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Berlusconi e la dittatura delle parole


Tao
 Tao
Illustrious Member
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«Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». Dal maiale Napoleone (dittatore della orwelliana “Fattoria degli animali”) al Napoleone di Arcore, la parola si conferma uno straordinario strumento di dominio dei corpi colonizzando le menti. Per cui la “neolingua”, forgiata da abili rimaneggiamenti e piegature dei significati verbali originari, diventa strumento di potere e arma da guerra. Il suo scopo - descritto sempre da George Orwell nel celebre “1984” - non è solo fornire un mezzo espressivo a beneficio degli adepti che sostituisca la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero.

In questi ultimi tre lustri il dominio della parola è stato un punto di forza indiscutibile della strategia berlusconiana per la presa del potere. Cui gli avversari si sono supinamente accodati, finendo per giocare la partita sul terreno tracciato dall’avversario; pensando con le sue categorie linguistiche.

Si prenda l’orrida definizione del prelievo fiscale come «mettere le mani nelle tasche dei cittadini». Insomma, uno scippo. Fin tanto che lo dicono un padroncino del Nord-Est, un fancazzista privilegiato che campa di rendita o un tribuno della neoborghesia possessiva lo si può capire (e magari deprecare o irridere). Tutt’altra cosa in bocca a un rappresentante del fronte riformista, che dovrebbe avere chiaro come le politiche distributive siano il fondamento del patto sociale welfariano, per assicurare quei servizi pubblici che Jürgen Habermas definisce «le stecche del corsetto della democrazia».

Purtroppo quello del «mettere le mani in tasca» è diventato tormentone trasversale, con un particolare aggiuntivo: accredita la rivolta antifiscale cavalcata dalla Destra, non conquista un voto che sia uno alla Sinistra e – al tempo stesso – ne disamora la base elettorale tradizionale. Intanto i berluscones incassano e ringraziano; ridacchiando per l’assoluta dabbenaggine di questa opposizione.

Una strategia comunicativa vincente, che potresti pensare opera di menti eccelse. Ma non è così. Trattasi di prodottini originariamente aziendali, messi a punto all’inizio degli anni Novanta (già prima della “discesa in campo” di Forza Italia e del suo sponsor) nelle botteghe milanesi di consulenza, che vendono banalità infiocchettate con l’etichetta “comunicazione promopubblicitaria”.

Infatti, vivendo in quegli anni all’ombra della Madonnina si percepiva l’intenso lavorio per costruire gli armamentari linguistici della prossima “discesa” non ancora annunciata. Gli anni in cui si progettò la trasformazione di “comunista” in una parola altamente emotiva quanto scissa dalla propria storicità, virata a sinonimo di generica “infamia”: puro marchingegno deprecativo come “giudeo” in bocca al nazista. “Giustizialista” perse ogni riferimento al Peronismo argentino diventando il marchio inquietante di un uso strumentale e vendicativo dell’azione giudiziaria. Le bubbole su “etica degli affari” e “propaganda etica”, con cui si turlupinavano i consumatori (se compri una mentina salvi un orso polare…), furono riciclate in propaganda politica all’insegna dell’amore («loro odiano, noi amiamo»).

Nient’altro che l’elaborazione di propaganda mendace (tipo lo slogan «meno tasse per tutti»), studiata a tavolino dai cosiddetti “creativi” e senza nessuna attinenza con la realtà: tanto l’obiettivo è agire sulla sfera subliminale del potenziale acquirente.
Nel frattempo le sessioni di public speaking insegnavano alla manovalanza del boss l’arte del trasformare un dibattito in caciara.

Ma anche opera mai smascherata e contrastata dalle controparti. Piuttosto inseguita ed imitata. Si narra che il PDS d’allora ingaggiò un guru della consulenza di marketing chiamato Klaus Davi (uno svelto giovanotto con la gommina nei capelli) per apprendere gli arcani dell’arte. E magari farsi spiegare l’inclita sentenza klausdaviana che la politica «è un fustino di Dash, non una borsa di Gucci».

Al di là del folklore (risibile o avvilente che sia), ciò che più interessa è prendere atto di quali siano i laboratori del pensiero che alimenta il regime berlusconiano: nient’altro – appunto – che semplificazioni consulenziali all’insegna della banalizzazione.

Non soluzioni, semmai trucchetti per impacchettare l’interlocutore; azzerare i problemi troppo difficili per essere risolti davvero. C’è la crisi economica? Si dipingano scenari color rosa, irreali ma anestetici. Il Parlamento crea problemi? Lo si riduca a timbrificio. I magistrati disturbano? Li si anemizzi finanziariamente e insieme li si delegittimi. Il Fatto Quotidiano o MicroMega pubblicano verità sgradite? Li si demonizzi.

Insomma, solo cavatine (seppure altamente venefiche) contro ogni forma d’opposizione.
Da qui la centralità della “neolingua”, funzionale all’acronimo TINA («there is no alternative»). Seppure come questione rimossa.

Noam Chomsky sostiene che, dopo bolscevismo e nazismo, TINA è il neo-totalitarismo del XXI secolo.

Pierfranco Pellizzetti,

da Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2009


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RobertoG
Estimable Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 210
 

Articolo da incorniciare.

E' così che si crea un sistema di valori alla rovescia, dove i magistrati sono delinquenti, i ladri dei perseguitati e i mafiosi degli eroi.


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