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Feltrinelli doveva morire

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helios
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FELTRINELLI DOVEVA MORIRE

di Stefania Limiti - 1 Giugno 2013
La scena del crimine è apparsa subito molto strana: tutti gli elementi che la componevano sembravano messi lì a dire «Feltrinelli deve morire mentre fa un attentato»

Stefania Limiti Nell'Appendice al libro Doppio livello la morte dell'editore Giangiacomo Feltrinelli (14 marzo 1972), insieme agli omicidi del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972) e del giovane militante di Democrazia Proletaria, Peppino Impastato (9 maggio 1978), viene descritta come una operazione realizzata sotto falsa bandiera, un falso d'autore, un assassinio camuffato da morte accidentale.

La morte dell'editore Feltrinelli

La scena del crimine è apparsa subito molto strana: tutti gli elementi che la componevano sembravano messi lì a dire «Feltrinelli deve morire mentre fa un attentato». Da subito tutti pensarono o dissero che non reggeva la versione più immediata, cioè che il fondatore dei Gap, i Gruppi d'Azione Partigiana, fosse saltato in aria mentre preparava un attentato al traliccio numero 71 di Segrate. Si disse che avrebbe voluto far restare al buio tutta Milano che in quei giorni ospitava il congresso del Partito comunista - un «dispetto» incomprensibile se si pensa che il PCI pochi mesi prima (all'inizio del 1971) aveva avvisato Feltrinelli del progetto di Ordine Nuovo di ucciderlo nella sua casa austriaca di Oberhof, come ha documentato la sentenza-ordinanza del giudice Guido Salvini sull'eversione nera in Lombardia. Dopo essere stato oggetto di varie provocazioni che tentavano di identificarlo come il mandante delle bombe di Milano, Feltrinelli avrebbe deciso un'inutile azione terroristica con il rischio di farsi scoprire proprio mentre erano in corso le indagini sulla pista nera per gli atti di violenza che la destra aveva orchestrato dalla seconda metà del '69. Il 4 marzo di quell'anno, infatti, il giudice di Treviso Giancarlo Stiz aveva emesso i mandati di cattura nei confronti di Pino Rauti, Franco Freda e Giovanni Ventura accusandoli di essere i mandanti della strage di Piazza Fontana. In questo contesto il gesto di Feltrinelli è privo di logica. Individuiamo alcune strane circostanze di questo caso.

Le altre persone

Con Feltrinelli c'erano almeno altre due persone quella sera . Se fossero stati suoi compagni di avventura, avrebbero provveduto almeno a ripulire la scena: avrebbero portato via il corpo del loro capo, avrebbero portato via il pulmino che si trovava proprio lì a fianco, le chiavi delle sedi dove poi fu ritrovato materiale dei Gap, i documenti di identità dell'editore. Il suo corpo fu trovato dopo una notte intera: un'organizzazione avrebbe provveduto a portare via il cadavere del suo capo.

La falsa carta d'identità

Feltrinelli non era ricercato dalle autorità, quindi perché andare in giro con documenti falsi? È strano che un attentatore si preoccupi di portare con sé i documenti d'identità: la precauzione poteva avere un senso solo se lui avesse avuto paura di essere ammazzato. Anche pensando a una scelta dettata da un ossessivo senso di persecuzione, desta sospetto il fatto che il miliardario Feltrinelli non fu in grado di procurarsi una carta d'identità ben contraffatta. Quella che aveva con sé era grossolanamente falsificata, mancava perfino il timbro sulla foto.

Il taccuino e le foto

Solo un dinamitardo pazzo si reca a compiere il suo lavoro portando in tasca l'agenda con nomi e indirizzi dei suoi amici. Lì c'era scritto che quella sera del 14 marzo aveva appuntamento con tali Merx del gruppo FARI e Bruno Gallo dei FAMO. È poi grottesco pensare che un uomo che va a piazzare bombe sistemi nel suo portafogli, insieme a un pacchetto di sigarette di marca Astoria riempito per metà di tritolo polverizzato e per metà di pezzi di metallo e dotato di una miccia a lenta combustione, la carta d'identità falsa e le foto di sua moglie, Sibilla Melega, volto noto a Milano, e di suo figlio Carlo, avuto da Inge Schontal. L'identificazione del cadavere fu velocissima: se il suo volto fosse stato sfigurato, quelle foto l'avrebbero comunque garantita.

Le cariche esplosive

La scena mostra l'imperizia e finanche l'idiozia di un presunto esperto bombarolo. Alla base di un montante del traliccio era già sistemata una parte dell'esplosivo. A essa era collegato un filo che saliva lungo il traliccio fino all'altezza dove Feltrinelli si trovava per sistemare una seconda carica composta da tre candelotti e dove si presume volesse sistemare la sorgente elettrica rappresentata da una coppia di batterie e un orologio di marca Lucerne che doveva consentire l'innesco ad una ora X. Il terrorista avrebbe collegato così le cariche prima di averle sistemate.... A poca distanza da Segrate, precisamente a San Vito di Gaggiano, la banda aveva inoltre minato un altro traliccio che però non esplose perché non era stato adeguatamente innescato. Conclude in giudice Arcai: «quello che rimane sconcertante nel quadro d'insieme dei due attentati di Segrate e di San Vito di Gaggiano è che l'uno si è verificato in anticipo coinvolgendo l'autore che ne rimane ucciso e l'altro è preparato in modo tale che in alcun modo sarebbe mai potuto esplodere l'intero congegno. Nessuno negherà che come attentato combinato era un vero disastro di organizzazione e di esecuzione».

I timer

I periti d'ufficio presero un abbaglio: dissero che l'orologio aveva la sola lancetta delle ore. La verità invece doveva essere capovolta: la lancetta delle ore era stata tranciata, compariva solo quella dei minuti. Precisò nella sua consulenza di parte l'ingegner Piazzesi: «Prendendo in esame l'orologio adoperato a Segrate, partendo dalla descrizione dello stesso [fatta dai periti d'ufficio], indicato di marca "Lucerna" e con l'unica sfera, quella delle ore, indicante le ore 13, (...) si trattava [in realtà] di un orologio marca "Lucerne", e non "Lucerna", e l'unica lancetta residua dell'orologio Lucerne è quella dei minuti e non quella delle ore. Di conseguenza, il massimo ritardo che si sarebbe potuto ottenere era di 60 minuti e non di 12 ore, come affermato dai periti d'ufficio». Aggiungevano che «questa constatazione rendeva l'orologio Lucerne un reperto particolarmente singolare perché fondamentalmente diverso dagli altri due orologi che pure facevano parte della vicenda» (cioè quello di marca Logan trovato a Segrate e quello di marca «Bacovi» trovato al traliccio di San Vito di Gaggiano). Detto questo, i consulenti di parte evidenziarono anche che le lancette tolte dall'orologio Lucerne, quella delle ore e quella dei secondi, erano state tagliate alla base, operazione delicata eseguita con particolare cura, secondo «un modus operandi diverso da quello usato per gli altri due orologi repertati dai quali le lancette superflue erano state sfilate dalle rispettive sedi (per l'orologio Logan erano state sfilate dal perno centrale le lancette dei minuti, per l'orologio Bacon erano state sfilate in successione le lancette dei secondi e dei minuti». Come se diverse mani fossero intervenute ad eseguire la scrupolosa operazione.
Ebbe modo di parlare di questo «dettaglio» del timer anche l'ex brigatista Alberto Franceschini durante una audizione in parlamento (17 marzo 1999): «Il timer era in realtà un orologio nel cui quadrante veniva inserito un chiodo e veniva tolta la lancetta dei minuti; la lancetta delle ore, girando, nel momento in cui toccava il chiodo faceva scoppiare la bomba. La cosa strana è che nell'orologio di Feltrinelli, invece della lancetta dei minuti, venne tolta la lancetta delle ore. Non l'aveva fatto lui il timer, l'aveva fatto un'altra persona, il famoso Gunter, che non si è mai riuscito a capire chi fosse, era uno della Valtellina, un tipo strano, comunque il famoso Gunter. Per cui c'è quest'altra persona che non si è mai riuscita a rintracciare. Oltretutto c'è una storia interessante su Gunter, perché viene dalla Br
igata di Dio, cioè partigiani bianchi. Potrebbe essere un personaggio con degli aspetti inquietanti, però sembra che sia morto». Franceschini accenna all'ipotesi che potrebbe essere lui il collegamento fra Carlo Fumagalli, l'ex partigiano bianco leader del Mar, un'organizzazione eversiva di destra responsabile di vari attentati in Valtellina, e Giangiacomo Feltrinelli. In tal caso, Gunter sarebbe sicuramente l'autore della trappola mortale.

