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Che tempo fa ? (intervista a Luca Mercalli)


Tao
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Cambiamenti climatici, crisi ambientale ed energetica, economia e cambiamento. Dello stato di salute del Pianeta e delle strade da intraprendere in direzione di una maggiore sostenibilità abbiamo parlato con Luca Mercalli, meteorologo e climatologo italiano, noto al grande pubblico per la partecipazione al programma televisivo 'Che tempo che fa'.

Abbiamo incontrato Luca Mercalli, meteorologo e climatologo italiano, ospite fisso della trasmissione televisiva Che tempo che fa per interrogarlo sulla relazione che l'ecologia ha con l'economia e con le nostre esistenze.

Nella sua vita quando e come ha preso coscienza per la prima volta della crisi ambientale?

Già da ragazzino, con la crisi petrolifera del 1973. Avevo sette o otto anni, ma me la ricordo benissimo. Le targhe alterne, la riduzione del riscaldamento nelle case, le code dai benzinai: era già chiaro che le risorse non fossero infinite.

Cambiamenti climatici, crisi energetica: qual è oggi lo stato di salute del mondo?

Ci appare molto malato, di una di quelle malattie i cui sintomi si vedono tardivamente. Per proseguire con la metafora medica: il tempo della prevenzione sta per scadere, ci tocca agire adesso anche se i sintomi più gravi non si vedono ancora. Del resto non è neanche certo che questi sintomi saranno curabili. E va chiarita una cosa: non si tratta di curare il pianeta solo perché prendercene cura è cosa buona e giusta, ma dobbiamo farlo perché il pianeta è proprio ciò che ci sostiene in quanto specie umana.

Qual è il rapporto fra economia ed ecologia oggi? E come dovrebbe diventare?

È un rapporto ancora molto immaturo. L’economia non ha fatto i conti con l’ecologia: ha prelevato in maniera smodata ogni genere di risorse – materie prime, energia, cibo, foreste –, restituendo scorie e rifiuti. Ma l’economia deve reinserirsi all’interno dei limiti naturali, perché queste risorse, per quanto ci si sia sforzati di ignorarlo, non sono infinite. L’economia deve smettere di pensarsi come qualcosa di astratto ed esterno alla natura, e tanto meno di più grande. Se lei traccia due cerchi concentrici, l’economia è quello più piccolo, ricompreso in quello più grande, che è l’ambiente.

La crisi economica oggi ha rubato la scena informativa – e le risorse pubbliche – a quella ambientale. Ma a vari livelli le due crisi sembrano collegate: in che misura hanno un’origine comune?

La crisi del 2008 è esplosa in parte a causa di una degenerazione interna all’economia, che ha a che fare con un’idea di espansione costante e che ha portato fino ai soldi 'finti' della finanza. Fin qui non c’è il collegamento con la realtà fisica, eppure il detonatore della crisi si può rintracciare in una situazione di stress delle risorse fondamentali: non è un caso che subito prima della crisi il petrolio fosse arrivato a 147 dollari al barile.

È un segnale chiaro che sta finendo l’energia a buon prezzo nella storia umana e, come si sa, l’energia è il motore fondamentale che fa girare l’economia. Quindi la crisi ambientale non è stata certo l’unica determinante di quella economica, ma ha rappresentato un segnale preoccupante, di fronte al quale è crollato un castello di carte che già era molto fragile. Da adesso in poi il problema delle risorse fisiche e dei limiti ambientali, a mio avviso, condizionerà lo sviluppo dell’economia, che non potrà più rilanciarsi nella crescita sfrenata cui abbiamo assistito finora. Ormai a comandare sono i limiti fisici.

Alcuni economisti, come Jeremy Rifkin o Joseph Stiglitz, o Guido Viale in Italia, ritengono che anche la via d’uscita dalle due crisi, economica e ambientale, possa essere in parte comune. Lei crede alla ripartenza di un’economia che s’impegni in una seria riduzione dell’impronta ecologica?

