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Dove portano le stock option


Tao
 Tao
Illustrious Member
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La pubblicazione, che periodicamente viene curata sulla stampa, delle graduatorie, per importo e per rilevanza, delle plusvalenze relative alle «stock option» assegnate ai manager suscita consuetamente reazioni articolate che vanno da una vera o presunta indignazione per l’elevatezza dei guadagni, ad affermazioni riassumibili nel «tutto va bene, madama la Marchesa» o, più raffinatamente, nell’«è l’economia» oppure «è il mercato, bellezza». Questi manager, spesso persone di prim’ordine, sono «presenti al proprio tempo».

Sulle basi di appositi piani, spesso connessi ad aumenti di capitale, le società concedono ai propri dirigenti i diritti di opzione per l’acquisto di azioni delle stesse società a un prezzo prestabilito (lo strike price) a una determinata data, ad esempio quella della concessione delle opzioni, cosicché essi possono lucrare le plusvalenze al momento in cui eserciteranno il diritto di acquisto. Nel trattare questo argomenti, occorre rifuggire sia dalla facile demagogia sia da un pragmatismo che si acconcia all’ineluttabilità dell’evoluzione delle strategie retributive; o che fa leva solo sulla pur non contestabile asprezza della concorrenza nella ricerca delle migliori professionalità. Un punto di partenza deve essere, però, chiaro: si sta qui parlando di manager di imprese private (spesso banche) e di responsabilità decisionale della società. Non è più il tempo (cessato ben oltre 20 anni fa) quando la contrattazione economica e normativa riguardante ad esempio il personale delle Casse di Risparmio o degli Istituti di credito di diritto pubblico era sottoposta al benestare, previsto da una disciplina degli anni Trenta del secolo scorso, dell’organo di vigilanza: si valutavano allora gli oneri diretti e riflessi delle negoziazioni sul piano dell’equilibrio economico e finanziario della banca interessata.

Ciò premesso, la diffusione negli ultimi tempi delle «stock option» trova le sue ragioni nell’intento di accrescere la motivazione per il perseguimento degli interessi aziendali, accentuando efficienza e produttività attraverso il legame che si viene a istituire, fatto l’investimento, con l’andamento delle azioni dell’impresa di cui il manager è parte (spesso, va ricordato, si confondono, nella rappresentazione giornalistica, le azioni assegnate, quando non a titolo gratuito, con gli incrementi di valore, che invece costituiscono il vero introito, il bonus, del dirigente interessato). Insomma, può darsi che questa forma di erogazione è in linea con la tesi che sembra di moda secondo la quale scopo del manager, soprattutto nelle banche, è quello di «creare valore per l’azionista»: tesi che, se applicata tout court, rischia di far passare in secondo piano obiettivi di pari dignità ed efficacia, il cui perseguimento alla lunga si riflette ugualmente sulla creazione di valore: migliorare la tutela dei depositanti, contribuire alla crescita dell’economia, conseguire la soddisfazione del cliente, promuovere un diverso rapporto con l’impresa, eccetera. Si può dire, dunque, che, anche a prescindere dallo stretto diritto, le stock option sono una componente del trattamento retributivo dei manager, i più in vista dei quali percepiscono remunerazioni che complessivamente oggi vanno ben al di là dei 10 milioni di euro. Altra cosa è l’assegnazione di stock option agli azionisti rilevanti, nel quale caso l’obiettivo di quella che viene chiamata, con una brutta espressione, «fidelizzazione», appare chiaramente improprio.

Ma c’è da chiedersi: il coinvolgimento sempre più stretto nella vita dell’impresa può avere solo la forma dell’attribuzione di queste opzioni? Non sarebbe allora il caso di passare più direttamente ai modi classici della partecipazione alla sorte e ai risultati dell’impresa anche attraverso meccanismi di più stretta e diretta corresponsabilizzazione? O il caso di introdurre altre forme di incentivi non solo economici? E se nei risultati vanno coinvolti, come anche Montezemolo ha sottolineato in una recentissima intervista televisiva, tutti coloro che vi contribuiscono - dai soci, ai manager, ai lavoratori, a cominciare dagli operai - il tema della partecipazione può fermarsi ai manager con le stock option?

E non esiste un generale problema di equità e anche di eticità - certamente da non affrontare in chiave dirigistica o di moralismo spicciolo - nelle modalità con le quali si persegue la motivazione dei manager e quella dei collaboratori, dato il divario tra la paga degli uni e quella degli altri?

La nuova normativa tributaria, promossa dal viceministro Visco, ha opportunamente stabilito che, in quanto sostanzialmente reddito di persone fisiche, le opzioni, nelle società quotate, vanno tassate con l’aliquota del 43%, anziché con quella secca del 12,5% come prima era previsto (solo a condizione del mantenimento del possesso delle azioni per almeno 5 anni, dopo un precedente periodo di maturazione, quest’ultima aliquota può trovare applicazione). La leva fiscale, però, non è da sola risolutiva. Da un lato si pone una esigenza di autodisciplina da parte delle imprese: quanto meno i parametri da considerare per queste forme di trattamento aggiuntivo dovrebbero essere più articolati e meglio collegati alle strategie aziendali.

Inoltre vi è un problema di appropriata rappresentazione in bilancio di tali attribuzioni; dall’altro lato, occorre un regime più ampio, oltre quanto già previsto, in tema di trasparenza. Bisogna evitare ciò che in teoria potrebbe accadere con strategie non sempre positive in materia di andamento dei corsi delle azioni influenzate anche dai propri diritti di opzione: potrebbe anche nascerne, paradossalmente, una sorta di conflitto di interesse. Sulle decisioni di concedere le opzioni, andrebbero coinvolti pienamente, senza delegabilità, con particolari procedure, obblighi e limiti, gli stessi organi assembleari.

Negli Usa questa materia è attentamente seguita dalla Sec (la nostra Consob), soprattutto dopo che si sono verificati scandali con la retrodatazione della concessione dell’opzione in modo da far percepire al manager interessato una plusvalenza maggiore con la rappresentazione di un più lungo tempo di possesso, ma così non vi è stato un serio legame con l’impegno e la produttività dello stesso manager. Dopo questi avvenimenti, che hanno suscitato durissime critiche nello stesso mondo economico, sono state avanzate proposte di revisione della materia; si ipotizza il riconoscimento ai soci del potere di votare sulla concessione delle opzioni, mentre avanza una forte spinta per la moderazione: in Italia, se si agisse in quest’ultimo senso, forse scatterebbe subito l’accusa di veterostatalismo.

Si incrociano, in questa materia, temi che vanno dall’autonomia delle parti in un contesto privatistico, alla tutela degli interessi generali della società, allo stesso rilievo sociale dell’impresa, opera di una «communitas». Ma vi sono anche più specifici profili relativi alla trasparenza e all’informativa al pubblico degli investitori e degli operatori, alle contrattazioni nel mercato, alla tutela del risparmiatore e del consumatore. Finora l’argomento è stato oggetto di analisi solo in una cerchia ristretta di studiosi, inquadrato spesso nel più generale tema dell’azionariato dei dipendenti (che merita una trattazione a parte).

Mentre si sprecano i convegni sulla responsabilità sociale d’impresa, sarebbero benvenuti un più ampio approfondimento, almeno pari alle elaborazioni in corso negli Usa e l’assunzione di decisioni intervenendo su criteri e comportamenti. Insomma, è il momento di una più diffusa disamina «sine ira et studio» anche sulla stampa quotidiana.

Angelo De Mattia
Fonte: www.unita.it
Link: http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=62797
16.01.07


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