le opinioni pubbliche nazionali. Eppure, nel mondo, c’è tanta voglia di Europa. Non riconoscere che per motivi sbagliati si è compiuto il genocidio dell’europeismo e che se ne possono identificare le cause, scandendone i momenti precisi, impedirà di salvare l’Europa. L’alternativa tra rilancio o regressione dell’integrazione europea è reale. Mentre il futuro europeo si gioca tra Londra e Berlino, il sillogismo europeista non è la soluzione corretta. Questo saggio ripercorre la storia recente del progetto europeo, offrendo una chiave di lettura per immaginare l’Europa nella nuova “costellazione sistemica” mondiale.

L’europeismo illusorio

Dopo circa 30 anni dall’istituzione della Cee (trattati di Roma, 1957), l’adozione dell’Atto unico europeo (Aue, 1986) rilanciò le disattese previsioni dei trattati in materia di “mercato comune generalizzato”. Nacque il mercato interno europeo, anche detto “unico”, che doveva essere realizzato entro il 1992. Questa decisione non fu adottata per grandi ragioni ideali o per un progetto comune di sviluppo europeista, ma fu dettata dalla necessità di resistere alla colonizzazione delle multinazionali e dei prodotti manifatturieri nipponici. Il Giappone era l’incubo degli europei e degli americani, che vedevano minacciata la propria supremazia mondiale, commerciale e finanziaria. Negli anni Ottanta lo yen comprava tutto.

A questa situazione si aggiunse l’improvvisa implosione dell’Unione Sovietica (1989-1991), che creò le condizioni per la riunificazione della Germania. Mentre gli americani mantenevano un atteggiamento tiepido verso la Cee per privilegiare, piuttosto, il ruolo geostrategico della Nato, la Francia temeva che con la Germania unita il proprio ruolo in Europa sarebbe stato marginalizzato. Lo scopo principale dei negoziati del Trattato di Maastricht (Teu) fu così quello di europeizzare la Germania attraverso meccanismi che ne limitassero la potenza. Nacque così, senza grandi ideali europeisti, la Ce (Comunità Europea) e il progetto di Uem (Unione economica e monetaria) e di Ue (Unione Europea). Fu il prezzo che la Germania di Kohl dovette pagare al francese Mitterand. Ma questo mero scambio utilitaristico venne opportunatamente ammantato di spirito europeista, suggellato dall'iconografia dell’asse franco-tedesco. Dove hanno potuto, i cittadini europei hanno espresso la loro contrarietà al Trattato, e finanche in Francia fu approvato da un'esigua maggioranza attraverso un referendum popolare. In un libro del 1992, l’ambasciatore americano James Lowenstein descriveva il Teu come un “trattato pasticciato, un cattivo testo, inconsistente, incomprensibile e impraticabile”.

L’inchiostro delle firme al Teu era ancora fresco quando si capì che il paradigma del mercato unico europeo era stato monopolizzato dalla capacità tedesca di far adottare agli altri europei i propri standard industriali e qualitativi. Nessuno si era opposto seriamente, sia perché carenti di un valido sistema nazionale di certificazione, di standardizzazione e di qualità (fatta eccezione per la Francia), sia perché il sistema produttivo tedesco, la qualità dei suoi prodotti e l’organizzazione della sua produzione erano l’unica barriera - competitiva e opponibile - agli asiatici. Il risultato fu che solo i prodotti che rispettavano le normative comuni e in possesso di valide certificazioni di qualità potevano circolare liberamente nel mercato unico europeo. Al “buy American” si era aggiunto anche il “buy German”. Le grandi industrie manifatturiere italiane, francesi, spagnole e britanniche furono notevolmente penalizzate. Gli industriali più agili nella riconversione, le piccole e medie imprese di ampie regioni manifatturiere italiane (il Triveneto e, in parte, anche l’Emilia Romagna) e francesi (Rhone-Alpes e Alsace), diventarono fornitori e subfornitori nel circuito produttivo tedesco e principalmente bavarese.

Quando la penetrazione dei prodotti giapponesi in Europa declinò fu non tanto per gli effetti del mercato unico, quanto per lo scoppio della bolla finanziaria che avrebbe portato il Giappone alla così detta ‘decade persa’ (1991-2000). E mentre si celebrava il rilancio del blocco commerciale europeo, si dimenticava che negli anni ’86-’94 avevano avuto luogo le sessioni dette “Uruguay Round”, per la liberalizzazione del commercio mondiale, che avrebbero portato nel 1995 alla creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Da quel momento il mondo non sarebbe più stato lo stesso: se la membership della Russia dovette aspettare il 2011, l’impeto clintoniano per il “mondo piatto” aprì alla Cina una ‘corsia preferenziale’ che si concluse rapidamente nel 2001. Fu così che alla ‘colonizzazione’ commerciale nipponica si sostituì quella cinese, il nuovo incubo americano ed europeo.

Il dibattito europeista della seconda metà degli anni Novanta verteva, in maniera vibrante, sulle 3 ipotesi tradizionali – federalista, confederalista, funzionalista – per la strutturazione di un’Europa credibile, sostenibile e forte. L’unica proposta concreta del periodo fu quella funzionalista, già elaborata dalla Commissione europea guidata dal socialista francese Jacques Delors. Le indecisioni dei socialisti europei impedirono, però, la realizzazione del piano Delors aprendo la via alla trasformazione tecnocratica dell’Europa e alla sostituzione del progetto di integrazione e sviluppo con quello dell’adesione a ‘pacchetti chiusi’ (non negoziabili). La più modesta Commissione europea presieduta dal cristiano-sociale lussemburghese Jacques Santer tentò di salvare l’essenza dell’europeismo, proponendo di rilanciare la competitività attraverso la centralizzazione a livello europeo delle funzioni economiche e monetarie e la creazione di un fondo europeo di ricerca e sviluppo.

Vale la pena ricordare il dibattito tra Lucio Caracciolo ed Enrico Letta pubblicato nei 2 libri gemelli “Euro NO” - “Euro SI” (Laterza, 1997). Nelle conclusioni, Caracciolo scriveva: “La 'flessibilità' è l’ideologia che serve la geopolitica dell’Euronucleo. (…) Come scrive un europeista convinto com’è Giuseppe Guarino, questa costruzione europea è ‘la fine della politica’ e ci porterà al superamento dello Stato sovrano in favore dello ‘Stato regionale europeo’. (…) Non credo alle ‘terze vie’ cui accenna Enrico Letta; invece, l’Europa deve scegliere tra 2 ipotesi: restare un’alleanza di Stati o diventare uno Stato. (…) Non abbiamo costruito un punto di vista italiano, ma ci conviene restare in Europa e riconquistarvi un ruolo da protagonista. (…) La migliore Europa per noi è quella di cui facciamo parte a pieno titolo, la peggiore è quella che ci esclude [ndr. quella prevista dal Teu]. L’euro senza l’Italia non è scritto nelle stelle, né è stabilito il futuro dell’Euronucleo, basti pensare alle differenze tra Francia e Germania. (…) Si potrebbe cominciare a pensare di rinviare l’euro che ci divide e che allontana i cittadini dall’ideale europeo per ritornare sulla via maestra della politica”. Letta replicava che “il Teu è per l’Italia un obiettivo storico che vale i sacrifici necessari per raggiungerlo. (…) Saper incidere sulle dec
isioni europee prima che esse siano adottate sarà una delle condizioni su cui si misura la nostra capacità di guardare all’approdo dell’euro in modo nuovo: non più come una rincorsa, ma da protagonisti di un’Europa non più sentita come un’entità lontana da noi”.