Certo che ci credo. Serve però un’economia non più basata sulla crescita fine a se stessa. Sono già stati formulati progetti avanzati in questo senso, per esempio “l’economia dello stato stazionario”, sulla quale ha lavorato Herman Daly negli Stati Uniti più di trent’anni fa. Oppure si possono riprendere le teorie di Georgescu-Roegen, con l’introduzione dei concetti della termodinamica ambientale nell’economia. Poi c’è anche la decrescita, che però non va vista come un punto d’arrivo, ma come un periodo di transizione necessario in vista dello stato stazionario: dobbiamo, cioè, scendere fino a un livello ottimale e lì rimanere.

È una sfida dura, perché contempla comunque la crescita di quelle parti del mondo dove vivono coloro che ancora non godono di uno stile di vita dignitoso, ma a livello globale si deve interrompere il modello della crescita infinita. In questo senso reputo valide anche le idee di Viale, troppo poco conosciuto in Italia. Ma mi faccia citare ancora due autori importanti. Uno è Tim Jackson, che è stato consulente del governo britannico su questi temi e ha pubblicato il libro Prosperità senza crescita. Poi c’è Wolfgang Sachs, docente al Wuppertal Institute in Germania, autore di Futuro sostenibile e presente anche ai recenti Colloqui di Dobbiaco. Ciò che mi stupisce è che questa mole di contributi, presenti ormai anche in Italia, resti del tutto marginale nel dibattito pubblico.

Fra le teorizzazioni che ha citato, la decrescita appare una delle più rigorose nell’opporsi al paradigma 'sviluppista', anche se basato su una crescita del Pil legato ad attività virtuose dal punto di vista ambientale. Cosa pensa più in dettaglio della decrescita?

Credo che al momento nessuna di queste visioni, decrescita inclusa, porti con sé conseguenze problematiche, fosse anche per il semplice motivo che nessuna di esse è stata sperimentata a fondo. E d’altra parte ciascuna di queste teorie ha un potenziale talmente dirompente rispetto al paradigma odierno della crescita illimitata, che non ha importanza da quale si parte. Ciò che conta è cominciare, lavorino pure tutte assieme, possibilmente anche col contributo della massa di economisti che oggi si dedicano al paradigma della crescita. Poi, col tempo e con le prove, potremo sistemare eventuali difetti delle teorie della sostenibilità.

Oggi la cultura prevalente riverisce i mercati, che, in cambio, degradano l’ambiente e la qualità della vita di molte persone. Come si può mettere in discussione il primato dell’economia?

Credo che dovrebbe bastare la coscienza del fatto che stiamo raggiungendo i limiti fisici dell’ambiente. L’alternativa è che le correzioni necessarie le faremo perché forzati dalle difficoltà in cui ci saremo cacciati. Ma con le botte sulla schiena sono buoni tutti a imparare, sarebbe un peccato non usare le nostre capacità intellettive e strategiche.

Risorse, energia, rifiuti: il ciclo completo della trasformazione economica. Esaminiamoli riassuntivamente uno per uno. Quali sono le principali urgenze e le prospettive auspicabili, a livello globale, nell’ambito dello sfruttamento delle risorse?

Le risorse si dividono in non rinnovabili e rinnovabili. Fra le prime c’è, per esempio, il petrolio: quando lo bruciamo non esiste più, è finito per sempre. Quindi dobbiamo essere molto bravi a non dissipare queste risorse e, quando è possibile, anche a riciclarle. Col petrolio si fa anche la plastica, che è una cosa molto utile: dunque sarebbe meglio smettere di bruciarlo per usi quali i carburanti, privilegiando invece le rinnovabili, e mantenendo il preziosissimo petrolio che resta per produrre oggetti.

Ci sono poi risorse completamente riciclabili, come i metalli e i minerali in generale, che però sono difficili da estrarre e talvolta anche rari: le miniere sono sempre meno concentrate e l’estrazione diventa via via più costosa. Anche in questo caso diventa essenziale chiudere il ciclo: questi minerali devono essere il più possibile riutilizzati, non deve più succedere c
he finiscano in una discarica.

Infine vi sono le risorse rinnovabili, come le foreste, il cibo coltivato in agricoltura e i pesci degli oceani. Ma anche in questo caso bisogna stare attenti, perché tali risorse sono rinnovabili solo a patto che le preleviamo a un tasso che sia rispettoso dei loro tempi di rigenerazione. E oggi ci troviamo invece in pieno sovrasfruttamento.