Il corpo

La causa della morte, secondo i periti d'ufficio, era stata «una emorragia acuta da sfacelo dell'arto inferiore destro». A loro avviso, «le lesione riportate sul corpo di Feltrinelli erano avvenute in limine vitae». Secondo la «relazione di consulenza medico-legale», redatta per conto della famiglia di Feltrinelli da due luminari dell'epoca, il professor Gilberto Marrubini e il professor Antonio Fornari (il medico che ha dimostrato che Roberto Calvi non si suicidò, ma fu strangolato e poi appeso al Blackfriars Bridge) quelle lesioni erano avvenute intra vitam: scrissero che «sulla scorta dei caratteri macroscopici e istologici di alcune delle lesioni riscontrate sul cadavere, escludevano una immediata successione cronologica di tutte le lesioni osservate rispetto al verificarsi dell'esplosione e ciò perché alcune di esse presentavano fenomeni reattivi che inducevano a collocare la loro produzione in un tempo diverso ed antecedente all'unica esplosione».
Tra le lesioni non compatibili con l'esplosione, c'era anche quella sede di «encefalo corrispondente al lobo temporale destro». Perché una cavità orbitale era «conciata» come da pugno o percossa. Feltrinelli sarebbe caduto a terra da un' altezza di circa tre metri e mezzo. Le perizie ufficiali spiegavano così la dinamica: mentre si trovava sul traliccio, a un certo momento, per distendersi o per sgranchirsi, appoggiò le mani (rimaste quasi illese dopo l'esplosione, come è possibile se stava maneggiando l'esplosivo?) sulle travi orizzontali dietro la sua schiena, movimento che portò il suo piede sinistro ad urtare contro la batteria-orologio disposta come timer: l'urto avrebbe causato l'incidentale contatto tra la lancetta dell'orologio e il perno infilato per chiudere il circuito, causando l'innesco del congegno e l'esplosione.
Ma i periti di parte hanno contestato questa dinamica, ritenuta in contrasto con le leggi fondamentali della dinamica. Secondo loro, considerato che il corpo ed il complesso orologi-pile furono ritrovati all'interno del traliccio, le pile sotto la nuca, e che il filo uscente dalle pile formava un'ansa che appoggiava sopra la testa e terminava in un'altra estremità che appoggiava sopra il braccio sinistro, se l'orologio fosse stato pendente e se Feltrinelli fosse stato a cavalcioni del tralicci, il piede avrebbe urtato contro l'orologio, spingendolo verso l'esterno del traliccio stesso. Inoltre, se l' esplosione fosse seguita immediatamente all'urto, l'orologio, sia per il colpo del piede sia per effetto molto maggiore dell'esplosione, sarebbe stato proiettato con violenza in direzione del suolo, sempre all'esterno della base del traliccio e certamente non verso il punto dove è stato poi ritrovato.
La configurazione del corpo e degli oggetti sarebbe stata necessariamente diversa: concludevano perciò che, a loro giudizio, appariva più plausibile l'ipotesi che le pile ed l'orologio si trovassero in una tasca della giacca indossata dal Feltrinelli. Dalle foto infatti, la giacca è rovesciata, la tasca aperta, pile e orologio sembrano appena usciti dalla tasca superiore sinistra.
Il sopralluogo fatto a Segrate dai periti di parte, Maccararo e Bizzarri, mise subito in evidenza che il cadavere, se fosse caduto dall'alto, sarebbe stato ritrovato a pancia sotto e non supino. La caduta avrebbe dovuto procurargli ferite ma i testicoli, i denti, le mani erano illesi. Il 26 marzo del 1972 il «Corriere della Sera», riferendo gli esiti della perizia di parte, scriveva che «guardando il traliccio [dal punto in cui poggiava la testa di Feltrinelli] sul secondo basamento in cemento di sinistra, a 4-5 centimetri da terra, è rimasta una macchia strisciata di sangue sullo stesso raggio di proiezione della gamba amputata [la destra]». In parole meno tecniche, l'arto tranciato dall'esplosione è stato scaraventato lontano e nel suo allucinante volo a pelo di terra, ha sfiorato il basamento del traliccio, lasciandovi la scia di sangue che appare perfettamente parallela al terreno (...) se l'editore fosse stato scaraventato giù dal traliccio dallo scoppio, quella striscia avrebbe dovuto essere obliqua rispetto al terreno. Un'altra prova che l'esplosione è avvenuta a terra: la tomaia (la parte superiore nda) della scarpa che ancora calzava la gamba amputata risulta tranciata dal lato esterno (...).
C'è di più. Un errore commesso da Feltrinelli nel piazzare la carica non viene ritenuto possibile (tesi che il maresciallo Bizzarri sostiene fin dal giorno della scoperta del cadavere, cioè quando ancora non era stato nominato perito di parte): ne consegue che «quell'errore qualcuno deve averlo commesso per lui». Perché? La spiegazione tecnica è inconfutabile. Il dynamon è un esplosivo che salta solo se innescato: «Puoi sbatterlo per terra, puoi persino sparare contro il candelotto, non succede nulla». Se la carica che ha ucciso Feltrinelli fosse stata innescata, ossia se nel cavo elettrico che si suppone l'editore stesse maneggiando, passava la corrente, avrebbero dovuto esplodere anche tutte le altre cariche «piazzate» sulle gambe del traliccio. Ciò non è accaduto: «C'è da pensare quindi che la carica che ha dilaniato l'editore fosse isolata dalle altre, ossia avesse un suo esclusivo innesco. Perché? La risposta è la chiave per risolvere il caso».

La vicenda è molto complessa e in questa sede non intendiamo affrontarla nei suoi infiniti particolari ma solo mettere in evidenza le incongruenze della versione ufficiale che ha nascosto e impedito di approfondire ben altra verità: Feltrinelli doveva morire in quel modo, perché la sua figura doveva incarnare il terrorista bombarolo.
Qualcuno gli suggerì l'azione di Segrate per incastrarlo in un'operazione contro di lui? La sera prima sicuramente Feltrinelli aveva incontrato il leader del Mar, Carlo Fumagalli, proprietario di una carrozzeria che si trovava proprio vicino al traliccio di Segrate. Oppure, come suggeriscono altri, Feltrinelli fu portato sul traliccio tramortito (i periti di parte hanno messo in discussione anche la perizia tossicologica) e poi hanno fatto esplodere il suo corpo in modo tale che potesse sembrare un incidente sul 'lavoro'? Subito dopo il suo ritrovamento, si scatenò un dibattito politico infuocato, si parlò subito di omicidio (lo fecero giornalisti come Camilla Cederna e Eugenio Scalfari) e la versione ufficiale fu aggredita come una montatura: ma alla fine bisogna notare che tutto questo contribuì ad allontanare i riflettori dalla scena del crimine.
Nella sua sentenza ordinanza, il giudice Giovanni Arcai scrive una lucidissima frase: «è chiaro che qui si parlerà della verità istruttoria, vale a dire di quella verità che alla luce del probabile si accorda con le risultanze istruttorie ed è tuttavia evidente che la verità istruttoria può talora non coincidere con la verità vera, quella cioè che ha una solo faccia e che può essere colta solo nel momento della sua verifica materiale e, quindi, quasi mai dal Giudice che interviene solo dopo che quella verità ha assunto altre facce attraverso le testimonianze, i rilievi obbiettivi, le ricostruzioni peritali, le interpretazioni più o meno corrette». La morte di Feltrinelli ha assunto la faccia "dell'incidente sul lavoro" ma forse è stata una delle operazioni meglio riuscite di falsa bandiera.

http://www.cadoinpiedi.it/2013/06/01/feltrinelli_doveva_morire.html#anchor


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Luca Martinelli
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ottimo articolo.....vale sempre la pena ricordare, soprattutto ai più giovani. la storia ufficiale ha fatto acqua sin dal primo momento.. La storia delle mani integre ha insospettito subito.


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Stopgun
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No coemment


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radisol
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E invece fu probabilmente una normalissima azione dei Gap, come altre fatte in quel periodo ...

Le congetture citate le conosco tutte, furono poste da subito ... le posi persino io all'epoca, lavorando nella controinformazione per conto di Lotta Continua.

Ma risultarono appunto congetture ...

Vero dell' "amicizia pericolosa" di Feltrinelli con Carlo Fumagalli, che allora era comunque noto solo come ex partigiano e carrozziere ... e solo dopo risultò impicciato in trame terroristico/golpiste col giro di ex partigiani "bianchi" diretto da Edgardo Sogno ...

Ma, al di là di questa cosa che si seppe solo molti anni dopo, all'epoca tutti i gruppi con cui era in contatto Feltrinelli, dai suoi Gap alle Brigate Rosse all'ala "militare" di Potere Operaio fino alla rete internazionale che coordinava e che aveva base in America Latina ... parlarono di "incidente sul lavoro" ... e questo in una fase storica dove invece si vedevano "trame" e "complotti" in ogni dove ...

Lo stesso Mario Capanna, all'epoca leader del Movimento Studentesco milanese che tenne l'orazione funebre al funerale di Feltrinelli, in quella occasione si espresse in questi termini ....

Le mani intatte si spiegarono col fatto che l'ordigno al momento dell'esplosione fortuita, mentre Feltrinelli si arrampicava sul traliccio, era tenuto sul dietro di una coscia sorretto da nastro adesivo ... ordigni identici, fatti coi pacchetti di sigarette Astoria, erano stati mostrati poche settimane prima da Feltrinelli a Valerio Morucci, in una villa dell'editore in Svizzera ..... è vero, Feltrinelli non era latitante ma gli piaceva lo stesso comportarsi da "clandestino", a cominciare dal nome di battaglia "Osvaldo" ... i due gappisti che erano con lui, entrambi con lesioni ai timpani per l'effetto della esplosione, fuggirono a piedi, abbandonando anche il furgone, senza minimamente occuparsi di "ripulire la scena" ... l'azione serviva, ha poi spiegato il gappista Augusto Viel, non per "sabotare" il congresso del Pci ma per far mancare la luce al centro di Milano ( cosa che comunque si verificò dopo lo scoppio ) allo scopo di favorire un attacco esplosivo contro la Questura di Milano, azione cui doveva partecipare lo stesso Viel e che non avvenne perchè i due superstiti portarono a chi doveva attentare alla Questura la notizia della morte dell'editore ...

Dubito quindi francamente che le cose possano essere andate diversamente ... perchè tutta questa gente, persone e organizzazioni certamente diverse tra loro e che nemmeno tutte si conoscevano ed avevano rapporti politici tra loro, avrebbero dovuto avvalorare la tesi dell' "incidente" ?


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claricola
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Figlio di papà che giocava a fare il ribelle con l'esplosivo. E da come è finito neanche tanto sveglio.


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helios
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Feltrinelli è stato ucciso. Le prove in una perizia medico-legale di 40 anni fa, ignorata dai giudici

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Per i giudici l’editore morì dilaniato a Segrate dalla bomba che stava preparando. Ma una ferita ignorata e una perizia mai pubblicata sollevano alcuni inquietanti dubbi

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di Ferruccio Pinotti

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MILANO – Perizie, carte, testimonianze, dichiarazioni “pesanti”, evidenze fattuali emerse di recente da altri processi sollevano pesanti dubbi sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli, di cui il 14 marzo 2012 ricorrono i 40 anni. La sua fine fu liquidata velocemente come un incidente occorso all’editore durante la preparazione di un attentato al traliccio di Segrate. Certo ci fu qualcuno che allora (tra gli altri, giornalisti del calibro di Eugenio Scalfari e Camilla Cederna) parlò di «omicidio politico», ma l’ipotesi che la morte di Feltrinelli fosse stata una «messa in scena» non è mai stata vagliata sul piano giudiziario. Eppure, a distanza di 40 anni, oggi è possibile disporre di elementi che autorizzano quanto meno a sollevare forti dubbi sulla morte dell’editore e a suggerire la necessità di una rilettura più completa dei fatti di allora.