Tuttavia, nel periodo 1997-2001, qualcosa di grave è avvenuto in Europa, con il silenzio assenso degli europeisti. L’europeismo dei trattati ha improvvisamente cambiato pelle e discorso. Una serie di “colpi di Stato” ha mutato radicalmente il percorso politico e strutturale che fino a quel momento era seguito in Europa. Si può sintetizzare dicendo che ‘le policy hanno sostituito la politica’ e che ‘la governance ha sostituito il potere di governo’.

Qui di seguito i fatti, che nel corso del saggio saranno analizzati in maggior dettaglio, che hanno portato alla morte dell’europeismo:

a) Nel 1997 si fece approvare il regolamento 1466/97 che, in flagrante violazione dei trattati europei e in modo particolare del Teu, invertiva la logica politica decisa e approvata: la moneta non si adatta alla realtà, ma la realtà si adatta alla moneta. All’Europa dello “sviluppo armonioso” si sostituiva quella della “crescita vigorosa”;

b) Nel 1999 i “bombardamenti umanitari” fondati sull’illogica menzogna del diritto all’ingerenza umanitaria furono sostenuti e praticati dalle sinistre di governo in Europa, tradendo gli ideali e i principi costituzionalizzati di pace, cooperazione e solidarietà;

c) Nel 1999 lo scandalo artificioso che ha portato alle dimissioni della Commissione Santer ha smantellamento il progetto per la creazione del fondo europeo per la ricerca e lo sviluppo, condannando l’Europa a non essere competitiva e quindi a non crescere;

d) Dal 1999 gli Usa e la Cina hanno costituito un partenariato di fatto, un trade-off ai danni dell’Europa per il quale la Cina acquistava massicciamente titoli in dollari ottenendo in compenso l’accesso al mercato europeo e così devastando la produzione industriale del continente;

e) Dal 2001 l’allargamento dell’Ue ai paesi dell’ex blocco sovietico ha sostituito il principio integrazione/sviluppo con quello chiuso di adesione;

f) Dal 2001 in forza dei gravi eventi terroristici che colpirono gli Usa, l’adozione del Patriot Act ha determinato la definitiva subalternità dell’Europa in materia di intelligence, cooperazione extra giudiziale e trasferimento di dati personali e bancari.

Perché essere pro-Europa

Dell’originario significato della parola europeismo resta ben poco. L’europeismo è un contenitore di sentimenti ambigui che tentano di convivere (male) in un quadro di riferimento che dal 1999 è stato strutturalmente cambiato perché gli obiettivi olistici di pace, sviluppo armonioso, crescita sostenibile, rispetto ambientale, solidarietà e miglioramento del tenore e della qualità della vita sono stati svuotati di significato reale. I diritti derivanti da quegli obiettivi, benché già normati a livello europeo, sono inesigibili in quanto sostituiti da un unico “obbligo di risultato”: realizzare, a qualsiasi costo, la “crescita vigorosa”.

Dopo 15 anni si può facilmente constatare che il “vigore” non si è visto e che la “crescita” si misura solo in termini di recessione e diseguaglianze sociali. Ancora oggi sul sito ufficiale dell’Eurozona campeggia il messaggio: “Crescita e lavoro”.

Abbiamo una moneta astratta che, diversamente da chi l’aveva voluta, agisce in 17 Stati con metodi “robotizzati” contro gli obiettivi che gli europeisti avevano sottoscritto. Ad essa si aggiungono altre 11 monete tradizionali perché ancora nazionali.

Dell’Unione, sia essa monetaria oppure economica, si vedono tratti discontinui e spesso contraddittori. In conseguenza, considerare i dati macroeconomici dei 28 paesi membri dell’Ue in termini aggregati, come fanno spesso i difensori d’ufficio dell’europeismo, è azzardato e mistificatorio. Essi confondono, infatti, la burocratica Ue con il mercato unico europeo che non è sinonimo di unione economica. Il mercato unico fu la migliore realizzazione tangibile dell’europeismo ma, dopo gli effetti della globalizzazione commerciale, esso non rappresenta più una specificità europea bensì il paradigma comune di un sistema economico mondiale. Se il mercato unico europeo vuole sopravvivere all’onda d’urto della globalizzazione non resta ormai altra alternativa che fondersi in una zona di libero scambio ancor più ampia che includa l’America del Nord e magari anche alcune aree del Nord Africa o della Russia.

L’integrazione europea è dunque a un bivio, sospesa tra regressione e rilancio?

Purtroppo, la domanda non è retorica.

Siamo convinti che l’Europa prevista dai trattati, da quello di Maastricht a quello di Lisbona, debba e possa esistere. Se la domanda di Europa è forte in quasi tutto il mondo, essa è ai minimi storici all’interno del suo stesso territorio e tra i suoi popoli. L’inversione di tendenza sull’essere europeisti è misurabile in modo molto marcato a partire dal 2001, quando i cittadini europei hanno percepito che la “crescita vigorosa” non era un surrogato dello “sviluppo armonioso”, ma che essa celava un’indicibile ingiustizia. Un’ingiustizia grave perché disattendeva le speranze, umiliava le identità e la dignità di coloro che, popoli, nazioni e Stati, erano proprio i principali azionisti e potenziali fruitori dell’Europa. Dell’ingiustizia si legge nel bollettino economico della Bce (secondo trimestre 2013) che presenta dati drammatici. Essi dimostrano come negli ultimi 5 anni, invece della “crescita vigorosa”, siano crollate tutte le economie dei paesi periferici dell’Eurozona. In particolare, dal 1999 al 2013 è più che raddoppiato il valore dei trasferimenti interni così contribuendo al sensibile miglioramento del saldo del conto corrente dell’Eurozona. Insomma, oltre all’ingiustizia anche la beffa di lavorare a beneficio degli altri.

Nel tentativo di correggere la percezione negativa installatasi nell’immaginario dell’europeo medio, gli apologeti dell’europeismo hanno organizzato vistose campagne d'informazione e propaganda a favore dell’Europa. Purtroppo, però, l’europeismo non è sbagliato nella sostanza ma è stato sconfitto dalla realtà dei fatti. Questi ultimi, nelle pance dei popoli, contano molto di più dei grandi ideali. Unione Sovietica docet.

L’Europa per continuare nel suo cammino, iniziato più di 1000 anni fa, ha bisogno di uno choc qualitativo, anagrafico e culturale. Una nuova generazione di europei pro-Europa deve sostituire i consunti cantori dell’europeismo sconfitto. Questo cambiamento dovrebbe iniziare già nel funzionariato delle istituzioni europee, prepensionando massicciamente e reclutando nuove forze e saperi. Mentre le tecno-burocrazie tentano malamente di difendere lo status quo, questa voglia di Europa nuova, perché la si vuole diversamente unita, sarà certamente rappresentata nel parlamento europeo dopo le elezioni del maggio 2014.