Torniamo al petrolio: spesso sentiamo dire che i giacimenti sono ancora vasti e che comunque la tecnologia ci consente di raggiungere il greggio in condizioni nelle quali fino a ieri lo si sarebbe considerato antieconomico o non estraibile. Ma questo è vero fino a un certo punto, come rivela un indice, detto 'Eroei' (Energy Returned On Energy Invested), che misura il rapporto fra l’energia ricavata e tutta l’energia impiegata per arrivare al suo ottenimento, soprattutto nella realizzazione e gestione degli impianti di estrazione.

L’Eroei ci mostra che anche con il miglioramento della tecnologia estrattiva il ritorno energetico è calante: se cento anni fa si investiva un barile di petrolio per ottenerne 100, oggi se ne investe uno per ottenerne 15, nonostante il progresso tecnologico. Un Eroei ancora più basso lo conseguiva la ben nota piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, prima del disastro del Golfo del Messico. Era un gioiello dell’ingegneria, costato un miliardo di dollari per la sola realizzazione e che testimonia in quali condizioni è necessario andare a cercare oggi il petrolio: in pieno oceano, a 5 chilometri di profondità.

Ormai è finito il petrolio facile. E a lungo termine le energie rinnovabili sono le uniche che ci possano garantire un modello economico durevole e sostenibile nel tempo, perché si attinge a un flusso di energia che non si ferma mai – come è il caso del solare nelle sue varie forme, dell’eolico, dell’idrico, delle biomasse – anche se talvolta può esser difficile da estrarre e in questo dobbiamo diventare più abili. Ma gli ultimi duecento anni di rivoluzione industriale sono stati basati su uno stock da miniera (carbone prima, petrolio ora) e questo non possiamo permettercelo più, bisogna passare a un’energia di flusso, come quella solare, della quale, del resto, nel corso della storia l’umanità si era sempre servita.

"In una società ben progettata dovremmo essere in grado di chiudere tutti i cicli e i rifiuti non dovrebbero esistere"
Del trattamento dei rifiuti?

L’obiettivo è quello dei rifiuti zero. In una società ben progettata dovremmo essere in grado di chiudere tutti i cicli e i rifiuti non dovrebbero esistere, sia perché sono tossici per noi e per la vita, sia perché sono indice di una falla nell’ottimizzazione dei processi, che ci porterebbe a perdere un materiale. Del resto, se usciamo dal nostro ristretto punto di vista storico, di nuovo non c’è altro da fare che imitare la natura, che per miliardi di anni ha sempre riciclato tutto.

Lei denuncia l’insensatezza delle etichette di ecologista o ambientalista. Perché?

Non ha senso l’ambientalismo come posizione ideologica, etica, ma nemmeno come imposizione attraverso le leggi. Parlare di 'ambientalisti' è un po’ come se esistesse il partito dei 'gravitazionisti', che raccoglie quelli che credono alla forza di gravità, contrapposto a tutti quelli che non ci credono. Ma è una distinzione inutile: che tu creda alla forza di gravità o meno, se inciampi su un gradino sbatti il muso per terra. Dunque sono questioni ineludibili, non ideologiche: l’ecologia e l’ambiente non sono semplici accessori della nostra vita, dei quali possiamo decidere di occuparci o meno, o rispetto ai quali schierarci, come succede per tanti altri argomenti. L’ambiente siamo noi. È una questione propriamente biochimica, che riguarda clima, ciclo dell’acqua, uso delle risorse, flussi di energia, flussi di materia, rifiuti: se le cose non funzionano, siamo noi che non possiamo più vivere.

Il 'cambiamento' si promuove dal basso o dall’alto? Altrimenti detto, per le urgenze che ha il pianeta è più efficace smuovere le coscienze delle persone o fare pressione sui decisori pubblici?

