Garibaldi sul rogo?...
 
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Garibaldi sul rogo? Attaccano una certa idea di Italia


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Lo ha denunciato Gian Antonio Stella su Corriere della Sera di ieri. L’altra sera, davanti a una discoteca vicentina, un gruppetto ha bruciato una sagoma barbuta in “camicia rossa” che portava appeso al collo il cartello: «L’eroe degli immondi». Il giorno dopo il deputato regionale leghista Roberto Ciambetti ha cercato di sdrammatizzare: «Sono arrivato più tardi e il rogo non l’ho visto. Però non vorrei si strumentalizzasse la cosa. È un gesto scaramantico, che vuole esorcizzare non la figura del generale che fu, per primo, bandito dagli stessi Savoia, quanto chi continua a negare dignità alle storie regionali».

Alla vigilia del 17 marzo questo episodio qualcosa significa in merito alla deriva della nostra memoria politica nazionale. Un tempo si diceva “parlar male di Garibaldi” per voler dire parlar male di cose e persone giudicate intoccabili e indiscutibili. Invece ne parlano male i leghisti e i tanti “estremisti moderati” alla Cetto La Qualunque che sono rappresentati dall’attuale maggioranza di governo. Così come ne parlano male gli “atei devoti” e i teocon all’italiana, ne parlano male coloro che deplorano il carattere rivoluzionario, giovanilista e nazionalpopolare all’origine dello Stato italiano e che risalgono implicitamente fino a lui per trovare le origini di sovversivismo di lungo periodo. D’altronde, Giuseppe Garibaldi, il generale in camicia rossa, non è spesso neanche nei pensieri di tanti riformisti o moderati che hanno snocciolato negli ultimi mesi molti nomi di candidati a entrare nel Pantheon di una nuova Italia condivisa, ma tendenzialmente hanno quasi sempre censurato quell’avventuroso, laico e barricadero Che Guevara di casa nostra. Eppure, da Alexander Dumas a Victor Hugo, sino a Sergio Caputo e Hugo Pratt l’immaginario, anche quello più pop, ha sempre celebrato Garibaldi come l’icona per eccellenza della via italiana alla modernità. Il fatto stesso che due grandi scrittori come Giancarlo De Cataldo e Umberto Eco abbiano ambientato i loro due ultimi romanzi di successo – rispettivamente I traditori (Einaudi) e Il cimitero di Praga (Bompiani) – all’interno dell’epopea ottocentesca dell’unificazione italiana, tra carbonari, studenti sovversivi e barricaderi, garibaldini e mazziniani, è senz’altro la più recente conferma. Al di là delle minoranze rumorose che animano il Pdl e la Lega s’è decisamente modificata quella percezione pubblica che, come ricordava il cantautore Francesco De Gregori, faceva in modo che quando ad esempio nel 1979 usciva la sua Viva l’Italia non piacque a chi «aveva sempre considerato i valori patriottici un retaggio reazionario, patrimonio della destra e dei fascisti tout court». Una percezione, per dirla tutta, che rimandava nel migliore dei modi a un Risorgimento polveroso e museificato, studiato in fretta in vista degli esami di maturità e altrettanto frettolosamente archiviato. A nulla di troppo contemporaneo.