LA PERIZIA MEDICO- LEGALE IGNORATA - La prima grande fonte di dubbio risiede nelle pesanti anomalie che una rilettura globale degli atti (oggi possibile in quanto recentemente scannerizzati dal tribunale di Milano) fa emergere riguardo all’inchiesta giudiziaria sulla morte: la perizia d’ufficio è stata compiuta in senso unidirezionale, senza vagliare l’ipotesi che Feltrinelli possa essere stato aggredito prima dell’esplosione, legato al traliccio con l’ordigno e fatto saltare. Importantissima, in questo senso, una perizia completamente trascurata dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, che avrebbe potuto far aprire le indagini sull’ipotesi dell’omicidio. Si tratta della “relazione di consulenza medico-legale”, redatta da due luminari dell’epoca, il professor Gilberto Marrubini e il professor Antonio Fornari (il medico che ha dimostrato che Roberto Calvi non si suicidò, ma fu strangolato e poi appeso al Blackfriar’s bridge). Questo esplosivo documento, mai pubblicato sinora e corredato da foto impressionanti, sin dalla prima pagina contesta l’impostazione dei periti d’ufficio, affermando: «Dobbiamo far rilevare come alcune delle lesioni riscontrate sul cadavere di Giangiacomo Feltrinelli non possano e non debbano automaticamente ed acriticamente essere ascritte ad esplosione. Così come dobbiamo far rilevare che avrebbe meritato una più accurata e particolare considerazione la valutazione della successione cronologica delle lesioni stesse». Marrubini e Fornari rilevano in primis «una grave e censurabile carenza di obiettivazioni iniziali» sul momento esatto della morte; il «vuoto di indagini che avrebbero dovuto essere condotte al momento e sul luogo in cui il cadavere venne rinvenuto«; gli «accertamenti che ai periti erano ancora consentiti, ma che comunque non furono praticati». Quanto alla «successione cronologica delle varie lesioni», Marrubini e Fornari osservano che esse «risultano sfalsate nel tempo», mentre i periti d’ufficio, «inglobandole in un unico coacervo, ne fanno risalire la produzione, al pari della amputazione, in limine vitae», cioè all’esplosione. Un approccio che non convince Marrubini e Fornari, i quali apertamente scrivono: «Viene fatto di domandarci se antecedentemente all’esplosione non fossero intervenute altre violenze, traumatiche o di altra natura». I rilievi in sede peritale infatti «attestano, di per se stessi, come le lesioni siano in parte desincronizzate rispetto al momento dell’esplosione». [b]Un modo elegante per dire che Feltrinelli fu aggredito prima dell’esplosione. I due professori smontano pezzo per pezzo l’esito della perizia d’ufficio. I periti iniziavano notando qualcosa che poteva far sembrare che i polsi di Feltrinelli fossero stato legati: [b“La superficie estensoria del polso destro e della mano destra appare interessata da colorazione blu-nerastra, con fitta punteggiatura a tratti ricoperta da sottile crosta rossastra”. Secondo Marrubini e Fornari si tratta di «fenomeni tutti vitali», ovvero prodottisi in vita, quindi prima dell’esplosione. «Già all’ispezione esterna del cadavere, alcune delle lesioni riscontrate presentavano aspetti di evoluzione tali da non poter essere considerate come contemporanee all’esplosione». Tra le lesioni non compatibili con l’esplosione ne figura poi una in sede di «encefalo corrispondente al lobo temporale destro.» Perché una cavità orbitale era “conciata” come da pugno o percossa?

Il drammatico quadro che emerge a poco, dalle parole tecniche e asettiche dei due professori, è quello di un «pestaggio» in vita di Feltrinelli (trasportato poi sul luogo della messa in scena), o di una aggressione antecedente all’esplosione. Marrubini e Fornari incalzano nel loro ragionamento: «Sempre in tema di cronologia delle lesioni, si dovrebbe dedurre che lo sfacelo dell’arto inferiore destro fu l’ultimo atto di una serie di momenti lesivi». Un modo garbato e tecnico per dire che Feltrinelli prima fu aggredito e poi fatto esplodere sotto il traliccio. Ma c’è una ferita posteriore, sul cranio, ancora più inquietante: «Non convinti lascia pure la interpretazione dell’area fratturativa di tipo “opercolare” riscontrata in corrispondenza della rocca petrosa destra. Una lesione del genere può trovare la sua origine in un trauma contusivo, “meccanico” dunque, applicato sull’ovoide cranico: ipotesi questa verificata in concreto e ripetutamente dalla esperienza dalla casistica.» Le immagini parlano chiaro. «La ferita lacero-contusa in sede occipito-parietale sinistra, ferita di forma stellare, a tre punte, con braccia della lunghezza ciascuna di mm. 7 circa, con bordi finemente laceri», viene attribuita dai medici legali a un’aggressione da dietro. «La ferita, per i suoi aspetti, richiama ipotesi di trauma direttamente applicato da uno strumento ad azione contusiva». Marrubini e Fornari invitano a rivedere i risultati della perizia d’ufficio: “Da questi esami – a parere di chi scrive – potrebbe discendere, come logica conseguenza, una rinnovata meditazione sui mezzi e sui meccanismi produttivi delle lesioni”. Oltre alla cronologia delle ferite, lascia perplessi il fatto che le mani dell’editore, nonostante l’eplosione, fossero pressoché intatte, quasi che Feltrinelli fosse stato legato, con le mani dietro la schiena, alla traversa del traliccio. Se l’editore fosse esploso armeggiando con l’ordigno, le mani avrebbero dovuto essere amputate dallo scoppio o quanto meno maciullate.

I SERVIZI NELLE INDAGINI SULLA MORTE – Che le attività eversive di Feltrinelli fossero «seguite» dai Servizi segreti di vari Paesi è ormai ampiamente documentato (la famiglia Feltrinelli ha acquisito ad esempio i rapporti della Cia, ormai declassificati, sul loro congiunto). Ma è recentissima la scoperta che l’ufficiale dei carabinieri, il maggiore Pietro Rossi, che condusse le indagini sulla morte di Feltrinelli, era tutt’altro che un anonimo ufficiale: era in realtà l’uomo di collegamento tra l’Arma e il Sid (Servizio Informazioni Difesa) Rossi era anche un membro del super servizio segreto denominato «L’Anello», la cui esistenza è stata documentata solo da recenti inchieste giudiziarie. Rossi venne inviato apposta da Padova a Milano per occuparsi dell’inchiesta su Feltrinelli e «coordinare» le indagini. Nel 1978 il maggiore Rossi diventerà addirittura capocentro del Sisde a Milano. Inoltre, la Divisione Pastrengo dei carabinieri guidata dal generale piduista Giovanbattista Palumbo (già collaboratore del generale De Lorenzo all’epoca del Sifar) da cui dipendeva Rossi all’epoca delle indagini su
Feltrinelli aveva creato – stando agli atti – «un gruppo di potere estremamente coeso al di fuori della gerarchia» e collegato con ambienti di estrema destra. La caserma dei carabinieri di via Moscova da dove partirono le indagini su Feltrinelli era quindi una base operativa dei Servizi e dell’Anello.

GIUDICI «SOSTITUITI IN CORSA» E PRESSIONI SULLA MAGISTRATURA INQUIRENTE – Il magistrato Guido Viola che giovanissimo (all’epoca aveva trent’anni) condusse le indagini sulla morte di Feltrinelli ci consegna una rivelazione pesante: “I carabinieri di via Moscova, guidati dal potentissimo generale Palumbo, il cui nome poi fu scoperto negli elenchi della P2 di Castiglion Fibocchi, fecero pressioni sull’allora procuratore generale di Milano, Enrico De Peppo, un conservatore (lo stesso che chiese che il procedimento sulla strage di Piazza Fontana fosse spostato a Catanzaro per motivi di ordine pubblico, ndr) perché il primo magistrato incaricato di indagare sulla morte di Feltrinelli, Antonio Bevere (oggi magistrato di Cassazione, ndr) fosse sostituito perché “troppo di sinistra”. Fu così che l’inchiesta finì in mano a me, che ero giovanissimo”. Viola lascia capire che ci furono pesanti interventi: “Io stesso non ero soddisfatto del lavoro dei carabinieri. Poi della vicenda si occupò l’Ufficio politico della questura di Milano. Non so quanto i Servizi abbiano contato, in tutta la vicenda”. Nonostante i dubbi sollevati dalla perizia di Marrubini e Fornari, Viola chiuse l’inchiesta senza battere l’ipotesi di un “killing” ben organizzato. Il suo iter professionale successivo è stato travagliato: dopo altre inchieste importanti (Sindona) Viola lasciò la magistratura nel ’91 per divenire avvocato. Nel ’96 ha patteggiato una pena di 22 mesi per riciclaggio aggravato ed è stato radiato nel 97 dall’ordine degli avvocati. “Sui carabinieri di Milano pesava l’ombra di Palumbo e di Musumeci, poi rivelatisi entrambi della P2. Mi trovai molto meglio con la questura del dr. Allegra e con commissari come Calabresi. Non ho mai saputo se i Servizi segreti del ministero sapessero di più di quel che (la questura) mi riferiva. Certo è che i Servizi seguivano Feltrinelli: fu persino fotografato con Sibilla Melega a Oberhof”.

