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Ci sono vescovi dai quali prendere esempio


Truman
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Bartolomé de las Casas nel ‘500 si oppose al genocidio indios

Ci sono anche dei vescovi dai quali prendere esempio
Di Danilo Zolo

La figura e gli scritti di Bartolomé de las Casas esercitano su di me un fascino crescente da quando, circa dieci anni fa, ho smesso di frequentare gli Stati Uniti e ho iniziato a visitare con interesse crescente l’America Latina, a scoprire la grandezza delle culture precolombiane e ad appassionarmi ai problemi degli indios.
Las Casas, pur essendo un religioso e un uomo di lettere, era di un attivismo instancabile e di un coraggio fuori dal comune. Il suo era anzitutto un coraggio fisico che lo ha portato, per difendere la sua causa - e cioè la causa della sopravvivenza degli indios americani -, ad attraversare dieci volte l’oceano atlantico superando rischi mortali e fatiche non comuni.
Il suo obiettivo era francamente disperato: intendeva convincere la Corte spagnola e il Consiglio delle Indie a risparmiare gli indios dallo sterminio che i conquistadores spagnoli ne stavano facendo.
Lo facevano per eseguire la volontà di Dio, in nome dell’Imperatore Carlo V e con l’esplicita benedizione dei pontefici romani, da Alessando VI a Giulio II, a Clemente VII. Quest’ultimo, con la sua Bolla Intra Arcana, del 1529, aveva autorizzato i monarchi spagnoli a «condurre le nazioni barbare alla conoscenza del Dio autore e creatore di tutte le cose anche con le armi e la forza, affinché le loro anime fossero obbligate a far parte del Regno celeste».

Las Casas è stato il primo a documentare e denunciare con autentica passione evangelica un genocidio che nel corso dei settant’anni successivi alla scoperta del “Nuovo mondo” causò – direttamente o indirettamente – la morte di circa 30 milioni di indios. E’ certo che la strage fu dovuta, oltre che alle guerre, al trauma della conquista (che portò anche a suicidi di massa), alle durissime fatiche imposte agli indios ridotti in schiavitù e alle epidemie diffuse dalla presenza degli spagnoli e degli schiavi africani, per le quali gli indios non disponevano di sufficienti difese immunitarie.

Coraggioso è stato Las Casas anche nello sfidare l’ostilità dei coloni suoi connazionali, che lo detestavano perché tentava di impedire i loro lauti guadagni, ottenuti attraverso il brutale sfruttamento delle terre e del lavoro degli indios, consentito dall’istituto dell’encomienda. E’ noto che Las Casas godeva di una pessima fama presso i coloni spagnoli – in gran parte avventurieri senza scrupoli umanitari – come uomo intemperante, ostinato, rigido, convinto delle sue ragioni, insopportabile per la sua mancanza di diplomazia.

Ed anche i missionari francescani non amavano Las Casas a causa delle sue critiche al loro modo di battezzare gli indios. I francescani praticavano il battesimo di massa e vantavano di aver “salvato” 4 milioni di anime in una dozzina di anni, fra il 1524 e il 1536. Il record era stato raggiunto a Xochimilco, dove due francescani erano riusciti a battezzare in un solo giorno 15 mila indios, versando grandi quantità d’acqua sulle loro teste senza preoccuparsi di trasmettere loro una minima consapevolezza del significato del gesto.

Il torto maggiore di Las Casas era comunque quello di aver rifiutato, nel 1515, di continuare ad essere un encomendero e di aver restituito tutte le terre e liberato tutti gli indios che gli erano stati assegnati. Per di più, Las Casas osava negare l’assoluzione ai coloni che non avessero seguito il suo esempio. E’ dunque un puro caso che egli sia riuscito a sopravvivere indenne nel corso di oltre trent’anni di militanza evangelica in terra americana. Ma non è certo un caso che nel 1547 sia stato costretto ad abbondare la diocesi del Chiapas, di cui era stato nominato vescovo quattro anni prima, e a rifugiarsi in Spagna, nel convento di Atocha, nei pressi di Madrid, e a restarvi per circa vent’anni, sino alla morte, senza poter più mettere piede in America.

Ma a Las Casas va soprattutto riconosciuto un coraggio morale e una forza intellettuale veramente esemplari. Pur non essendo un teologo di professione, Las Casas ebbe il coraggio di sostenere le sue tesi con tutti i mezzi a sua disposizione, e con la febbrile stesura di una grande quantità di opere, in particolare con la splendida Brevíssima relación de la destrucción de las Indías.
La sua tesi centrale era che la conquista del nuovo mondo e la conversione degli indios, attuate con la violenza, non avevano alcuna giustificazione teologica.
Questo era un punto di vista che nessun teologo spagnolo condivideva, a cominciare dall’autorevolissimo Francisco de Vitoria e dal suo celebre discepolo Domingo de Soto.