Eppure, come ha recentemente spiegato Aldo Cazzullo nel suo bel saggio intitolato anch’esso Viva l’Italia! (Mondadori) «quasi sempre si dimentica che il Risorgimento coincide per l’Italia con la fine dell’Antico Regime, delle monarchie assolute, delle servitù feudali, del foro ecclesiastico, e l’inizio della lenta espansione delle libertà borghesi, della democrazia rappresentativa, dei diritti civili». Fu la conquista di una minoranza? Ma nella storia sono state quasi sempre le minoranze a imprimere le svolte, a mettere in gioco la vita, a guidare la rivoluzione. Che le provocazioni leghiste rappresentino un vulnus, esprimano l’emersione di un fondale antipolitico e incivile lo attesta quanto ha osservato il socialista Ugo Intini: «Anche durante la guerra civile i fascisti e la resistenza si affrontarono nel modo più atroce, ma né da una parte né dall’altra si mettevano in discussione Garibaldi e Mazzini, le Cinque Giornate di Milano e le battaglie per l’indipendenza, l’Italia e la sua unificazione. I giovani partigiani e i repubblichini si riconoscevano, innalzando entrambi il tricolore, nel momento stesso in cui si scontravno e si sparavano...». Garibaldi è, insomma, uno dei simboli più veri, di un’idea condivisa dell’Italia “nonostante tutto”. Una figura che è stata accostata a Davy Crockett, Washington e Benjamin Franklin... I mazziniani, scrive nel suo romanzo De Cataldo, «credono fermamente che la rivoluzione non significhi soltanto cacciare lo straniero, ma liberare l’individuo, qualunque sia il suo sesso, da ogni forma di oppressione». Nello stesso romanzo è significativo anche il passaggio in cui gli uomini di Carlo Pisacane descrivono il Meridione in cui trovano: «Cibo, alloggio e la complice solidarietà di una terra gentile e d’animo libertario...». Ora, a ben vedere, l’icona stessa di Garibaldi può senz’altro rappresentare la cartina di tornasole per un filone di cultura e sensibilità che è rimasto a lungo inespresso nella sua compiutezza, ma che ha attraversato e incrociato i più diversi campi della nostra storia nazionale. Ricordiamo, del resto, che anche quando Italo Balbo rievocò gli ideali che lo condussero a impegnarsi, ammetterà: «Io non ero, in sostanza, nel 1919-20, che uno dei tanti: uno dei quattro milioni di reduci dalle trincee… Un figlio del secolo che ci aveva fatti tutti democratici anticlericali e republicaneggianti: antiaustriaci e irredentisti esasperati in odio all’Asburgo tiranno, bigotto e forcaiolo; adoratori con le lacrime agli occhi di una Italia carducciana, che amava la Francia victorhughiana…».

E, per restare ai primi decenni del Novecento, sarà Berto Ricci, l’ex anarchico passato con Mussolini morto da volontario nel ’41, a scrivere polemicamente dei «rimasuglioli di un’Italia nata in falde e cilindro alla quale tutti i distintivi del mondo non daraanno mai un’anima nuova», i quali, aggiungeva, «farebbero bene a non commemorare Garibaldi, oggi come cinquanta, come cento anni fa egli appartiene al popolo e ai giovani...».

E di Garibaldi va poi ricordato tutto, non solo le sue epopee tra l’Italia e l’America Latina: che nel 1871 viene promossa proprio da lui la prima società in Italia per la protezione degli animali, che nel 1874 entra in Parlamento come deputato e presenta subito un progetto di legge per bonificare l’Agro pontino, che chiede già nel 1882 il suffragio universale, che a un certo punto lasciò la Camera e si ritirò a fare l’agricoltore e l’apicoltore. L’ha spiegato Giovanni Spadolini: «Non ci può essere Italia unita senza il fondamento di Giuseppe Garibaldi. La leggenda garibaldina è, in realtà, il solo filo nazionale della nostra storia moderna». Oggi, purtroppo, prevale la smemoratezza antipolitica.

Luciano Lanna
Fonte: http://www.secoloditalia.it/
3.03.2011


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mendi
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Va bene, sarà anche vero che Garibaldi è l'eroe dei due mondi, che ha fatto l'Italia, ecc..
Come Veneto mi chiedo però cosa c'entrano i Veneti con l'Italia, Garibaldi, Mazzini, ecc.. Mi si dica una, una sola cosa buona che ci è derivata dall'occupazione italiana e conseguente annessione truffaldina.
Io non brucierei l'effigie di Garibaldi, però lo considero un estraneo, un italiano insomma.


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terzaposizione
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Concordo in pieno,cosa c'entrano i Veneti di origine slava, con l'Italia?
E neanche con la Padania c'entrano, a parte Rovigo.
Solo la Curva TE lo sostiene da anni,inascoltata.


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