CHI VOLEVA MORTO FELTRINELLI - «A uccidermi sarà il Mossad», disse una volta all’amico ed ex partigiano Giambattista Lazagna. Il filone delle attività svolta dal Mossad nei confronti di Feltrinelli non è mai stato approfondito, ma le affermazioni di Lazagna secondo cui l’editore temeva di morire per mano del Mossad potrebbero essere vagliate da una nuova inchiesta giudiziaria. Come è emerso da recenti ricerche (quali il volume Mossad Base Italia, di Eric Salerno, Il Saggiatore, 2010) il Mossad in quegli anni era attivissimo in Italia, con attività che comprendevano anche il killing di veri o presunti nemici di Israele, come avvenne con l’omicidio nel ’72 dell’intellettuale palestinese Zwaiter Abdel Wail (ritenuto membro del commando di Monaco 72) ed altre morti. A guidare del Mossad in Italia erano figure come Asa Leven e Mike Harari (classe 1927), ancora oggi vivente e residente a Tel Aviv. L’intelligence israeliana si infiltrò nel terrorismo rosso e nero. E il Mossad disponeva persino di una unità operativa a Milano, guidata dall’agente Shai Kauly, definito dall’ex agente del Mossad Victor Ostrovsky «uno specialista del lavoro psicologico e del travestimento», in grado quindi di infiltrare gli ambienti vicini a Feltrinelli, considerato un pericoloso nemico perché simpatizzante (o addirittura finanziatore, secondo alcune fonti) della guerriglia palestinese, che in Italia si muoveva disinvoltamente grazie all’accordo segreto tra Moro e l’Olp. Il generale Gianadelio Maletti del Sid si spinge più in là (vedi box intervista) con una clamorosa rivelazione: l’ipotesi che vi sia il Mossad (esperto nel far saltare in aria i terroristi) dietro la morte di Feltrinelli. Anche il capo dell’Ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D’Amato, riteneva Feltrinelli un obiettivo da eliminare. La prima informativa dell’Uar su Feltrinelli risale al 1948, mentre nell’ottobre del ’50 l’Uar inviava un dispaccio riservato sui movimenti di Feltrinelli all’estero. L’attività di controllo dell’editore proseguiva per tutti gli anni 50 e 60, sino alla morte. Una nota dell’Uar del ’68 definiva Feltrinelli «elemento notoriamente pericoloso per le istituzioni democratiche. E per tale ragione la sua attività viene costantemente seguita». Il Club di Berna, creato da D’Amato per collegare i Servizi italiani ad altre intelligence straniere, teorizzava l’utilizzo di individui in grado di maneggiare esplosivi e dopo la morte dell’editore D’Amato rivendicò con orgoglio la guerra psicologica condotta contro Feltrinelli, attraverso la pubblicazione del provocatorio libello Feltrinelli guerrigliero impotente. L’Uar di D’Amato fu inoltre responsabile di pesanti infiltrazioni negli ambienti dell’estrema destra ed è noto che l’editore nell’ultima fase della sua vita ebbe contatti con ambigue figure, come Carlo Fumagalli dei Mar. Ma sono molti i possibili infiltrati, i «traditori» che possono avere ordito la morte di Feltrinelli od avere collaborato ad essa: ambigue figure infiltrate nell’entourage dell’editore dal Mossad o dall’intelligence atlantica, con la collaborazione dei Servizi italiani.

Ferruccio Pinotti

http://solleviamoci.wordpress.com/2012/03/13/feltrinelli-e-stato-ucciso-le-prove-in-una-perizia-medico-legale-di-40-anni-fa-ignorata-dai-giudici/


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Luca Martinelli
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Anche i somari sanno che se vuoi far saltare un traliccio devi minarlo alla base. L'hanno insegnato anche a me quando ero nei boys-scout. Altro che arrampicarsi per vedere il panorama......alla faccia dei finti sinistrorsi che sanno tutto.


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Anonymous
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Non sto a discutere sulle congetture dei due professori medici. Ma a me sembra che manchi il movente per l'omicidio di Feltrinelli. Un movente forte e credibile, intendo..


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helios
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Non sto a discutere sulle congetture dei due professori medici. Ma a me sembra che manchi il movente per l'omicidio di Feltrinelli. Un movente forte e credibile, intendo..

il movente è stato ampiamente descritto ma siccome si parla di mossad e di cia a qualcuno da fastidio tanto che non lo tiene in considerazione.
Quando si dice far finta di non vedere ❗

«A uccidermi sarà il Mossad», disse una volta all’amico ed ex partigiano Giambattista Lazagna. Il filone delle attività svolta dal Mossad nei confronti di Feltrinelli non è mai stato approfondito, ma le affermazioni di Lazagna secondo cui l’editore temeva di morire per mano del Mossad potrebbero essere vagliate da una nuova inchiesta giudiziaria.

siccome Feltrinelli aveva buon tempo da perdere perchè era ricco e figlio di papa se ha detto che a ucciderlo sarebbe stato il mossad è 'normale' che non sia credibile.
Oltretutto secondo alcuni qui sopra, non era nemmeno sveglio.
Nemmeno si chiedono se è stato ucciso prima. Troppa fatica.
E'sveglio invece chi crede che sia andato al traliccio da solo, abbia innescato tutto da solo senza nemmeno poi avere le mani sporche e,siccome non aveva altro da fare si sia anche ucciso (così il mossad può sempre dire che non è stato lui,finchè non si prova il contrario)


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Ma perchè il mossad avrebbe voluto la morte di Feltrinelli?
Se non si da una risposta credibile a questa domanda, tutto il castello di congetture crolla...
E non mi rispondere che bisognerebbe indagare perchè "il mossad c'entra sempre" o sulla base di una frase detta una volta a qualcuno...


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radisol
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Feltrinelli, a parte i suoi Gap italiani che indubbiamente erano poca cosa .... coordinava una rete guerrigliera internazionale, che indubbiamente invece era una cosa molto seria ...

Per di più in stretto collegamento, tramite il governo cubano, con l'Urss e coi paesi "comunisti" dell' Est europeo ... e poi direttamente aveva stretti rapporti col governo cecoslovacco e coi suoi servizi ... pochi giorni prima della sua fine risulta che era stato a Praga dove pare si recasse con cadenza mensile ...

Quindi, motivi per ucciderlo .... non tanto il Mossad ( era sicuramente filo-palestinese ma non risulta che la sua rete si sia mai occupata di questioni mediorientali ) ma certamente la Cia e/o i servizi segreti italiani ... ce n'erano e come ...

Rimane il fatto che i suoi compagni, in tutte le sue multiformi attività, parlarono con certezza di "incidente sul lavoro" .... e quelli che sono sopravvissuti, lo fanno ancora oggi ... è il caso di Viel, una specie di "attendente" di Feltrinelli, poi passato alle B.R., che lo ridice anche in un recente libro uscito sulla banda 22 Ottobre genovese .... ma anche di Morucci e Bellosi, che allora erano i responsabili della struttura militare di Potere Operaio che collaborava con Feltrinelli ... e così Curcio e Franceschini, che pure su quegli anni hanno letture ormai opposte, su Feltrinelli e la sua morte dicono la stessa cosa ...

E questo, per me, chiude il discorso ...


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helios
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Ma perchè il mossad avrebbe voluto la morte di Feltrinelli?
Se non si da una risposta credibile a questa domanda, tutto il castello di congetture crolla...
E non mi rispondere che bisognerebbe indagare perchè "il mossad c'entra sempre" o sulla base di una frase detta una volta a qualcuno...

perchè mai Feltrinelli disse :
«A uccidermi sarà il Mossad»,? Chiediti tu perchè mai il mossad voleva la morte di Feltrinelli e magari dopo aver letto gli articoli postati che lo dicono chiaro e tondo il perchè.
E dicono anche che Feltrinelli è stato ucciso non certamente sotto il traliccio di Segrate. Quindi non è stato un incidente ma un omicidio.
Questo fatto lo si è sempre saputo ma qualcuno non se ne fa una ragione.


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Stopgun
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Uno dei motivi del Mossad per creare tensione in Italia era quello di fare apparire Israele come Guardiano del Mediterraneo al posto dell'Italia.

L'Italia doveva essere presentata come un covo di comunisti ed anarchici e un incidente ad una figura come Osvaldo portava acqua al mulino di Tel.Aviv.

Elementare, Watson.


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E questo, per me, chiude il discorso ...

Ed anche per me...


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helios
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recensioni di storia .net

La tragica fine di Giangiacomo Feltrinelli e le sue interpretazioni

Intervento alla conferenza Brown-Harvard Graduate Student Conference in Italian Studies “Revealing Italy:Italy Re-veiled” tenutasi presso la Brown University il 2-3 marzo 2012.