Il federalismo europeista non basterà più a sedurre e a convertire gli animi degli europei. È un’idea razionalista che si ripropone fuori tempo massimo ai popoli europei. Non è per caso che finanche la Germania, che è uno stato federale, stia per introdurre il referendum popolare su tutte le questioni strutturanti che riguardano le decisioni europee. Per il federalismo si deve poter contare sulla volontà sovrana che si esprime nel potere di governo che si federa. Federare non significa delegare o cedere quote di sovranità: poiché la sovranità e il potere di governo sono gli elementi essenziali che sono stati cancellati dal 1999 in favore di una tecnostruttura robotizzata che gestisce gli Stati con un controllo remoto, il federalismo europeista è ormai una finzione, irrealizzabile nei suoi aspetti sosta
nziali.

Al rinascimento dell’Europa, l’alternativa è il suo declino, frammentato e inesorabile.

Per questa ragione si deve essere pro-Europa.

L’urgente necessità di essere pro-Europa emerge da molti interventi autorevoli. Dal potente raggruppamento tedesco dell’Alternativa per la Germania (AfD) ai molti gruppi politici di estrema sinistra e di estrema destra in tanti paesi europei, fino ai grillini italiani. Illustri professori di diritto, economisti, sociologi, scrittori indipendenti e consiglieri illuminati delle tecnostrutture e del parlamento europeo si uniscono al coro di voci che chiedono una nuova Europa, diversamente unita, per non farci sottrarre la speranza del futuro.

Il grido d’allarme e di speranza “Europe, réveille-toi!” risuona in molte menti europee, russe, cinesi e americane (si veda il bel libro di Philippe Herzog, con prefazione di Michel Rocard e di Michel Barnier).

Su un punto i dirigenti europeisti d’antan hanno ragione: il populismo anti-europeista porta alla frammentazione del continente europeo. Però, gli stessi europeisti tacciono nell’individuare la causa principale, da essi stessi subita, dello stato di cose attuali. Così facendo, anche loro contribuiscono indirettamente, probabilmente in buona fede, alla frammentazione che potrebbe portare alla regressione del processo di integrazione europea.

Purtroppo il “falso” euro c’è

Più di 20 anni fa i leader politici europei si accordarono sul testo del Trattato istitutivo dell’Unione europea (Teu) che all’articolo 2 specificava che “La Comunità ha il compito di promuovere, mediante l'instaurazione di un mercato comune e di un'unione economica e monetaria e mediante l'attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 3A, uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell'insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l'ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”.

A fronte di questa promessa di sviluppo armonioso, il Teu prevedeva numerosi vincoli, tra i quali i ben noti limiti del 60% del debito totale in rapporto al pil e quello del 3% di deficit annuale rispetto al pil. Questi limiti furono inseriti sulla base dell’esperienza storica di Stati Uniti e Germania e temperati da criteri che tenessero conto della tendenza a raggiungerli nel contesto reale del momento.

Inoltre, il Teu prevedeva che per la realizzazione del mercato unico e per l’entrata in vigore della moneta unica dovesse raggiungersi un sufficiente livello di omogeneità tra i paesi membri dell’area euro. Infatti, seguendo scrutini periodici, sarebbero stati consentiti divari di oscillazione di 1,5 punti per il tasso d'inflazione e di 2 punti per il tasso d'interesse a lungo termine. Il 3 maggio 1998 superarono lo scrutinio 12 Stati (inclusa la Spagna, pienamente confermata nel 1999).

Quindi, sebbene gli obiettivi fossero stringenti, i governi dei paesi membri erano liberi di esercitare il loro potere di politica economica, anche indebitandosi. Limiti stringenti, con verifiche, ma nel rispetto della sovranità costituzionale di ciascun Stato membro!

Come ha abilmente notato l’illustre giurista italiano Giuseppe Guarino, qualcosa di inspiegabile è avvenuto tra il 7 luglio 1997, data di approvazione dal Consiglio del regolamento n° 1466/97 elaborato dalla Commissione europea, e il 1 luglio 1998, data della sua entrata in vigore (“regolamento per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche”). In pratica, sebbene la Commissione dovesse ancora compiere gli accertamenti per verificare l’ammissibilità di uno Stato ai criteri fissati dal Teu, il regolamento 1466/97 interveniva a prescindere da essi. Infatti, i regolamenti comunitari sono atti giuridici immediatamente vincolanti per tutti i paesi membri. Quindi il Teu è stato improvvisamente reso esecutivo (già alla data di adozione del regolamento 1466/97) a prescindere dalla bontà dell’esito delle verifiche della Commissione. Un abile gioco di date che ha aperto la strada giuridica al “pareggio di bilancio”, che recentemente è stato imposto a modifica delle costituzioni dei paesi membri, e al Fiscal compact che impone dal 2015 un aggiustamento obbligatorio del disavanzo di bilancio per portarlo entro il limite del 60% del pil.

Il regolamento 1466/97 prometteva una “crescita vigorosa”, sostenibile e favorevole alla creazione di posti di lavoro. Dello “sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell'insieme della Comunità” non vi era più traccia. Così come dell’esercizio del potere governativo in materia di politica economica e della sovranità costituzionale per la realizzazione dei criteri fissati dal Teu per rendere possibile l’introduzione dell’euro.

Con grande fretta, e sotto una forte pressione, il 1 gennaio 1999 è nato l’euro che, caso unico nella storia, è una moneta nei confronti della quale i vertici politici, pur partecipando alla sua gestione, non avrebbero avuto la responsabilità esclusiva. Si conferma l’adagio per cui è raro trovare uno Stato senza una propria moneta, ma non c’è mai stata una moneta senza Stato.

L’eccezione monetaria è rappresentata dall’euro e dai recentissimi bitcoin, mentre sul piano finanziario le piscine nere (dark pool), le transazioni ad altissima frequenza e le operazioni opache sui derivati (over the counter) generano masse monetarie virtuali che risultano svincolate da ogni disciplina giuridica democratica.

Il risultato del periodo 1986-1999 è che dell’Atto unico europeo (Aue, 1986) si vedono gli effetti nella costruzione del mercato unico, nella realizzazione di un’area senza dazi per la circolazione di beni, servizi e soprattutto di capitali in un regime di liberalizzazione concorrenziale, mentre della costruzione dell’Unione economica e monetaria (Teu, 1992) non v’è traccia tranne che per una parziale realizzazione di una moneta unica i cui obiettivi pregnanti, fissati dal regolamento 1466/97, sono ben diversi da quelli previsti dal Teu. Per questa ragione, secondo il già citato Guarino, la disciplina dell’euro imposta dal regolamento 1466/97, e fino al più recente Fiscal compact, non è illegittima ma addirittura nulla. La nullità deriverebbe dal fatto che il regolamento 1466/97 ha violato, sostituendovisi, lo spirito e il dettato del Teu che aveva l’obiettivo di creare una “Unione economica” lasciando agli Stati, nella loro organica competenza di governo, la responsabilità costituzionale per il raggiungimento degli obiettivi di convergenza che erano la precondizione giuridica anche per l’introduzione dell’euro. Insomma, si è trattato di una vera e propria “espropriazione” della sovranità in materia di gestione economica e monetaria. Il Teu, fonte giuridica superiore al regolamento, non stabilisce in alcun modo la “espropriazione” ma insiste sulla co-gestione dell’Unione economica da parte dei suoi firmatari sovrani, cioè gli Stati.