Nel 1550 Las Casas, pur sapendosi in netta minoranza, ebbe il coraggio di misurarsi, in un confronto pubblico di fronte a un consiglio di 14 esperti nominati dall’Imperatore, con un personaggio autorevole e di grande prestigio presso la Corte, come Juan Ginés Sepúlveda. Il teologo cattolico Sepúlveda, apprezzato studioso di Aristotele ma che non aveva mai messo piede in America, sosteneva che gli indios erano degli homunculi idolatri, colpevoli di delitti contro natura come i sacrifici umani, il cannibalismo, la sodomia.
Gli indios erano soprattutto intellettualmente inferiori, analfabeti e primitivi, e quindi servi a natura, “schiavi naturali” nella accezione aristotelica. Essi dovevano sottomettersi agli spagnoli, a loro antropologicamente superiori. Se non lo avessero fatto meritavano di essere sterminati dai loro “signori naturali”, i veri domini spagnoli.
Il confronto non ebbe alcun risultato immediato, ma è comunque significativo che pochi anni dopo, nel 1556, dopo l’abdicazione di Carlo V, il nuovo re Filippo II inviò immediatamente a Las Casas una cedula (decreto reale) che gli proibiva di pubblicare qualsiasi opera che riguardasse le Indie senza l’esplicita autorizzazione del Re. E poco dopo gli scritti di Las Casas furono messi all’indice in Spagna e fu ordinata la requisizione di quelli che circolavano nelle Indie.

In compenso, Las Casas ebbe un riconoscimento di altissimo valore morale. Nel luglio del 1559 i caciques più rappresentativi di varie regioni del Perù lo nominarono loro procuratore davanti al Re e al Papa. Las Casas diventò così, anche legalmente, il Protector de los indios, appellativo con cui è passato alla storia. Più in generale, non si può non ammirare quello che potremmo chiamare il “multiculturalismo pacifista” di Las Casas, che dà al suo pensiero una straordinaria attualità teorica e politica.

Mentre Sepúlveda rovesciava sugli indios gli stereotipi del pregiudizio razzista, Las Casas ne tesseva gli elogi, rifiutando l’autorità di Aristotele e richiamandosi ai Vangeli. Con una sorprendente capacità empatica Las Casas assumeva il punto di vista degli “altri” e tentava di accogliere serenamente la loro diversità anche se per lui era moralmente inaccettabile. Con questo atteggiamento Las Casas ha inaugurato un approccio multiculturale e “relativistico” alla diversità degli “infedeli” che gli ha consentito di penetrare nell’universo simbolico degli indios cogliendone la razionalità, i valori e la semantica spirituale.

Per Las Casas i templi maya dello Yucatán non erano meno ammirevoli delle piramidi egizie e per molti aspetti la civiltà greca era inferiore a quella degli indios americani. E a suo parere non si poteva pensare che gli spagnoli fossero dotati di una razionalità superiore di quella degli indios, e neppure di un più alto sentimento religioso. Era un errore considerare i sacrifici umani e il cannibalismo rituale, che gli indios praticavano secondo una tradizione millenaria, come l’espressione di una condizione selvaggia e primitiva. Quei comportamenti, pur inaccettabili per un cristiano, dovevano essere guardati come una concezione di Dio e una esperienza relig
iosa che erano presenti presso molti popoli dell’antichità e di cui c’erano tracce persino nella Bibbia, come provava il sacrificio di Abramo. Quei sacrifici dovevano pertanto essere rispettati almeno finché, con mezzi pacifici, gli spagnoli fossero riusciti a convincere gli indios della superiorità della fede cristiana.

Non meno esemplare e rigoroso è il pacifismo di Las Casas, soprattutto se messo a confronto con il bellicismo dei maître à penser della teologia cattolica del suo tempo, non solo Sepúlveda, ma anche e soprattutto i teologi di Salamanca, in primis Francisco de Vitoria. Sostanzialmente fedele alla dottrina agostiniana del bellum justum, Vitoria metteva da parte il valore della mitezza evangelica e sposava la tesi della moralità della guerra, caratteristica di un cristianesimo integrato entro le strutture temporali del potere imperiale. Per lui era legittimo che i barbari venissero trattati come “nemici perfidi” e quindi spogliati dei loro beni, privati dei loro capi e ridotti in schiavitù. Las Casas esclude la nozione di bellum justum, purché non si riferisca alla resistenza di un popolo aggredito. E da questo punto di vista egli non ha alcun dubbio: la sola guerra giusta – anzi “giustissima” – è quella cui erano stati costretti gli indios. Al contrario, i cristiani non avevano mai condotto una guerra giusta contro gli indigeni: le loro guerre erano state “diaboliche e ingiustissime”.