di Eros Francescangeli

Quaranta anni fa, il 15 marzo 1972, a Segrate (vicino a Milano), venne rinvenuto, ai piedi di un traliccio dell’alta tensione, un corpo senza vita dilaniato dagli effetti di una carica esplosiva. In quei giorni, dal 13 al 17, la metropoli lombarda stava ospitando i lavori del XIII Congresso nazionale del Pci (nel quale Enrico Berlinguer venne eletto Segretario generale). Il giorno successivo, mentre veniva scoperto dall’altra parte della città (a San Vito di Gaggiano) un altro sostegno dell’alta tensione alla cui base v’era un considerevole numero di ordigni inesplosi, gli investigatori appurarono – fin troppo facilmente – che l’uomo del traliccio di Segrate altri non era che Giangiacomo Feltrinelli, noto editore e attivista della sinistra rivoluzionaria.
Il presente intervento è centrato sulla morte di Feltrinelli e sui suoi veli (reali o presunti). Ciò sulla base delle fonti coeve, alcune delle quali inedite, provenienti dai fondi del ministero dell’Interno presso l’Archivio centrale dello Stato e dell’archivio del Pci. L’intento è quello di andare oltre le letture schematiche tese a vittimizzare o demonizzare l’editore e, soprattutto, di ricondurre la pur intricata vicenda entro l’alveo della ricostruzione storica, lasciando in disparte quel flusso incontrollato di ipotesi, congetture, schemi concettuali che possiamo definire dietrologia. Ciò non può significare, tuttavia, evitare di porre in relazione il tragico episodio con vicende e persone inserite a pieno titolo nel pantheon dei “misteri d’Italia” che, come noto, non cominciano a materializzarsi il 15 marzo 1972. Dobbiamo dunque fare un passo indietro.
Già sospettato dalla questura milanese di aver avuto un ruolo “di copertura” per le bombe del 25 aprile 1969 alla Fiera campionaria e alla stazione centrale del capoluogo lombardo(1), dopo la strage di piazza Fontana (la madre di tutte le stragi, del 12 dicembre 1969) Feltrinelli optò per la clandestinità, poiché persuaso della pianificazione di una campagna persecutoria nei suoi confronti e del dispiegamento di una “strategia della tensione” culminante – come egli sosteneva da almeno un biennio – con un colpo di stato autoritario-conservatore, sulla falsariga di quanto avvenuto in Grecia nell’aprile del 1967. Per la verità, dato che non era formalmente ricercato, più che di «clandestinità» si trattò – come ebbe a dire lo stesso editore – di scegliere l’«irreperibilità»(2). D’altro canto, fiutata l’aria che tirava, egli aveva già abbandonato l’Italia tra il 4 e il 5 dicembre 1969 dopo che il magistrato Antonio Amati lo ebbe interrogato in relazione alle bombe di primavera, anche se, ad ogni buon conto, una volta appresa la notizia della strage del 12 dicembre (interpretata come «il Reichstag italiano»(3)) tornò in Italia per tentare di intervenire in un frangente percepito come catastrofico.
Il “chiodo fisso” di Feltrinelli sull’imminenza di un golpe antipopolare e sulla necessità di prevenirlo armi alla mano non era un mistero. Nell’aprile del 1968 diede alle stampe l’opuscolo Persiste la minaccia di un colpo di stato in Italia!, mentre nel luglio dell’anno seguente scrisse il più noto Estate 1969. La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un colpo di Stato all’italiana(4). Preoccupazioni eccessive? Fobie prive di fondamento? Mettendo in fila i fatti e, ovviamente, alla luce delle conoscenze acquisite, la risposta non può che essere negativa. Anche senza ricorrere alla letteratura complottista è possibile concludere che i timori di Feltrinelli fossero fondati, sia per quanto riguarda la sua persona sia per quanto riguarda le sorti del Belpaese.
Per il primo aspetto, oltre al coinvolgimento negli attentati di aprile, nello stesso anno Feltrinelli fu denunciato per istigazione a delinquere, in quanto direttore dell’edizione italiana della rivista guevarista «Tricontinental» (il cui numero 9 conteneva esortazioni all’uso delle armi e indicazioni pratiche al riguardo)(5) e per lo scritto Estate 1969, la cui pubblicazione venne giudicata «Diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico»(6). Nel tentativo di coinvolgere l’editore in attività cospirativo-terroristiche, piazza Fontana rappresentò un ulteriore giro di vite. Il 14 dicembre 1969 il commissario Antonino Allegra chiese al giudice Ugo Paolillo – che la negò – l’autorizzazione per la perquisizione dell’abitazione di Feltrinelli e dei locali della casa editrice(7). Quattro giorni più tardi, il giudice Amati – in virtù della titolarità dell’inchiesta per gli attentati di aprile – dispose la perquisizione dello studio dell’editore e il ritiro del suo passaporto (che divenne operativo il 20 dicembre, contestualmente all’iscrizione in rubrica di frontiera)(8).
Nel frattempo la stampa moderata e conservatrice presentò Feltrinelli come ispiratore e/o grancassa della strategia eversiva e “bombarola” dei «rossi». Prendendo spunto dalle istruzioni pubblicate su «Tricontinental», la “spalla” de «La Nazione» del 22 dicembre era intitolata, ad esempio, Come l’editore Feltrinelli addestrava i dinamitardi. L’articolo in questione era firmato da Enzo Tortora, il quale anni dopo – per nemesi storica – finì egli stesso nei panni scomodi del “mostro sbattuto in prima pagina” (per usare le parole di un film di Bellocchio, nel quale, peraltro, si vedono alcune sequenze dei funerali di Feltrinelli)(9). Il principale quotidiano italiano, il «Corriere della sera», non fu da meno. I solerti tentativi di accreditamento della “pista anarchica”, furono guarniti con le notizie sulle restrizioni imposte alla libertà di manovra dell’editore-rivoluzionario. Tra i giornalisti impegnati in tale operazione si distinse – per zelo, dovizia di informazioni e illazioni tese alla colpevolizzazione dell’editore – Giorgio Zicari(10), sul conto del quale – data la sua centralità nella vicenda analizzata – conviene spendere due parole. Zicari sarà colui che, due anni e tre mesi dopo, seguirà per conto del «Corriere» il caso del decesso dell’editore, sfruttando abilmente i suoi canali preferenziali con la questura milanese e i servizi segreti. Pubblicamente accusato da Feltrinelli, dalle colonne di «Voce comunista», di essere un confidente della polizia, nel 1974 Giulio Andreotti rivelò come il giornalista fosse effettivamente un collaboratore dell’Intelligence militare italiana – il Sid (Servizio informazioni della Difesa) – e della Divisione affari riservati del ministero dell’Interno(11). Zicari, che confermò e rivendicò il suo ruolo, venne licenziato dal «Corriere della sera» e temporaneamente sospeso dall’Ordine dei giornalisti; questo nonostante all’epoca non fosse ancora noto né il fatto – emerso solo nel 1981 – della sua affiliazione (tessera n. 844) alla loggia Propaganda 2, o P2, di Licio Gelli né quello – emerso in epoca più recente – della sua attività informativa verso il Pci(12).
Tornando a Feltrinelli, oltre alla campagna mediatica e alle pressioni cui furono sottoposti i familiari dell’editore (come nota il figlio Carlo: «Arrivano telefonate anonime […]. Chiamano a tutte le ore i giornalisti Zicari, Spadolini, Ronchey, Pansa, Tortora»(13)), egli cominciò a temere per la propria incolumità. Anche in questo caso, i riscontri danno ragione ai timori di Feltrinelli. A partire dal 1969 e fino alla sua morte, l’editore divenne un bersaglio privilegiato della destra neofascista o dei settori oltranzisti dell’atlantismo (ambiti, in quegli anni, fortemente intrecciati in nome dell’anticomun
ismo). È ormai certo come nel 1971 alcuni neofascisti avessero tentato di sequestrare Feltrinelli nella sua residenza austriaca di Oberhof ed è altrettanto documentato come più o meno nello stesso periodo l’editore avesse ricevuto segnalazioni riguardanti la propria sicurezza da parte di Ruggero Zangrandi e di un funzionario del Pci milanese(14). Infine, da un documento dell’aprile del 1972 redatto da un informatore della Divisione affari riservati, attribuito al giornalista del «Corriere» Alberto Grisolia, si evince come nella primavera del 1971 elementi appartenenti ad una struttura occulta dei servizi segreti (il cosiddetto «Noto servizio» o «Anello») avessero «deciso di “rapire” e far sparire» alcune personalità di sinistra, tra cui «se catturato, l’editore Gian Giacomo [sic] Feltrinelli»(15).
Quanto alle sorti delle libertà politiche dell’Italia tra gli anni Sessanta e i Settanta, oltre al “Piano Solo” orchestrato dal generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo nella primavera-estate del 1964 (ma venuto alla luce nel maggio del 1967), è acclarato come un tentativo di golpe sia stato effettivamente organizzato nella notte tra il 7 e 8 dicembre 1970 ad opera del Fronte nazionale del principe “nero” Junio Valerio Borghese con la copertura, a quanto pare, di alcuni settori dei servizi. A ciò si aggiungano le numerose trame e i vari organismi operanti, a vario titolo, negli anni della guerra fredda: dalla Rosa dei venti alla – seppur “legittima” – rete clandestina atlantica Stay-behind (cioè, in Italia, “Gladio”), dalle manovre golpiste di Edgardo Sogno al Movimento di azione rivoluzionaria del partigiano “bianco” Carlo Fumagalli, passando ovviamente per le operazioni e il «Piano di rinascita democratica» della già menzionata loggia P2(16). La percezione di essere ad un passo dal colpo di stato, del resto, era un sentimento abbastanza diffuso, non solo tra gli attivisti della sinistra radicale. E mentre i giovani neofascisti gridavano «Ankara, Atene, adesso Roma viene!», la strategia della tensione continuò a marciare speditamente, a suon di bombe e lutti, fino alla metà degli anni Settanta.
Se dunque, come in un recente volume di Pansa, si ricorre allo stereotipo dell’editore «perseguitato da una paura ossessiva», ironizzando sul fatto che passò «l’estate, arrivò l’autunno [e] il colpo di Stato non venne»(17), ciò significa – dato che è da escludersi l’ipotesi dell’ignoranza della recente storia patria – essere in malafede. Significa – seguendo peraltro la traccia del libello denigratorio Feltrinelli: il guerrigliero impotente (sul quale si dirà) – voler infierire sulle spoglie di Feltrinelli per colpire, è lecito supporre, le idee che lo mossero. Il fatto che Feltrinelli non sia stato arrestato, sequestrato o ucciso (ammesso che a Segrate le cose siano andate come tutto lascia supporre) e che l’Italia non sia piombata sotto il tallone di ferro di un regime in salsa greca (o cilena), non cancella ipso facto i tentativi compiuti in tal senso e la loro potenziale pericolosità.
La strategia di Feltrinelli non fu tuttavia difensivista. Egli – convinto di essere di fronte al bivio tra reazione o rivoluzione – cercò di organizzare unità guerrigliere prendendo a modello più che il guevarismo (che restò sempre un riferimento teorico) i Gruppi di azione patriottica: le agili unità comuniste, prevalentemente urbane, distintesi nella Resistenza al nazifascismo. Nel corso del 1970 costituì una delle prime formazioni armate italiane: i Gruppi d’azione partigiana - Esercito popolare di liberazione, che compirono alcune azioni dimostrative o propagandistiche tra le quali le clamorose interferenze di Radio Gap nelle frequenze della Rai-Tv. Nel volgere di un anno, mentre cercò di convogliare o coordinare le energie dei primi nuclei di militanti orientati verso la lotta armata (la banda XXII ottobre di Genova, le neonate Brigate rosse e le strutture illegali di Potere operaio), intensificò il carattere offensivo delle azioni dei Gap. Secondo alcune interpretazioni, a “provocare” tale scelta concorse anche il citato opuscolo Feltrinelli: il guerrigliero impotente, partorito nell’aprile 1971 dalla mente del direttore della Divisione affari riservati del ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato, eminenza grigia degli apparati di Intelligence italiani(18).
Redatto probabilmente da un artista della cerchia de “Il Bagaglino”, il cabaret romano che raccoglieva gli umori dell’anticomunismo capitolino(19), lo scritto meriterebbe una relazione a parte, in bilico tra storia politico-sociale, studi di genere, analisi letteraria e psicanalisi. Come è stato osservato, l’avversione di Federico Umberto D’Amato (anch’egli iscritto alla P2, tessera n. 554) verso Feltrinelli appare quasi come una «questione personale», sembra riconducibile a una forma di «odio antintellettuale […], qualcosa di tossico e polmonare»(20). Dopo aver dileggiato gli snob della rivoluzione (responsabili di organizzare – anziché partite di caccia alla volpe – caccie al poliziotto e attentati ai treni o di sostenere «chi compie stragi, attentati dinamitardi, atti di terrorismo»), Feltrinelli viene presentato come il più «emblematico» e «rappresentativo» di tale schiera:

[…] Egli riassume tutta la boria e la vanagloria, l’inutilità e la presunzione, l’impotenza rabbiosa, il cinismo frigido e l’astuzia spietata dell’affarista senza scrupoli, che butta in politica e traduce in termini di «rivoluzione» la propria noia di «ereditiero» viziato e i propri complessi di uomo sbagliato. È il prototipo del guerrigliero-bene, quello che parla e scrive molto di guerriglia, anche se, per motivi di competenza, preferisce poi lasciarla fare agli altri(21).