Ne discende che la situazione venutasi a creare dal 1 gennaio 1999 è di “eccezione” dei sistemi costituzionali negli Stati aderenti all’euro. Il Guarino, non a caso, usa un termine forte: “colpo di Stato”.

In questo quadro, anche la Germania, oggi ingiustamente accusata di egoismo, è stata “raggirata”. Infatti, se da un lato ha potuto involontariamente profittare di alcuni effetti congiunturali che le hanno permesso di creare un imponente disavanzo commerciale negli scambi globali, dall’altro sono già evidenti i termini del “lucro cessante” che una tale politica economica e monetaria le sta infliggendo nel mer
cato interno europeo. Inoltre, sebbene la Germania sia l’unico paese in Europa che, seguendo una sua consolidata tradizione giuridica, “costituzionalizza il diritto internazionale” (Jürgen Habermas; si veda ad esempio il testo del 2012, “Einspruch gegen die Fassadendemokratie”) e quindi anche quello europeo, è evidente che nel caso del citato regolamento 1466/97, non trattandosi formalmente di un trattato europeo o internazionale, la procedura di verifica democratica e costituzionale è stata elusa.

Invece, per i trattati istitutivi del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) e del “patto di bilancio” (Fiscal compact), entrambi trattati di diritto internazionale e non di diritto europeo in senso stretto, la Bundesverfassungsgericht ne ha confermato nel settembre 2012 la compatibilità con la Costituzione tedesca fissando però dei precisi limiti da rispettare nell’atto di ratifica. In questa sentenza, oltre a una serie di limiti relativi agli effetti di questi atti a livello subnazionale (quindi, ad esempio, per le Landesbank), la Corte ha richiamato alcune fra le sue precedenti sentenze in materia di atti europei e il contenuto degli articoli del Teu che le hanno permesso di ribadire che “sono i parlamenti nazionali le sedi della responsabilità di bilancio”. È importante sottolineare che poiché la legittimazione indiretta della policy europea avviene attraverso i parlamenti nazionali, sono proprio questi ultimi che devono prevalere sulle decisioni intergovernative adottate nella cornice dell’integrazione europea. Negli ultimi anni, il dibattito interno tedesco sul futuro dell’Europa è stato tra i più seri e approfonditi del continente. Esso ha costantemente confermato che la sovranità del popolo tedesco deve prevalere sull’esercizio del potere di governo che è sottomesso alla legittimazione giurisdizionale costituzionale oppure a quella politica attraverso i referendum popolari (si veda, tra gli altri, “The euro debate in Germany: Towards political union?”, Ulrike Guerot, 2012).

D’altra parte, proprio per queste ragioni, e non per idiozia egoistica, la Germania di Kohl aveva voluto e ottenuto che l’euro rassomigliasse al marco come precondizione alla firma del Teu. Sappiamo anche che per la gestione della moneta unica e delle competenze della Banca centrale europea, la Germania ha dovuto far ricorso a una serie di trattati di diritto internazionale (non a dei trattati europei) per evitare che prevalesse il metodo comunitario per la gestione dell’euro, che avrebbe compromesso l’intento politico già espresso da Kohl.

Da ciò derivano i complessi “accordi contrattuali” (contractual agreements) che sono attualmente in discussione per regolare giuridicamente la responsabilità di ciascuno Stato rispetto a un altro membro dell’Eurozona (una sorta di contratti di pegno reciproci e bilaterali tra i membri dell’Eurozona). In pratica, la Germania, non avendo convenienza a disfarsi del “falso euro”, sta cercando di correggerlo “federalizzandolo” attraverso una serie di stringenti “gabbie” giuridiche (di cui i contratti di pegno sono paradigmatici). Alla fine, il “nuovo euro” rassomiglierà molto di più al marco (che era una moneta, non a caso, federale, come lo è anche il dollaro americano). Tuttavia, mentre Kohl potette proporre la generosa equivalenza paritaria tra il marco della Germania federale e quello DDR, oggi il futuro dell’Eurozona è destinato a essere per fasce di valorizzazione differenziata. Infatti, si è consolidata la situazione per cui il valore nominale di un euro è uguale per tutti ma il suo valore reale è diverso secondo il territorio nel quale lo si utilizza. Ad esempio, lo stesso euro investito in Baviera produce un ritorno diverso dall’euro investito a Taranto. Solo così la moneta europea resterà una, ma in flagrante contravvenzione del Teu che prevedeva “un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”.

Queste considerazioni spiegano perché il ruolo della Germania sia così politicamente pregnante nel sistema europeo. Il recentissimo rinvio della decisione della Corte costituzionale tedesca in materia di unione bancaria ne è l’esempio più evidente. I tentativi di esercitare pressioni, anche indebite, com’è il caso del così detto spionaggio, non faranno che rafforzare il timore tedesco di perdere la propria sovranità democratica a favore di meccanismi monetari e finanziari incontrollabili. La Germania teme che i meccanismi di gestione di tipo anglosassone, di cui l’unione bancaria ne è un esempio, prevalgano sui suoi principi costituzionali. Ciò spiega anche la lentezza dei negoziati per la formazione di un nuovo governo che, diversamente da quanto molti osservatori riferiscono, non è dovuta alle difficoltà di accordo tra CDU e SPD ma alla enorme mole di decisioni con valenza europea che la coalizione governativa tedesca deve adottare e che rappresenterà. La “nuova Europa” si sta decidendo tra Berlino e Londra e non a Bruxelles. Non sorprende, quindi, che per la formazione del nuovo governo tedesco sembra che si dovrà aspettare l’inizio del 2014, di fatto relegando a un limbo anche il prossimo Consiglio europeo di dicembre.

Per approfondire: "La Germania tedesca nella crisi dell'euro"

A quanto scritto sinora si aggiungano considerazioni più ampie, che riguardano i rapporti di forza globali.

Ora dobbiamo salvare l’Europa

Quel che si deve fare è trovare un modo affinché la moneta unica diventi rapidamente un fattore di “sviluppo”, mentre le gravi contraddizioni dovute alla sua nascita rischiano di trasformarla nella pietra tombale dell’intero processo di integrazione europea. Più che gli ignari europei, sono Russia, Cina e Usa a temere questo scenario catastrofico (ma non irrealistico).

Due paesi membri del “mercato unico” dell’Unione Europea, Regno Unito e Germania, sono i più interessati a che l’euro produca in modo tangibile gli effetti previsti dal citato articolo 2 del Teu: lo “sviluppo armonioso”. Non a caso, mentre dell’asse franco-tedesco restano le acrimonie e gli aspetti cerimoniali, è il rapporto anglo-tedesco che deciderà le sorti del continente europeo, anche in relazione all’ingombrante alleato statunitense.