Non si può ignorare nessuna delle due modalità, bisogna lavorare su entrambe. È difficile ottenere risultati concreti contando soltanto sulla presa di coscienza dei singoli, e lo stesso si può dire quando si cerca di fare breccia in certi politici, come abbiamo visto di recente anche alla Conferenza sul clima di Durban. Visti i tempi che corrono, dobbiamo perseguire entrambe le strade.

L’efficienza e l’esistenza stessa delle sovranità nazionali s’indebolisce sempre di più. Quali organismi di governo sovranazionali immagina per gestire il rischio ambientale e le problematiche globali a esso connesse?

Non sono un esperto dei temi della governance, ma la mia sensazione è che queste strutture in buona parte esistano già, basterebbe farle funzionare meglio. A un livello sovranazionale c’è un’agenzia delle Nazioni Unite che conosco bene, l’Unfccc, ovvero la Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici, che imposta la discussione sul clima a livello generale. Poi abbiamo l’Ipcc, che segue gli aspetti scientifici, il Protocollo di Kyoto, un importante strumento di lavoro, anche se sta andando a scadenza, e l’insieme delle Conferenze sul clima, di cui quella di Durban è stata la diciassettesima.

Come si vede le strutture esistono già, basterebbe ascoltarle. Dopodiché è chiaro che gli egoismi nazionali spesso prevalgono. Forse accadrà qualcosa che assomiglia all’odierno governo Monti in Italia: un supergoverno di tecnici che commissarierà le diverse politiche nazionali, che faticano troppo a rispondere all’emergenza climatica. Magari un giorno dovremo arrivare a questo, anche se personalmente, a proposito di egoismi nazionali, temo piuttosto il rischio dei conflitti.

"Ciascuno dovrebbe occuparsi delle sorti del pianeta in ogni suo gesto quotidiano"
Qual è il livello d’impegno individuale che ciascuno dovrebbe pretendere da se stesso nella direzione di una maggiore sostenibilità?

Ciascuno dovrebbe occuparsi delle sorti del pianeta in ogni suo gesto quotidiano. E per arrivarci dovrebbe essere sufficiente il comprendere davvero ciò che ci siamo detti fin qui: viviamo su un pianeta solo, l’ambiente non è qualcosa di isolato ed estraneo, ma è il luogo nel quale ci muoviamo tutti i giorni e serve alla nostra vita concreta, così come le risorse.

Naturalmente non possiamo aspettarci che, su sette miliardi di persone, tutti divengano informati e sensibili rispetto a questi temi, ci saranno sempre gli ignoranti e gli avidi, che avranno un atteggiamento predatorio nei confronti delle risorse del pianeta. Ma è proprio a quel punto che dovrà intervenire la politica. È il modello dei paesi del Nord Europa, dove la sensibilità diffusa e la politica producono effetti virtuosi.

Qual è il livello di impegno che lei chiede a se stesso nella sua quotidianità? Quanto è fatica e quanto è piacere?

Quando una persona capisce i motivi per cui adottare questi comportamenti e si apre a una certa visione del mondo, nessuna delle iniziative personali a difesa dell’ambiente, e dunque della propria qualità di vita presente e futura, costa fatica. Al contrario procurano vantaggi pratici e la soddisfazione di conformarsi a un'etica cosmica.

Innanzitutto a casa mia, dove vivo con la mia compagna in Val di Susa, abbiamo tecniche di gestione delle energie estremamente efficienti. La casa è isolata termicamente, come dovrebbe fare chiunque voglia i venti gradi d’inverno senza buttare via calore attraverso tetti, muri e finestre. Certo, investo dei soldi e del lavoro all’inizio, ma mi ritrovo con un’abitazione che mangerà meno soldi in futuro e più confortevole.

Dopodiché, una volta che ho 'tappato i buchi', ho cambiato la fonte energetica,
passando da fossile a rinnovabile: ho installato pannelli solari, sia fotovoltaici sia per l’acqua calda, con i quali estraggo tutta l’energia di cui ho bisogno nel corso dell’anno. Naturalmente sono sempre allacciato alla rete, perché nei giorni di pioggia o nebbia ho ancora bisogno di ricevere energia dall’esterno, però nel corso dell’anno il saldo è positivo. E, denaro a parte, mi mette anche al riparo dalle scarsità energetiche del domani, rendendomi più autosufficiente.