Tratteggiando l’adesione di Feltrinelli agli ideali comunisti (giudicati in ogni caso fallaci) come una contraddizione, il pamphlet non si lasciò sfuggire l’occasione di insinuare anche qualche dubbio “atroce” tra i potenziali seguaci del leader dei Gap: dalle bombe del 25 aprile 1969 alle malaccorte dichiarazioni del cognato l’indomani della strage di piazza Fontana. Il tutto per concludere che non sarebbe «avventata l’ipotesi avanzata da qualcuno, secondo la quale egli somiglierebbe, più che a un eroico ribelle, a uno di quegli agenti provocatori al soldo della CIA i quali, secondo la Pravda, avrebbero il loro “capo provocatore” nello stesso Herbert Marcuse, il filosofo della “contestazione”»(22). Insomma un dosaggio di materia fangosa che, tuttavia, sarebbe risultato un po’ carente senza qualche risvolto di natura sessuale. Facendo leva sulle motivazioni degli annullamenti delle sue precedenti unioni, il capitolo Tutte le donne del re “svelava” come, secondo «le voci che circolano con insistenza negli ambienti “impegnati” della Milano ricca», l’editore sarebbe «più valoroso in piazza che nei letti a due piazze. La “rivoluzione”, secondo questa teoria, compenserebbe le sue tenui possibilità di trovare altri “sfoghi” e, nel contempo, agirebbe da afrodisiaco sulla sua psiche di uomo annoiato e distonico»(23). Le intenzioni dei redattori del volumetto erano dunque quelle di colpire Feltrinelli ferendolo, con argomentazioni viriliste e populiste, nell’amor proprio per costringerlo ad uscire dalla sua “tana” facendogli così compiere qualche passo falso. Ciò sarebbe confermato anche dallo stesso Federico Umberto D’Amato che, secondo un documento rintracciato da Giannuli, nel maggio 1972, cioè – salvo possibili errori di datazione del documento – due mesi dopo la morte dell’editore avrebbe “rivendicato” l’operazione durante una riunione del cosiddetto Club di Berna (un organismo informale di coordinamento tra i capi delle strutture di Intelligence europee, da egli stesso fondato nel 1968)(24).
Per venire alle circostanze del ritrovamento e del riconoscimento delle spoglie di Feltrinelli (che aveva assunto il nome di battaglia di “Osvaldo”), esse sono descritte in
alcuni documenti di polizia finora inutilizzati nelle ricostruzioni di vario taglio. Molti dei dettagli menzionati sono gli stessi che troviamo nei giornali di quei giorni (in particolare negli articoli di Zicari sul «Corriere della sera»). Altri sono differenti. Tra questi la questione della data dell’attentato e quindi del decesso dell’editore. La prima comunicazione è un telegramma prefettizio «con precedenza assoluta» delle ore 24:00 di mercoledì 15 marzo 1972. In esso s’informa il ministero che:

Verso ore 15 odierne da un agricoltore est stato rinvenuto […] cadavere uomo con gamba destra staccata et con ferite in varie part[i] del corpo. At base traliccio rinvenuti 35 candelotti et otto mezzi candelotti dinamite divisi in sei gruppi tutti collegati tra loro con miccia detonante et uniti at pile elettriche et tre orologi(25).

Un’informativa anonima del 16 marzo, che per tipologia può essere attribuita al Sid (che partecipò alle indagini, insieme a polizia e carabinieri)(26) o agli Affari riservati, ci informa che da «[…] una fotografia di una donna e di un bambino, trovata sul cadavere, il Dr. Calabrese [rectius Calabresi] della questura [abbia] creduto di ravvisare la consorte dell’editore […] Feltrinelli», e come «il portiere dello stabile di Via Andegari 4», interpellato dallo stesso Calabresi(27), abbia riconosciuto «con sicurezza il bambino, con qualche incertezza, la consorte e, pure con sicurezza, il giardino di una villa che il noto editore possiede in provincia di Alessandria»(28). La stessa nota ci informa anche sulla data dell’incidente, puntualizzando che il decesso dell’attentatore veniva fatto risalire «dal medico di Segrate alla notte tra il lunedì e il martedì», cioè alla notte tra il 13 e il 14 marzo 1972.

Nel corso della stessa notte – proseguiva il rapporto – contadini di Segrate hanno riferito di aver sentito un boato, al quale non hanno dato importanza data la vicinanza dell’Aeroporto di Linate. Ad un’ora dello stesso giorno è fermo l’orologio con datario trovato, insieme a tre cariche di dinamite non esplose, alla base di un traliccio situato in località Cascina Bottoni di S. Vito di [G]aggiano nel Comune di Abbiategrasso(29).

Un altro telegramma prefettizio «con precedenza assoluta», inviato alle ore 24:00 del 16 marzo, confermerebbe tale scenario(30), peraltro reso pubblico attraverso un articolo del «Corriere», nel quale si esplicita come il datario del timer ritrovato a San Vito di Gaggiano fosse «bloccato sul giorno 13»(31).
Come si giunge, dunque, a stabilire il 14 marzo come data della morte di Feltrinelli? In assenza di riscontri medico-scientifici inoppugnabili(32), molto probabilmente tale ipotesi è stata accreditata dalla notizia – apparsa fin dal primo giorno nel «Corriere» – che all’interno del furgone Volkswagen parcheggiato nei pressi del traliccio e utilizzato dai neogappisti: «C’era anche una fascetta con sei quotidiani tutti a data 14 marzo»(33). Una prova inconfutabile. Se, ovviamente, “genuina”. I dubbi, a riguardo, permangono. Anche perché alcuni indizi lasciavano comunque aperta l’ipotesi del 13 marzo a prescindere dalle carte di polizia individuate e citate poc’anzi. A cominciare da alcuni brani contenuti in articoli di giornale(34) per giungere alla testimoninza “a caldo” – frutto di un’“inchiesta” delle Brigate rosse – del neogappista che guidò il nucleo di sabotatori a San Vito di Gaggiano, noto con lo pseudonimo di “Günter”. In essa, il testimone (che sembra riportare le notizie apprese dai due militanti che accompagnarono Feltrinelli a Segrate) ricorre all’espressione il «giorno precedente il 13», lasciando quindi intendere come il 13 marzo fosse, per l’appunto, il giorno in questione, ossia quello dell’attentato(35). Del resto, la stessa agendina di Feltrinelli riportava, seppur in codice, l’indicazione dell’incontro con i suoi due complici (“Gallo” e “Bruno”) per le ore 19:00 del 13 marzo(36).
Inoltre, già all’epoca venne rilevato – anche se allo scopo di sostenere la versione dell’uccisione e della messinscena – come Feltrinelli avesse fissato alcuni appuntamenti a Lugano per il giorno 15, tra cui, alle ore 13:00, quello con la sua ex moglie e suo figlio Carlo(37) ed era dunque improbabile, seppur non impossibile, che avesse in programma di compiere una azione così impegnativa la sera precedente (anche perché, originariamente, i tralicci da minare dovevano essere quattro, due per gruppo).
Infine, per concludere, rispetto alle modalità dell’incidente, le fonti di polizia confermano i risultati della cosiddetta inchiesta delle Brigate rosse sulla morte dell’editore (la testimonianza di “Günter”). Il 14 settembre 1972, il capo della Polizia Angelo Vicari comunicava al Gabinetto del ministero dell’Interno alcune informazioni “riservate” sulla dinamica dell’incidente:

Val la pena di riferire in proposito che il magistrato [Ciro De Vincenzo], probabilmente per notizie apprese fiduciariamente, ritiene che, al momento dello scoppio, si trovassero sul posto altre due persone, di cui una a terra, rimasta pure ferita, ed una sul traliccio, alle spalle di Feltrinelli, il che l’avrebbe salvata dagli effetti della deflagrazione. Costoro si troverebbero oggi, molto probabilmente, a Cuba(38).

Anche in un documento “ufficioso” del giugno 1972 che circolava nelle stazioni e nelle caserme dei Carabinieri – alla cui stesura non è forse estranea la Divisione affari riservati – si ricostruisce la vicenda in modo più o meno simile:

[…] sarebbe assai utile pervenire all’identificazione delle persone – si ritiene almeno due – che accompagnarono l’editore a minare il traliccio: sembra ormai certo che una di tali persone sia rimasta ferita alle gambe dallo scoppio che uccise Feltrinelli. Dovrebbe essere colui che, ai piedi del traliccio, stava innescando l’esplosivo e – per una tragica disattenzione o imprudenza – avrebbe causato il decesso dell’editore. […].
Circa i complici del Feltrinelli nell’attuazione degli attentati, mancano prove concrete anche se sembra potersi dedurre con una certa sicurezza che l’esecuzione materiale – ad opera dell’editore – dell’attentato al traliccio di Segrate, abbia costituito una azione dimostrativa […] nei confronti di esponenti di altre organizzazioni eversive che l’editore stava tentando di unificare o, quanto meno, di collegare in vista di un’azione comune coordinata(39).