Il Regno Unito, o meglio la City di Londra, libera dalle “gabbie” dell’euro, intende restare uno dei pochi “nodi” imprescindibili della finanza mondiale. Senza “il riciclo” dell’euro, ma sopratutto dei suoi derivati finanziari, questa prospettiva si indebolirebbe. Ecco perché da oltre Manica si sostiene l’unione bancaria e l’accordo transatlantico commerciale e degli investimenti (Ttip), tra Ue e Usa. D’altra parte, con l’acquisizione del Nyse Euronext da parte di Ice (International commodity exchange di Atlanta), che ha seguito il consolidamento della Lse (London stock exchange) sulla dorsale occidentale delle borse europee (inclusa l’Italia), mentre la valorizzazione borsistica dell’economia reale europea si sposterà verso l’area dollaro, la gestione dei derivati si concentrerà, con lucro crescente, a Londra. L’antica area del marco (Germania, paesi baltici, nordici e dell'Europa centro-orientale) è esclusa (per ora) dal consolidamento guidato dalla Lse. Tuttavia, nonostante le relazioni anglo-tedesche siano piuttosto tese, è possibile che, nel quadro della modulazione generale del potere europeo e globale, la Germania trovi con Londra un trade off tra l’Eurasia e il Ttip.

La Germania, che ha guadagnato molto dai “trasferimenti interni” tipici di qualsiasi unione monetaria, adesso deve giocare una partita geopolitica delicatissima. Vincerla, o perire: accettare l’unione bancaria per il momento è un’eresia a Berlino, tanto per la CDU che la SPD. Sarebbe come chiedere al lupo di
proteggere le pecore. Le frizioni crescenti tra la Bce guidata da Draghi e Berlino testimoniano questo stato delle cose.

Per questa ragione, la Germania sta spingendo affinché la “federalizzazione” dell’euro avvenga in tempi rapidi (per sua fortuna, il Regno Unito ne è fuori) così da poter negoziare a livello globale da una posizione di forza con gli Usa, la Cina e la Russia portandosi in dote l’Eurozona. Nonostante le favole spionistiche, gli Usa potrebbero accettare un accordo con la Germania, specialmente se anche l’Ucraina rientrasse nella sfera di influenza di quest'ultima. Berlino sarebbe così il paradigma dell’“Impero indiretto” americano in Europa, sorvegliato dal Regno Unito e dalla stessa Germania. Per la Cina si tratterebbe di ottenere vantaggi commerciali e investimenti nell’Eurozona. Il vero problema è la Russia, dalla quale dipende non solo l’approvvigionamento energetico europeo e tedesco: le relazioni Ue-Russia languono, la politica energetica dell’Ue è un pasticcio e le vicende ucraine rischiano di peggiorare la situazione. La Germania ha bisogno di alleati di peso in Europa. Isolare la Germania è un errore che ci riporterebbe ai tempi tragici che seguirono il Trattato di Versailles del 1919.

Forse proprio l’Italia, come ha ipotizzato qualche giorno fa l’amministratore delegato dell’Eni in un suo intervento sul Financial Times, potrebbe offrire un assist alla Germania in cambio di un negoziato più politico sulle “gabbie” contrattualistiche legate all’euro. Forse è questo il vero senso politico della presidenza di turno dell’Italia nel secondo semestre del 2014: a) temperare l’ortodossia (anglosassone) sull’unione bancaria per permetterne l’accettazione alla Germania; b) ridisegnare la politica energetica europea che insieme alla Germania aiuti a garantire anche la Russia.

D’altra parte, l’allineamento tra l’Italia e la Germania esiste anche nella convinzione che “il modello istituzionale di riferimento è il federalismo: l’unico che riesca a tenere insieme 500 milioni di persone in democrazia e libertà” (Emma Bonino). Il ministro Bonino ricorda da tempo che la macchina europea “si è inceppata” e bisogna fare “un passo in avanti importante e coraggioso”, perché “non c’è un progetto alternativo”. L’Europa ha la possibilità di essere ancora protagonista nel nuovo scenario multipolare, perché ha asset d’avanguardia “come cultura, welfare, alfabetizzazione, potenzialità tecnologiche”, ma deve rafforzarsi con una prospettiva federalista. Il ministro immagina una “federazione leggera” che, non assorbendo più del 5% del pil europeo, possa finanziarne le funzioni essenziali di governo come la politica estera e di sicurezza, la ricerca scientifica, le grandi reti infrastrutturali. Si tratta di una “nuova visione che coinvolga pienamente i cittadini e i governi, con cui iniziare una nuova fase di rilancio e di crescita, favorendo la legittimità democratica della costruzione europea ed il ruolo dell'Unione come attore globale”. E per l’Italia, durante la presidenza del semestre, può esserci l’occasione “di tornare a essere pienamente protagonista del processo di integrazione europea”.

Riuscire a realizzare il federalismo europeo, sognato anche dai fondatori, in chiave di “unione politica” è probabilmente l’unica possibilità rimasta all’Italia per recuperare quel po’ di peso politico dopo il disastro economico e sociale che le è venuto dalla gestione “robotizzata” dell’euro. Si ritornerebbe quindi alle parole del 1997 scritte dal già citato Caracciolo? La presidenza di turno italiana è caricata di aspettative forse troppo ambiziose che, per un paese litigioso e instabile, potrebbero tramutarsi in un boomerang (Curti Gialdino). Ma non esiste altra alternativa al bivio che si presenta all’Europa e all’Italia: prendere decisamente la via della federazione europea, oppure quella della regressione dell’integrazione.

Per l’Italia i margini e i tempi di manovra sono strettissimi poiché nel 2015 entrerà a regime il Fiscal compact - il patto di bilancio europeo negoziato nel 2012 e in vigore dal 2013 - che obbligherà il governo italiano a un aggiustamento (taglio del bilancio statale e vendita di patrimonio per ridurre il debito pubblico) per circa 40-50 miliardi di euro all’anno per 20 anni. A questo pesante impegno si aggiunge l’obbligo di versare contributi al Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per 125 miliardi in 5 anni e al tempo stesso mantenere il pareggio di bilancio, oltre che a rispettare altri parametri.

In tale contesto, se non verranno ridiscussi i termini concreti dell’essere europeisti (i vari trattati e i regolamenti europei), ha senso parlare di crescita economica e rilancio economico dei paesi dell’Unione Europea?

Oggi si può dire che la situazione resterà delicatissima nei mesi a venire e i suoi esiti sono molto incerti.

Che cosa è successo tra il 1997 e il 1999

I partiti socialisti e socialdemocratici dominavano la scena politica di molti paesi chiave europei e quindi del Consiglio europeo: in Francia il governo socialista di Lionel Jospin (2/9/1997-6/5/2002); in Germania il governo di coalizione socialdemocratici-verdi guidato da Gerhard Schroeder (27/10/1998-22/11/2005) succedeva al lungo governo democristiano di Helmut Kohl; nel Regno Unito i laburisti di Tony Blair (2/5/1997-27/9/2007); in Italia il governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi (17/5/1996-21/10/1998) seguito da quello di Massimo D’Alema fino al 25/4/2000.