Un popolo, scrive Las Casas nella sua Apologia, con un linguaggio sorprendentemente moderno, ha diritto ad avere un suo governante e non esiste alcun motivo perché un altro popolo, con il pretesto della sua superiore cultura, lo attacchi e lo distrugga. Perciò qualsiasi popolo, «per quanto barbaro possa essere, si può difendere dai popolo “superiori” che vogliono sottometterlo e privarlo della libertà», e a maggior ragione può «punire i “più sapienti” uccidendoli come selvaggi e violenti trasgressori della legge di natura».

La guerra di resistenza degli indios è «certamente più giusta di quella che, con il pretesto della superiorità, gli spagnoli conducono contro di essi». Sono parole nobili e realistiche nello stesso tempo, e di una drammatica attualità.

Danilo Zolo
http://www.liberazione.it/


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remo
 remo
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Ecco un altro esempio di disinformazione.
Il vescovo in questione non essendo un ribelle si atteneva a quanto pubblicato dal papa a Roma sulla tutela dei nativi. Non solo, ma anche l'autorità politica della regina ISabella produsse documenti fortemente protettivi verso i nativi che dovevano essere considerati al pari degli altri sudditi. A difendere i nativi infatti furono non solo un vescovo, ma un gran numero di sacerdoti (famosi i gesuiti). La bolla di cui parla l'autore, citata per una minimissima parte faceva riferimento anche a quelli che non erano nativi e che erano armati e potevano essere ostili. Ovvero gli Aztechi, popolo che aveva costituito un grande impero sanguinario, giungendo dal Nord America, sterminando le popolazioni locali, i nativi, utilizzati come schiavi e vittime da sacrificare. La prima liberazione dei nativi avvenne per mezzo degli europei che, essendo pochi in numero, soggetti alle malattie tropicali (mica solo i nativi si ammalavano) impossibilitati ad usare i cavalli negli altipiani e la polvere da sparo a causa dell'umidità, si posero alla testa di una grande ribellione volontaria degli stessi nativi contro i loro dominatori (Aztechi ed Inca).
In seguito ci furono tentativi di sottomissione dei nativi da parte degli europei che tuttavia incontrarono forti resistenze nei missionari, ovvero nella Chiesa. Tanto è vero che l'America Latina ed il Sud America a differenza del Nord America colonizzato dagli anglosassoni protestanti, sono continenti in cui le diverse razze hanno potuto fondersi in seguito a numerosissimi matrimoni misti. I protestanti invece non si sposavano con chi consideravano impuro ed inferiore non meritevole nemmeno di conversione.
Ultimo fatto storico riguarda la conversione dei nativi che avvenne spontaneamente ed in massa a seguito delle apparizioni della vergine di Guadalupe proprio ad un nativo e alla sua comunità. Non furono i missionari gli autori di questa conversione, ma un'autorità ben più alta. Si è trattata se non ricordo male dell'ultima conversione di massa della storia.
Ed ora la storia sembra riprendersi la sua rivincità là dove gli USA stanno per diventare il primo paese al mondo per popolazione latina. Il primo gruppo religioso dagli anni '70 è quello cattolico rappresentato principalmente dagli europei. Un cattolicesimo dunque di maniera. Oggi i latinos stanno rapidamente prendendo il sopravvento e la maggiorparte di loro (principalmente cattolici ma anche protestanti) si definiscono carismatici.


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Truman
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Sono parzialmente d'accordo con Remo, con alcune precisazioni.

Oggi come allora in Sudamerica ci sono missionari che si impegnano a favore della popolazione locale, mentre le autorità ecclesiastiche li invitano in modo perentorio a "non fare politica".

La Chiesa sono sia i missionari che le autorità sopra di loro, ma non necessariamente la pensano tutti allo stesso modo.

E comunque il genocidio delle popolazioni indigene è stato nel Nordamerica, anglosassone e protestante, quello che si autodefinisce esportatore di democrazia e libertà.


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remo
 remo
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L'invito a non fare politica viene dal Vangelo dove si dice "date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio".
In realtà la Chiesa non dice tout court non fate politica perchè quando ti batti ad esempio contro la povertà, la droga, l'Aids ecc per forza di cose "entri in politica". Ma dice non riducete il messaggio cristiano ad un messaggio politico, Gesù rivoluzionario, salvezza materiale, paradiso in terra perchè questo è stravolgere il Vangelo, scadere nell'utopia materialista già condannata più volte dalla storia.
Infatti "a che giova all'uomo possedere grandi ricchezze se poi perde l'anima?".


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