Ovviamente, per conoscere tali particolari occorreva o essere stati sul posto o essere entrati in contatto con una fonte molto prossima al piccolo nucleo di sabotatori. La fonte fiduciaria cui fa riferimento il giudice Ciro De Vincenzo (quasi certamente la stessa dei redattori della dispensa circolante fra i militari dell’Arma) era Marco Pisetta, una strana figura di protoguerrigliero che cominciò a collaborare – sotto la tutela del Sid – con le autorità sicuramente dal maggio 1972 se non, addirittura (e nel qual caso come “doppiogiochista”), dal maggio 1970 o anche prima. Pisetta aveva annunciato l’esistenza di questa testimonianza a coloro che l’interrogarono e ne fece cenno anche nel suo (o pseudo-suo) Memoriale nel quale, tuttavia, la vicenda venne ricostruita in modo differente: “Günter” avrebbe cioè partecipato all’azione di Segrate insieme a Feltrinelli(40).
Questa versione dei fatti venne contrastata dalla quasi totalità delle forze della sinistra. Per un ampio schieramento che andava dal Psi e dal Pci ad Avanguardia operaia l’editore era «vittima di una macabra provocazione politica»(41). Insomma, come sostennero fin dal primo giorno il Movimento studentesco di Mario Capanna e molti intellettuali schierati a sinistra (tra cui Camilla Cederna), Feltrinelli era stato assassinato: Segrate, dopo piazza Fontana, sarebbe stato dunque un altro delitto di Stato, e per aver asserito ciò furono denunciati per diffusione di notizie tendenziose att
e a turbare l’ordine pubblico(42). Una voce leggermente differente fu quella di Potere operaio che – essendo in rapporti stretti con l’editore (tanto che alcuni neogappisti erano anche militanti di Potop) e condividendo, per linee generali, la scelta insurrezionalista – definì Feltrinelli un rivoluzionario «caduto», anche se non mancò – per ragioni di opportunità – di associarsi al coro di coloro che lessero l’evento come un’uccisione(43).
Che le cose non fossero andate così lo si apprese nel corso del tempo. A meno che non s’ipotizzi un complotto talmente ben congegnato nel quale ciascun attore – da “Günter” a Federico Umberto D’Amato dai militanti di Potop ai magistrati che indagarono sui Gap – abbia recitato la propria parte senza alcuna sbavatura, dobbiamo concludere che Feltrinelli morì nell’espletamento di quello che riteneva essere il suo dovere di rivoluzionario. I veli ancora presenti nella ricostruzione della vicenda (dalle incongruenze segnalate alla “sinistra” presenza di doppiogiochisti, faccendieri e piduisti), non possono tuttavia stravolgere quella che appare come un’amara verità: Feltrinelli morì per un tragico “incidente sul lavoro”, come successivamente affermato dai suoi compagni d’avventura. Il «meccanismo del complotto» scattò, come descritto da Nanni Balestrini nel romanzo L’editore, perché «il negativo va sempre addossato a un complotto del nemico e il complotto non può che essere la destra la Cia l’America […]»(44). Le esigenze politiche di allora imposero tale lettura. Facendo però, come osservato da Oreste Scalzone, un torto a Feltrinelli, senza alcun «rispetto per la sua memoria»(45).

(1) Nel giorno del ventiquattresimo anniversario della Liberazione, a Milano un ordigno esplose presso lo stand Fiat alla Fiera campionaria, provocando alcuni feriti, mentre all’Ufficio cambi della stazione centrale venne rinvenuto un analogo artificio rimasto inesploso. Le indagini relative agli attentati milanesi vennero affidate al commissario Luigi Calabresi che le orientò verso la “pista anarchica”, rivelatasi poi fallace. Solo anni più tardi la magistratura stabilirà che a compiere quegli attentati fu l’organizzazione neofascista Ordine nuovo.

(2) Cfr. Carlo Feltrinelli, Senior Service, Feltrinelli, Milano 1999, p. 358.

(3) L’espressione viene riportata da Sibilla Melega, l’ultima moglie dell’editore, in una testimonianza dell’aprile 1972: «Giangiacomo diceva che voleva tornare in Italia. […] Questo è il Reichstag italiano, diceva»; in Giorgio Zicari, Trovata la seconda auto del gruppo Feltrinelli, in «Corriere della sera», 14 aprile 1972.

(4) Cfr. Giangiacomo Feltrinelli, Persiste la minaccia di un colpo di stato in Italia!, Libreria Feltrinelli, Milano 1968, pp. 30 e Id., Estate 1969. La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un colpo di Stato all’italiana, Libreria Feltrinelli, Milano 1969, pp. 24, inclusa l’appendice di Vassilis Vassilikos “anche noi non credevamo che in Grecia fosse possibile”.

(5) Cfr. Aldo Grandi, Giangiacomo Feltrinelli. La dinastia, il rivoluzionario, Baldini&Castoldi, Milano 2000, pp. 312-313 il quale specifica che la denuncia partì dalla procura di Roma. Cfr. inoltre la Riservata doppia busta raccomandata della prefettura di Milano del 9 gennaio 1970, in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi Acs), Ministero dell’Interno (d’ora in poi Mi), Gabinetto, Archivio generale, Fascicoli correnti (d’ora in poi Gab. Fc), 1967-1970, b. 86, f. 11210/18 «Caso “Feltrinelli”», con la quale si comunica che: «la questura ha denunziato in data odierna l’editore Gian Giacomo [sic] Feltrinelli per istigazione a commettere delitti contro la personalità dello Stato (art. 6302 CP)». La denuncia – precisava la missiva riservata – «trae origine dal fatto che a pag. 4 della rivista in oggetto sono riportate testualmente le seguenti frasi: “In ultima di copertina, coloro che vogliono fare la rivoluzione non a parole, troveranno delle istruzioni per la fabbricazione di una bomba a mano, di grande efficacia sia nella lotta urbana che nelle guerriglie”. E, in ultima di copertina della rivista, infatti, è illustrato, anche mediante disegno, il modo di confezionare e di usare una bomba a mano rudimentale» (ibidem).

(6) Riservata-raccomandata del prefetto di Milano al Gabinetto del Mi del 13 settembre 1969, ivi.

(7) Cfr. Aldo Grandi, Giangiacomo Feltrinelli, cit., p. 414.

(8) Cfr. Appunto riservato del Capo della polizia, Angelo Vicari, al Gabinetto del Mi del 15 febbraio 1970 e allegato dispaccio Ansa n. 58/1 del 20 dicembre 1969, in Acs, Mi, Gab. Fc, 1967-1970, b. 86, f. 11210/18 «Caso “Feltrinelli”». Nell’appunto si legge: «[…] l’editore in oggetto in data 20/12 sc., su richiesta della questura di Milano, è stato iscritto in RF [Rubrica di frontiera] per il provvedimento di “impedire espatrio e ritiro passaporto”, con la seguente motivazione “È indiziato di reati – come da comunicazione del Giudice istruttore del Tribunale di Milano n. 2309/69/Cons. del 18/12/1969”».

(9) Cfr. Aldo Grandi, Giangiacomo Feltrinelli, cit., p. 314. Come noto, Enzo Tortora, nel giugno 1983, verrà arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti e per collusione con la camorra. Il film di Marco Bellocchio, che ha come protagonista Gian Maria Volonté, è Sbatti il mostro in prima pagina (Italia-Francia, 1972, 93 minuti).

(10) Cfr. Giorgio Zicari, Perquisito lo studio dell’editore Feltrinelli, in «Corriere della sera», 20 dicembre 1969 ed Id., L’inchiesta su Feltrinelli, ivi, 21 dicembre 1969.

(11) Cfr. l’intervista a Giulio Andreotti di Massimo Caprara, I sette diavoli custodi, in «Il Mondo», 20 giugno 1974.

(12) Cfr. Il caso Zicari e i servizi segreti, in «Corriere della sera», 22 giugno 1974. Cfr. inoltre, Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2003, p. 387.

(13) Carlo Feltrinelli, Senior Service, Feltrinelli, Milano 1999, p. 353.

(14) Ivi, p. 397 e Aldo Grandi, Giangiacomo Feltrinelli, cit., pp. 423-424. Sul tentativo di sequestro, confessato dal pentito Martino Siciliano, cfr. Roberto Morelli, “Volevamo rapire Feltrinelli”, in «Corriere della sera», 2 settembre 1996 e Giuseppe Caruso, I fascisti che volevano rapire Feltrinelli, in «l’Unità», 28 novembre 2003.

(15) Nota del 4 aprile 1972, attribuita ad Alberto Grisolia (nome in codice “Giornalista”) e conservata nel fascicolo “Dario” tra le carte del vice direttore della Divisione affari riservati Silvano Russomanno trovate nel deposito di via Appia; ora riprodotta in Aldo Giannuli, Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Tropea, Milano 2011, p. 409.

(16) Sul Piano Solo cfr. Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo. I servizi segreti, il centro-sinistra e il «golpe» del 1964, Arnoldo Mondadori, Milano 2010. Sul golpe Borghese (detto anche «dell’Immacolata» o «dei forestali» o più pittorescamente definito come «notte di Tora Tora») la letteratura è assai vasta; mi limito a segnalare, poiché funzionale ai fini del presente discorso, le considerazioni di Giovanni Pellegrino in Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000, pp. 70-73. Sulle relazioni con gli apparati dello Stato e sulla fitta rete di “trame” e ipotesi golpiste o paragolpiste cfr. Giuseppe De Lutiis, Il lato oscuro del potere. Associazioni politiche e strutture paramilitari segrete dal 1946 a oggi, Prefazione di Giovanni Pellegrino, Editori Riuniti, Roma 1996.

(17) Giampaolo Pansa, L’utopia armata. Come è nato il terrorismo in Italia. Dal delitto Calabresi all’omicidio Tobagi, Sperling & Kupfer (Edizione speciale per il Giornale), Milano 2006, pp. 14 e 16.

(18) Cfr. Feltrinelli: il guerrigliero impotente,
Edizioni «Documenti», Roma [1971], pp. 105.

(19) Cfr. Carlo Feltrinelli, Senior Service, cit., p. 415.

(20) Ivi, p. 414.

(21) Feltrinelli: il guerrigliero impotente, cit., p. 11.