A livello europeo, la Commissione era presieduta dal cristiano sociale lussemburghese Jacques Santer (25/1/1995-15/3/1999) che, dopo le improvvise dimissioni anticipate, ha aperto la strada alla presidenza di Romano Prodi. È rilevante ricordare che dal 1994, Mario Monti, in quel momento rettore della Bocconi, era stato indicato come candidato italiano per la nomina a commissario europeo dal primo governo Berlusconi assieme alla radicale Emma Bonino. Il presidente della Commissione Jacques Santer assegnò a Mario Monti le deleghe a mercato interno, servizi finanziari e integrazione finanziaria, fiscalità e unione doganale. Il governo D’Alema riconfermò Mario Monti come commissario italiano che dal presidente Prodi ricevette la delega alla Concorrenza. L’attuale ministro per gli Affari Europei, Enzo Moavero Milanesi, è stato capo di gabinetto di Mario Monti (1995-2000).

Si può quindi dedurre quali fossero gli uomini chiave dei vertici politici europei che nel 1997 redassero e adottarono il regolamento 1466/97. Per l’Italia si può ricordare che nel governo Prodi, il ministro del Tesoro, Bilancio e Programmazione economica era Carlo Azeglio Ciampi, il ministro delle Finanze era Vincenzo Visco, il ministro degli Affari Esteri era Lamberto Dini e Piero Fassino il vice ministro con delega agli Affari Europei. Questi ultimi parteciparono certamente, a vario titolo, in rappresentanza dell’Italia, alle riunioni del Consiglio che approvò il regolamento 1466/97.

Uno dei motivi che, senza ricorrere a dietrologie, avrebbe potuto giustificare l'adozione del regolamento 1466/97 era che i tempi relativamente elastici previsti nel Teu non si adattavano più al mutato, e incalzante, contesto internazionale: nel 1995, nasceva l’Omc e la Cina guadagnava posizioni sempre più rilevanti nell’export delle manifatture; nel luglio 1997, esplodeva una fortissima e devastante crisi finanziaria asiatica mentre quasi in contemporanea il presidente Clinton cancellava il Glass-Steagall Act (che, almeno formalmente, separava le attività bancarie di deposito da quelle di investimento). È possibile che davanti a eventi di tale magnitudine i dirigenti della Commissione europea avessero timore che un ritardo nell’entrata in vigore della moneta unica avrebbe annientato le speranze di integrazione europea. Il pasticcio dell’euro fu fatto probabilmente in buona fede, e così vogliamo augurarci che
si potrà continuare a credere.

Sta di fatto che dall’adozione del regolamento 1466/97 l’Europa non è più la stessa rispetto a quella dei trattati: il Tue prevedeva che la moneta si adattasse alle esigenze reali per sostenere gli obiettivi di “sviluppo armonioso” mentre il regolamento ha capovolto questa logica imponendo in modo cogente e irreversibile che “la realtà si adeguasse alla moneta” (Guarino).

La conseguenza politica che si può facilmente dedurre è la marginalizzazione dei processi democratici di governo, amputati delle politiche di bilancio e programmazione economica, a favore di una gestione centralizzata monetaria avulsa da ogni controllo politico e democratico: in breve, “robotizzata”. Mentre nei trascorsi 15 anni la rilevanza dei processi politici nazionali è stata annientata e, quindi, sono state svuotate le libertà individuali poiché private di effetti pubblici, oggi non si è ancora fatto nulla per costruire uno spazio politico europeo democratico e partecipativo (che invece sembra essere molto di là da venire). Domandarsi oggi i motivi della crescente disaffezione dei popoli dell’Eurozona e dell’Europa più in generale nei confronti della politica e dell’esercizio del voto (o della protesta) è semplicemente tautologico. L’Europa è stata robotizzata e i suoi cittadini con essa.

Un altro evento degno di menzione per completare il quadro dei fattori che influenzarono il periodo 1997-99 era che la Commissione guidata da Santer stava per la prima volta raggiungendo un accordo fondamentale che avrebbe cambiato in meglio il futuro dell’Europa. Il commissario alla Ricerca, la socialista francese Edith Cresson, si era schierata contro gli apostoli della dottrina della concorrenza, dimostrando come l’industria americana beneficiasse in maniera fondamentale di massicci aiuti di Stato che, per larghissima parte, coprivano i costi di ricerca e sviluppo (R&D). In questo, il rapporto Usa/Cee era di 20 a 1 (risultato che sommava indebitamente i singoli aiuti di Stato di ciascuno stato europeo). Ciò spiegava la competitività industriale americana e l’innovazione. Quindi, anche in considerazione di quei tremendi cambiamenti che abbiamo citato, la Commissione stava per presentare un piano per la creazione di un fondo unico europeo per la ricerca e sviluppo. Il differenziale con gli Usa si sarebbe ridotto e l’Europa avrebbe potuto ritornare a essere una zona innovante e competitiva, oltre che prospera, e quindi realizzare l’equilibrio di bilancio e la riduzione del debito pubblico, entrambi previsti nel Teu.

Invece, come in privato ha raccontato la stessa Cresson, c’erano pressioni enormi affinché la Commissione non adottasse queste misure per la ricerca e lo sviluppo europei. Pressioni, ma anche sabotaggi di vario tipo. Approvato il regolamento 1466/97, che è entrato in vigore il 1/7/1998, la Commissione Santer è stata sconvolta da uno scandalo di nepotismo per un piccolo contratto di consulenza nell’ufficio, guarda caso, di Edith Cresson. Nel settembre 1999, a euro ormai fatto, la Commissione Santer si dimise in blocco. Sarebbe interessante indagare se esista una connessione tra questi eventi e il successivo scandalo Eurostat, emerso nel 2003 al tempo della presidenza di Romano Prodi. Nepotismo e corruzione proprio nella struttura che presentava le statistiche usate per stabilire l’ammissibilità dei paesi all’euro.

Che cosa si può fare?

La crisi attuale è duplice. Da un lato, siamo nel pieno di un ciclo capitalistico che vede lo spostamento dell’asse verso l’ultra popolato Oriente e contemporaneamente l’esplodere delle contraddizioni del neoliberalismo che è scivolato nel “prevalere dell’accumulazione attraverso flussi virtuali di denaro cartolarizzato” (Giovanni Arrighi). Dall’altro, assistiamo alla crisi della rappresentanza della democrazia liberale che sbanda drammaticamente tra la “neutralizzazione del potere politico” e la “politicizzazione di poteri neutri” (Roberto Racinaro) e “l’esondazione del potere giudiziario” che agisce come un “controllo della virtù” attraverso le verifica procedurale propedeutica al riconoscimento politico (Alessandro Pizzorno).