Lo dico per chiarezza, perché oggi si può risolvere l’ottanta per cento della questione energetica riguardante una casa, non il cento per cento: in parte dobbiamo ancora contare sui metodi tradizionali. Ma con investimenti e ricerca negli anni tenderemo ad affrancarcene completamente.

Poi ho un orto, non immenso ma produttivo, che mi porta a una dieta prevalentemente vegetariana, anche se vegetariano non sono. Però consumo carne in misura ridotta e ragionevole, mentre mangio verdure prodotte da me. Ho realizzato una cisterna per l'accumulo dell'acqua piovana destinata all'irrigazione. Ovviamente i rifiuti organici di cucina servono per produrre concime e non gravano sulla raccolta rifiuti. Ciò che resta, lo sottopongo ad attenta differenziazione.

Dopodiché ho anche cercato di cambiare il mio rapporto con gli oggetti e con il consumismo, ed è stata una bella sfida psicologica.

È stato un ritorno all’essenzialità, che non vuol dire per nulla miseria, ma rifiuto della pubblicità e di un modello sociale nel quale mi riconosco sempre meno, quello del "grande e potente", a cui preferisco "piccolo ed efficiente". È sufficiente avere un set di oggetti necessari, dopodiché si può lasciare perdere il superfluo. E spesso il godimento degli oggetti superflui può essere ben soppiantato da piaceri immateriali: la cultura, la lettura, la musica, il convivio… Ne guadagno io come persona, ma anche l’ambiente e persino il portafogli, perché mantenere il superfluo costa tempo e denaro.

Lei spiega di ricevere ogni giorno, in media, cinque inviti ai più svariati convegni e incontri. Da chi provengono questi inviti? Nota una diffusione dell’interesse nei confronti dei temi della sostenibilità?

Sì, c’è stato un aumento dell’interesse, l’ho notato in particolare nell’ultimo anno. Il presupposto è che ho ottenuto una qualche notorietà con la televisione nei nove anni che presenzio a Che tempo che fa. Ma se gli inviti che mi arrivavano erano due o tre alla settimana qualche anno fa, oggi sono cinque al giorno. Sono più di 1.500 in un anno, naturalmente io non posso andare ovunque, ne accetterò uno o due alla settimana. Ma la gente sembra interessata a saperne di più.

Possiamo dividere i soggetti che m’invitano in tre categorie: associazioni e comitati con una qualche motivazione ambientale, spesso legata alla cementificazione; poi comuni e assessorati di vario genere, solitamente di piccole dimensioni e dotati di una certa sensibilità per le tematiche della sostenibilità; infine ci sono gli inviti con finalità didattiche, spesso da parte di scuole. Talvolta mi succede anche di essere invitato in ambiti nei quali fino qualche anno fa sarebbe stato impensabile, come è stato il caso recente di un incontro a Milano con un gruppo di dirigenti d’azienda lombardi.

Lei si divide fra articoli, libri, incontri pubblici e i cinque minuti settimanali di grande ascolto televisivo da Fabio Fazio. In un mondo di scettici e disattenti, per ignoranza o professione, quali sono secondo lei le chiavi comunicative per ottenere ascolto?

Innanzitutto bisogna cercare di avere un’autorevolezza scientifica. Negli ultimi anni è circolato un ambientalismo un po naif, la cui buona volontà non è stata sufficiente per rendere un valido servizio alla causa. Invece occorre che ciascuno si spenda nel proprio settore, dimostrando competenza. In secondo luogo direi che c’è domanda di soluzioni. Non dobbiamo presentarci solo come annunciatori di disgrazie, ma dobbiamo anche spiegare che cosa si può fare per risolvere i problemi. Questa è un’esigenza che avverto spesso in chi mi ascolta. E ancora di più credo sia utile parlare anche attraverso la propria esperienza personale, potere raccontare ciò che si è sperimentato sulla propria pelle, perché questo conferisce credibilità. E porta anche a spiegare le cose con chiarezza maggiore, perché solo chi 'fa' sa poi spiegare bene.