(22) Ivi, p. 88.

(23) Ivi, pp. 89-90.

(24) Cfr. Aldo Giannuli, Feltrinelli, così i Servizi tentarono di incastrarlo, in «l’Unità», 28 maggio 2005. L’argomento principale della relazione introduttiva di D’Amato a una delle sessioni degli incontri del Club (che si sarebbero tenuti tra il 15 e il 18 maggio 1972), sarebbe stato proprio l’editore rivoluzionario. A riguardo ecco cosa avrebbe affermato D’Amato: «[…] elemento di interesse è la pubblicazione, lo scorso febbraio, di un libro dal titolo Feltrinelli guerrigliero impotente […]. Il libro è stato uno choc psicologico per Feltrinelli che giocava alla rivoluzione senza rischiare in prima persona e deve essersi deciso a dare ai suoi collaboratori la prova che pagava in prima persona, incominciando a partecipare all’azione. Il libro voleva far uscire Feltrinelli allo scoperto e farlo agire sul piano personale rivoluzionario. Suo scopo era di esercitare una vera e propria azione psicologica ed il libro è una prova che nella lotta contro personaggi come Feltrinelli, i mezzi psicologici hanno qualche volta la loro importanza» (cit. in ibidem). Dubbi sull’attendibilità del testo sono comunque d’obbligo. Nell’impossibilità di visionare le carte originali, e tenendo conto che in ambiente di servizi non è infrequente che all’autenticità del documento non corrisponda una sua attendibilità sul piano contenutistico, balza agli occhi un’incongruenza: il libello non fu pubblicato nel febbraio 1972 ma alcuni mesi prima. Se, come da indicazione, risulta essere stato stampato «nell’aprile 1971», esso è – ad esempio e a scanso di qualsiasi dubbio – posseduto dalla biblioteca dell’Acs dal settembre 1971 (si veda, a riguardo, il registro d’ingresso della biblioteca dell’Acs relativo al 1971, pp. 62-63 ).

(25) Telegramma con precedenza assoluta della prefettura di Milano del 15 marzo 1972, ore 24:00, in Acs, Mi, Gab. Fc, 1971-1975, b. 24, f. 11001/49/1 «Milano. Ordine pubblico. Incidenti. V° fascicolo», sf. 10 «Feltrinelli Giangiacomo. Attentato traliccio di Segrate».

(26) Cfr. Arnaldo Giuliani, Anche il controspionaggio partecipa all’inchiesta, in «Corriere della sera», 18 marzo 1972, nel quale si precisa: «Sceso in campo sugli imperscrutabili sentieri del “top secret” anche il SID (Servizio informazioni della Difesa: o meglio il servizio di controspionaggio)».

(27) Cfr. Carlo Feltrinelli, Senior Service, cit., pp. 424-425.

(28) Rapporto informativo del 16 marzo 1972, in Acs, Mi, Gab. Fc, 1971-1975, b. 24, f. 11001/49/1 «Milano. Ordine pubblico. Incidenti. V° fascicolo», sf. 10 «Feltrinelli Giangiacomo. Attentato traliccio di Segrate».

(29) Ibidem.

(30) «Verso ore 16 odierne sono state rinvenute at base tre piloni traliccio linea elettrica alta tensione sito in campo adiacente Cascina Bottoni di San Vito di Gaggiano (Milano) tre cariche esplosive costituite da candelotti dinamite tutti collegati tra loro con miccia detonante et uniti at pila elettrica et orologio stesso tipo quello trovato ieri in comune Segrate con datario bloccato giorno 13 et lancetta ferma at ore 11. Causa oscurità disinnesco ordigno avverrà mattinata domani. Indagini in corso» (Telegramma con precedenza assoluta della prefettura di Milano del 16 marzo 1972, in Acs, Mi, Gab. Fc, 1971-1975, b. 24, f. 11001/49/1 «Milano. Ordine pubblico. Incidenti. V° fascicolo», sf. 10 «Feltrinelli Giangiacomo. Attentato traliccio di Segrate»).

(31) P.C., Erano uguali i materiali usati per minare i tralicci, in «Corriere della sera», 19 marzo 1972.

(32) L’autopsia alla presenza dei periti verrà eseguita solo in un secondo momento. In un articolo che non è azzardato attribuire a Zicari, apparso sul «Corriere» del 17 marzo e contenente alcune informazioni – poi rivelatesi prive di fondamento – del rapporto anonimo del 16 marzo 1972, si legge di un’analisi compiuta da un non meglio precisato «medico legale»: «Secondo i primi rilievi del medico legale che ha ispezionato il cadavere dell’uomo, la morte risalirebbe appunto al pomeriggio di martedì» (Sensazione per la morte di Feltrinelli, in «Corriere della sera», 17 marzo 1972).

(33) È morto straziato dalla dinamite per gettare mezza città nel buio, in «Corriere della sera», 16 marzo 1972.

(34) Ad esempio, in un documentatissimo articolo sulla scoperta del “covo” neogappista di via Subiaco e su Giuseppe Saba si afferma che una persona somigliante a Feltrinelli sarebbe stata vista «da alcuni vicini entrare nel quartierino di via Subiaco prima di quel fatale 13 marzo» (Preso con le armi in pugno l’uomo che era con Feltrinelli sotto il traliccio, in «Corriere della sera», 16 aprile 1972). Ovviamente l’espressione «fatale 13 marzo» potrebbe, in questo caso, essere frutto di una svista o derivare dal fatto che si sia utilizzata come “base” la notizia riportata nel già citato articolo del 19 marzo.

(35) Testimonianza registrata su nastro attribuita al neogappista “Günter” (poi entrato nelle Br) e raccolta da Piero Morlacchi un giorno tra la fine di marzo e l’aprile del 1972 e sequestrata dalle forze dell’ordine nella base brigatista di Robbiano di Mediglia il 15 ottobre 1974. Trascrizione ora riprodotta anche in Aldo Grandi, Giangiacomo Feltrinelli, cit., pp. 516-522.

(36) Cfr. ivi, p. 522.

(37) Cfr. Carlo Feltrinelli, Senior Service, cit., p. 423.

(38) Riservata del capo della Polizia al Gabinetto del ministero dell’Interno del 14 settembre 1972, in Acs, Mi, Gab. Fc, 1971-1975, b. 24, f. 11001/49/1 «Milano. Ordine pubblico. Incidenti. V° fascicolo», sf. 10 «Feltrinelli Giangiacomo. Attentato traliccio di Segrate».

(39) L’attività terroristica in Italia connessa al caso Feltrinelli, s.e., s.l., giugno 1972, in Fondazione Istituto Gramsci (Fig), Archivi del Partito comunista (Apc), Partito, 1972, Partiti politici, Attività destre-provocazioni-ecc., mf. 053, pp. 733-800 (il brano citato è alle pp. 755 e 756).

(40) Cfr. la fotocopia del manoscritto originale del cosiddetto Memoriale Pisetta in Acs, Mi, Direzione generale della pubblica sicurezza (d’ora in poi Dgps), Divisione affari riservati (d’ora in poi Dar), Affari vari (d’ora in poi Av), b. 10, f. «Memoriale Pisetta», pp. 79-80. Il Memoriale venne successivamente smentito dallo stesso autore (o pseudo tale). Il giudice Ciro De Vincenzo, che nutrì dubbi sull’attendibilità di Pisetta, nel 1975 venne infondatamente accusato di contiguità con le Brigate rosse dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (Cfr. Vincenzo Tessandori, BR. Imputazione: banda armata. Cronaca e documenti delle Brigate Rosse, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004 [I ed. Garzanti, 1977], pp. 342-344 e Marco Clementi, Storia delle Brigate rosse, Odradek, Roma 2007, p. 114).

(41) Secondo un documento di sinistra l’editore è stato assassinato, in «Corriere della sera», 17 marzo 1972.

(42) Cfr. ibidem e il Telegramma con precedenza assoluta della prefettura di Milano del 16 marzo 1972, ore 24:00, in Acs, Mi, Gab. Fc, 1971-1975, b. 24, f. 11001/49/1 «Milano. Ordine pubblico. Incidenti. V° fascicolo», sf. 10 «Feltrinelli Giangiacomo. Attentato traliccio di Segrate», con il quale s’informa il ministero dell’Interno che l’avvocato Marco Janni, del Comitato di difesa e di lotta contro la repressione, aveva tenuto una conferenza stampa alla presenza di 1.000 persone, denunciando la morte di Feltrinelli come un altro «assassinio di stato». Dopo la diffusione del comunicato del Movimento studentesco milanese «sottoscritto», come segnalò il prefetto milanese Libero Mazza, «da personalità di estrema sinistra tra cui la giornalis
ta Camilla Cederna», la procura della Repubblica «di propria iniziativa ha rinviato a giudizio per diffusione di notizie tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico dieci firmatari del comunicato tra cui la giornalista Cederna» (Riservata-raccomandata doppia busta del prefetto di Milano del 25 marzo 1972, ivi).

(43) Cfr. Un rivoluzionario è caduto, in «Potere operaio del lunedì», 26 marzo 1972.

(44) Nanni Balestrini, L’editore, Bompiani, Milano 1989, p. 80.

(45) Come ricordato da Scalzone: «[…] era così, voleva chiamarsi Osvaldo, eravamo lì quando ha scelto questo nome. Gli unici che probabilmente capivano che era come dicevamo noi erano i poliziotti, pensa un po’: quelli vedono uno che aveva scritto una lettera dicendo “parto in clandestinità perché qui c’è il golpe e il fascismo”, tre anni dopo lo trovano vestito da guerrigliero, con una gamba tranciata, cosa devono pensare? Che è andato a prenderlo la CIA, come diceva […] tutta l’intellighenzia di sinistra, salvo noi e basta? E noi, io e Piperno (mettendo un bemolle, perché non ci pronunciavamo su come era andata, se no ci avrebbero impalato) dicevamo che era quello che aveva fatto i GAP, che mi pare anche l’unico rispetto per la sua memoria»; intervista rilasciata per la realizzazione del volume di Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002, la cui versione integrale è visionabile al seguente Url: http://www.autistici.org/operaismo/scalzone/scalzone.doc.

http://www.recensionidistoria.net/recensione36.html


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