Per queste ragioni, le attuali politiche di austerity, imposte dai tecnocrati europei (bocconiani, in Italia), non hanno, in tale ottica, alcun senso, visto che siamo giunti a un passaggio di rotta obbligato, necessario, strutturale. Lo scopo politico di queste stesse politiche è disperato: esso mira a tentare di congelare, nel lungo periodo, i rapporti di forza strutturati in questo ciclo sistemico. In altre parole, ciò che le attuali politiche economiche vogliono ottenere è l'ibernazione dell’insieme delle relazioni di potere così come si sono formate in questo ciclo. Un tentativo, destinato al fallimento, di perpetuare il sistema a spese delle conquiste sociali degli ultimi 2 secoli, salvaguardando un certo ordine. Come aveva notato Pierpaolo Pasolini nella sua “Rabbia”, la democrazia liberale non è capace di gestire la pressione del “meticciato”, nelle sue declinazioni di ibridizzazione morale, religiosa, culturale, di colore, economica e sociale, in ascesa verso il centro del potere.

Il problema non è quindi, come vogliono invece farci credere da Bruxelles, di ordine economico, procedurale o rigoristico, ma eminentemente politico. La caccia agli eretici è un fenomeno storico ben noto per la sua fallacia e ingiustizia. Infatti il problema non è più quello del governo degli Stati, o dell’Unione europea, ma della gestione del "sistema mondo". In quest’ottica si capisce meglio perché nel 1997 è iniziato il ciclo dei “colpi di Stato” che stanno portando l’Europa all’eutanasia collettiva. Come ha recentemente detto Enrico Letta al congresso della SPD: rischiamo una ”asfissia da rigore”.

Appare ormai chiaro che a un problema politico si deve rispondere con atti politici.

Parafrasando Fernand Braudel, oggi stanno mutando i rapporti di forza tra i poteri politico-economici che detenevano le "chiavi d'accesso" al piano superiore del sistema capitalistico, che si immaginava eternamente Occidentale.

In questa mutazione del sistema, gli Usa non avrebbero più l’egemonia culturale ma solo quella militare. Il significato del “successo dello spirito Orientale” deve significare qualcosa anche per l’Europa: come intende collocarsi nella emergente e nuova “costellazione sistemica”?

La Chiesa di papa Francesco sembra aver percepito queste sfide. Nella sua mite formulazione, l’appello a non farci rubare la speranza è un monito veritiero. A questo proposito è emblematico il testo del dialogo tra padre Antonio Spadaro e papa Francesco pubblicato nel settembre 2013 dalla rivista Civiltà Cattolica.

Sul piano politico, della vita e del pensiero politico, invece, assistiamo a una confusa debolezza che è disarmante (e preoccupante).

Il pensiero politico (socialista, liberale o cristiano-sociale) non aggrega più e nemmeno i sindacati storici riescono a mobilitare gli animi e infiammare la collettività. Certamente, ciò è dovuto sia a fattori etno-demografici sia socio-culturali. Ma non sono i soli motivi.

Infatti, al meticciato si è data una risposta fastidiosa, riduttiva, inconsistente e sbagliata: alcuni candidati “colorati” sono stati selezionati e opportunisticamente cooptati per essere esposti in posti di visibilità (giornalisti) o di potere pubblico (posizioni elettive o ministeriali). Il pubblico ludibrio che ne è seguito non è dissimile da quello che subivano i sottomessi malcapitati nelle arene ludiche dell’Impero romano. Risuonano ancora le parole che nel XVIII secolo furono pronunciate da alcune dame dell’alta società parigina incontrando l’ambasciatore della Persia: “Come si fa a essere persiano?” (E.W. Said, “L’immagine europea dell’Oriente”). A nulla servirono i balli della giovane regina Elisabetta
II d’Inghilterra con il capo degli zulu del Sud Africa. A questi gesti è sempre mancato l’impeto etico che, essendo un atto morale, sarebbe stato antisistema.

Alle diversità di genere, di orientamento sessuale, etnico, religioso, economico e di abilità fisica si è data una risposta ipocrita: le quote rosa, i matrimoni omosessuali e l’inclusività ghettizzata non hanno riconciliato la società con le sue pregnanti diversità. Che le contraddizioni siano solo state nascoste sotto il tappeto è dimostrato dai dati in crescita dei casi di “femminicidio”, di discriminazione e di esclusione e violenza contro i diversi.

Alle nuove generazioni, ai tanto invocati “giovani”, si offrono soluzioni ingannevoli, viziate e viziose: la mercificazione dei corpi, delle menti e dello spirito. Essi sono sempre più dipendenti da surrogati della felicità, dall’allungarsi infinito dei cicli formativi (che non migliorano la qualità del sapere), dalla precarizzazione della vita e dall’emergere delle nuove dipendenze (economiche, farmacologiche, estetiche, morali) che stanno spegnendo le forze della speranza.

Al mondo reale e misurabile si è preferito quello virtuale, procedurale e austero, chiuso e impenetrabile perché regressivo, che ci è stato imposto dalle nuove tecnologie di massa, dall’elite finanziaria mondiale e dagli apparati di governo che agiscono in esecuzione di assiomi astratti e avulsi dalle società che dovrebbero amministrare.

Mentre la politica tradizionale ha fallito nel dare risposte credibili a queste problematiche, le nostre “società liquide” (Bauman) pullulano di ‘gruppuscoli’ antagonisti, sconnessi e incoerenti, che si manifestano in improvvise esplosioni di rabbia individuale o di gruppo che, quasi mai con stabili ispirazioni collettive, talvolta emergono in nuove formazioni elettorali dal successo effimero. I vagheggiamenti di Michael Hardt e di Toni Negri che prevedevano un’autorganizzazione planetaria della “moltitudine” che, spinta da un desiderio di libertà ed eguaglianza, avrebbe sfidato l’Impero, non trovano riscontri nella realtà.

Il pensiero politico tradizionale ha rapidamente abbracciato la teoria del “vincolo esterno” economico, finanziario e di sicurezza. Questo fenomeno, che è stato più pernicioso per il pensiero socialista e comunista europeo, è coinciso con l’incapacità culturale di comprendere le nuove condizioni determinatesi negli anni Novanta e di gestire le società in una nuova proiezione di progresso o di speranza. Il caso italiano è emblematico poiché anche dal punto di vista semantico le tradizionali identità politiche, in particolar modo comuniste e cristiano-sociali, sono mutate in una congerie di formazioni politiche dai riferimenti botanici e zoologici. La socialdemocrazia tedesca ha abbandonato la tradizione, il che ha portato a una scissione (Die Linke), adottando programmi marcatamente neoliberali di riforma sociale e del lavoro. Il socialismo francese e quello spagnolo hanno avuto una più lunga resistenza di facciata che si è lentamente stemperata in una nuova identità centrata sul laicismo. Quanto alle destre, fatta eccezione per la Germania (CDU/CSU) e alcuni paesi nordici (coalizioni Moderata), il modello nazional-populista è stato dilagante e vincente. In quasi tutti i movimenti politici europei si assiste alla spettacolarizzazione delle leadership e alla personalizzazione dei messaggi proposti all’elettorato.