La scienza oggi è piuttosto trascurata dal sistema mediatico e nell’interesse comune. Perché succede, secondo lei? Come può recuperare una centralità culturale?

In realtà vedo una situazione molto variegata: ci sono contesti nei quali la scienza e la tecnologia vengono venerate come delle divinità che possono risolvere tutto; invece ci sono casi nei quali vengono ignorate. Direi che in fondo prevale l’opportunismo. Se ti viene promesso un miracolo tecnologico in qualsiasi settore siamo tutti pronti a crederci, ma se la stessa scienza si azzarda a mettere un paletto rispetto a una scelta politica, allora non va più bene. Eppure la scienza è per sua natura basata su un metodo rigoroso e verificabile.

Nel frattempo abbiamo smarrito anche il senso di rispetto e ammirazione che la natura da sempre ha suscitato. Come si reinsegna a un cittadino a guardare un tramonto?

Credo che sia fondamentale passare anche da questa dimensione per raggiungere la consapevolezza di cui parlavamo: oltre ai dati e alla razionalità, c’è un aspetto di sintonia immediata con la natura che facilita la diffusione di una sensibilità nuova. Sarebbe una riscoperta importante, che andrebbe oltre ogni mediazione della razionalità: è come quando t’innamori di una donna, non servono dati e misure, ti capita e basta, e poi te ne prendi cura.

Ancora cinquant’anni fa era viva questa meraviglia per il mondo reale: è una perdita recente. Un ruolo in questo recupero potrebbero averlo la scuola e l’educazione, che dovrebbero metterci più spesso a contatto con la natura. Un’importanza l’hanno anche le nuove tecnologie, i tanti schermi portatili di cui siamo circondati, che spesso finiscono proprio con l’alienare i giovani segregandoli in mondi artificiali e rendendo ancora maggiore il distacco dal mondo reale. Invece, proprio i nuovi mezzi di comunicazione potrebbero essere reimpiegati nel tentativo di riavvicinare le persone alla natura.

Io posso guardare un tramonto di persona, ma tutto sommato internet mi consente anche di vedere lo stesso tramonto in altri dieci posti nel mondo. Ci sono poi tante discipline sociali che ci possono riavvicinare alla natura: filosofia, poesia, letteratura, psicologia sociale. La riscoperta della natura può passare da un concorso di elementi.

Ormai le trasformazioni sociali, come quelle ambientali, avvengono con una rapidità inedita. Trova più ragioni per essere pessimista od ottimista per il futuro?

Proprio perché i fenomeni cambiano così velocemente non ho una posizione precisa, ma giudico di giorno in giorno quello che vedo. La prospettiva di oggi mi renderebbe pessimista. L’ottimismo lo recupero proprio se penso che le trasformazioni sociali possono essere rapidissime: se riusciamo a fare passare questi messaggi, oggi siamo anche dotati di tutti gli strumenti per ottenere buoni risultati in poco tempo.

Che cos’è per lei il 'cambiamento', a livello personale e sociale?

Il cambiamento l’abbiamo sempre praticato nella nostra storia di specie umana. E’ l’adattamento a condizioni ambientali che variano. O riusciamo ad adattarci, o soccombiamo: il cambiamento è una necessità allorché le condizioni del contesto mutano.

Quale cambiamento augura a se stesso e al mondo? E quale invece teme?

Mi auguro un cambiamento basato sulla razionalità, ma anche sulla bellezza. Dovremmo cambiare tenendo assieme sia la parte razionale che quella spirituale.

Ciò che invece temo è che si verifichi un cambiamento nel senso del conflitto. Il cambiamento è una certezza, noi non possiamo opporci quando questo arriva da pressioni così forti che provengono dal mondo reale. Il cambiamento, dunque, ci verrà imposto. Se lo gestiamo noi, potrà essere dolce e ne decideremo noi le dinamiche, ricorrendo alla mente e al cuore. Se invece continueremo a opporci, temo che assumerà la forma della guerra e della barbarie.

Stefano Zoja
Fonte: www.ilcambiamento.it
Link: http://www.ilcambiamento.it/persone/intervista_luca_mercalli_seconda_parte.html
16.12.2011


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