Con la “società liquida”, cioè con il passaggio dalla produzione al consumismo, anche il pensiero politico è diventato “liquido”, cioè sempre più omogeneizzato e omologato all’assorbimento passivo di un dato contesto. Questo spiega perché in un numero crescente di democrazie liberali si assiste da anni alla convergenza implacabile dei partiti politici verso modelli di coalizione (coabitazione; grandi coalizioni) che garantiscono innanzi tutto la stabilità (del sistema di potere). Quest’ultima si è ormai sostituita a qualsiasi altra necessità che la politica dovrebbe interpretare. Un assioma che non trova conferma nella storia del mondo moderno che, invece, è vissuto quasi sempre in una situazione mutevole e di instabilità grazie alla quale sono stati possibili i più importanti avanzamenti sociali, tecnologici e culturali. Non è un caso, infatti, che il motto del presidente Obama sia stato “cambiamento” (change). Mentre in Europa si è rimasti impantanati nelle alchimie della stabilità, è paradossale che il “cambiamento” sia più evocato e cavalcato in Cina o in Russia. Finanche la Chiesa, rompendo con la tradizione, ha adottato la via del “cambiamento” con le dimissioni di papa Benedetto XVI, sostituito dal dinamico pontificato di papa Francesco.

In conclusione, si può ben vedere che le forze socialiste e di centrosinistra europee devono abbandonare le logiche politiche degli anni Novanta (riformismo sottomessosi al neoliberismo) e devono ridisegnare un progetto politico e sociale nazionale in chiave europea e globale. Si devono abbandonare lessico e significato di parole come “ristrutturazione”, “piano sociale”, “creazione della ricchezza”, “flessibilità” e le pratiche di gestione sociale che dalla fine degli anni Ottanta hanno sostituito “lo scambio” al “prodotto” e la “finanza” alla “persona umana”. Ci vuole un nuovo spirito internazionalistico, una visione olistica universale. Come ha scritto Vivianne Forrestier in un suo saggio postumo, “ si devono sfidare tutti gli argomenti, primo fra tutti l’inganno” (“La promesse du pire”, Seuil, 2013).

Sebbene al momento i segnali siano molto deboli e non fanno ben sperare, è possibile che proprio dai paesi periferici dell’Europa, i martoriati Piigs, possano venire delle novità. D’altra parte, è storicamente provato che le difficoltà gravi possono avere 2 effetti possibili: il tracollo o la rinascita.

Il tempo delle scelte è giunto: adesso o mai più!

*direttore di Strat-EU

Per approfondire: "Alla guerra dell'euro"
(21/11/2013)

http://temi.repubblica.it/limes/salviamo-leuropa-adesso/54731


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Betelgeuse
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Già il titolo è tutto un programma. macché Europa, salviamo l'Italia piuttosto! se l'idea originaria è morta, uccisa da un colpo di stato (prof. Guarino dixit), essere a tutti i costi parte di questo cadavere, con gli assassini ancora saldamente al potere, è un controsenso.

I diritti non si negoziano, si pretendono. e gente come la Bonino, ministro a dispetto di uno 00000000virgola e qualcosa, non rappresenta nessuno.

Basta con la truffa europea. ma quale pienamente protagonista del processo di integrazione, l'Italia dovrebbe solo e semplicemente pensare a riprendere in mano il proprio destino, salvandosi dal baratro...altro che integrazione mentre ci stanno massacrando e balle varie.


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Eshin
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Vale la pena a non fermarsi al titolo e leggere l'articolo.


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Betelgeuse
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Io l'ho letto -a fatica, è un papiro interminabile- ma l'ho letto.

In sintesi: l'autore vede tutte le magagne di questa Europa ma rincorre ancora il mito perduto. e, come tanti illusi, dà un colpo al cerchio e uno alla botte.

Non credo serva aggiungere altro.


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dana74
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l'articolo è interessante, ma come ha scritto Betelgeuse, la Ue non si salva.

L'europa è un artifizio commerciale, perché mai andrebbe salvato? A favore di chi? Semplicemente ora si vede nitidamente il reale volto di quel progetto, nato negli USA e gli spin doctor che tanto si diedero da fare per promuoverlo ora non sanno a che santo votarsi, tant'è che ora hanno istituito lo squadrismo contro gli euroscettici.


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vic
 vic
Illustrious Member
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Mi lascia di stucco la frase "l'UE va salvata con questi trattati".
Ma scherziamo. Sono trattati capestro, oltre che irrispettosi della democrazia, perche' nessuno li ha mai votati.

Ci vuole un'Europa molto ma molto diversa. E per farla ci vuole lo spirito giusto. Che si vede solo a macchia di leopardo.

Perche' non procedere con i piedi di piombo, invece? Primo: azzerare l'Ue. Secondo: lasciare in piedi dei grandi blocchi. Per esempio il blocco del nord, quello balcanico, un blocco del sud, ecc. Ogni blocco deve tendere, in modo democratico, ad una gestione economica sopportabile e sensata, prima per se', poi per i blocchi vicini. Ci sta anche una moneta diversa per ogni blocco, con la propria banca centrale d'emissione.

Ma la base di tutto e' e rimane la democrazia vera, cioe' il diritto di iniziativa e referendum. Unici strumenti non sanguinosi che permettono alla popolazione di esprimersi in continuazione e di correggere via via gli errori del governo. Come effetto secondario sono utili strumenti di conoscenza della cosa pubblica.

Va da se' che in questa ottica la Nato sia superobsoleta.

Solo quando i suddetti blocchi economico-politici saranno adeguatamente vicini i tempi potranno dirsi maturi per un discorso sull'UE.

Ci vogliono tempi lunghi. Impariamo dagli asiatici a ragionare sui tempi lunghi.

Il resto sono ciance. Il vero, profondo vulnus di questa UE e' la non democraticita'. Il voler calare tutte le decisioni dall'alto con mano sempre piu' pesante ed insopportabile. Con questo trattando i cittadini da stupidi mentecatti: bistrattati dai trattati. Questa UE e' una vera e propria dittatura con altro nome. E' strutturalmente sbagliata, grazie ai francesi che pensavano ad un costrutto simile alla Francia in cui Parigi vuol essere tutto. E quelli di sinistra si facciano un bel mea culpa. L'UE e' il risultato voluto da Mitterrand e Delors. Se il socialismo e' cio' che propone l'UE, povero socialismo dove sei mai finito.

Comunque, caro prolisso redattore, i trattati UE sono un disastro. La costituzione UE sotto mentite spoglie di trattato e' un disastro gia' in partenza. E i risultati intermedi parlano da soli: disastro, désastre, disaster, ..

Ad immagine di Monti: che e' stato un governante disastroso, eppur vanesio.
Van Rompuy non e' che sia meglio.

😉


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Eshin
Famed Member
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Ma siamo davvero ancora nazioni? O piuttosto paesi con realtà mescolate da questo punto di vista.
Personalmente ho due identità "europee" e mi sento europea. Milioni vivono questa pluri-realtà e nazionalità multipla.
Un conto è la gestione ,economia, e magari moneta regionale parallela che garantisce la vita locale, il passato insegna che possa essere ottimo strumento.
Vedo necessità di sovranità non legata a frontiere, ma a necessità locali-regionali,
quindi sovranità locale invece di diktat centrale come base.
C'è necessità di federazioni-commissioni-cooperazioni, intreccio "sovranazionale" sulle questioni globali.
Molte questioni riguardano oggi tutti e devono essere affrontati con ampi coinvolgimenti.


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