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Il problema è sempre quello: se l’Europa vuol essere


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Il problema è sempre quello: se l’Europa vuol essere se stessa oppure il nulla

Il problema è sempre lo stesso che fu posto da Friedrich Nietzsche poco meno di un secolo e mezzo fa: se l’Europa voglia essere se stessa, oppure se scelga di rinunciare alla propria identità, e dunque di essere niente.
Il fatto che i totalitarismi del XX secolo, e specialmente il fascismo e il nazismo, ma – in effetti - anche il comunismo, abbiano voluto porsi, deliberatamente, come la “risposta” alla decadenza dell’Europa, alla perdita di identità dell’Europa (nel caso del comunismo, identificando la decadenza della classe borghese e della sua cultura con la decadenza tout-court), e il fatto che essi abbiano conosciuto l’evoluzione – o l’involuzione – che sappiamo, e si siano conclusi in modo disastroso per se stessi e per il mondo, sembrerebbe aver mostrato che non esistono alternative al nichilismo incombente; che il nichilismo e la negazione di sé è il destino finale dell’Europa, e dunque la sua auto-distruzione radicale; che chiunque osi anche solo immaginare qualcosa di diverso, viene immediatamente tacciato di inconfessabili nostalgie totalitarie e di non avere imparato niente dalla tragica lezione dei lager di Hitler e dei gulag di Stalin.
Si direbbe, pertanto, che l’Europa sia arrivata ad un punto morto: se persiste nella masochistica affermazione del nichilismo, affretta ogni giorno la sua fine; se prova a pensare, per se stessa e per il mondo, un destino diverso, viene accusata di revisionismo, di arroganza, di non saper (o, peggio ancora, di non voler) fare tesoro delle lezioni della storia, di voler cancellare dalla propria memoria il monito dell’Olocausto: e, anche in questo caso, la sua fine è certa.
Esiste una possibilità di uscire da un simile circolo vizioso, che si alimenta da se stesso e che vorrebbe eternamente inchiodarla, oltretutto, al senso di colpa, come se Auschwitz fosse l’esito inevitabile della sua civiltà e come se, oltre ad Auschwitz, essa non fosse mai stata capace di produrre niente di buono, di vero, di bello? Esiste una possibilità di uscire dal cerchio stregato del senso di colpa, senza per questo perdere la memoria storica di ciò che va ricordato, e facendo tesoro di quello che è stato, ma continuando a guardare avanti, cioè al futuro?
È ormai da più di un secolo che il calo demografico dell’Europa, sempre più vistoso, e sempre più in contrasto con la tendenza in atto negli altri continenti, sembra attestare che gli Europei non credono più in se stessi, hanno smesso di amare la propria cultura e di investire risorse di coraggio e di speranza nel destino dei loro figli e dei loro nipoti. È come se i nonni, per usare la celebre immagine virgiliana, ma rovesciandola, avessero rinunciato a piantare alberi destinati a creare ombra e frescura non già per se stessi, che non faranno in tempo a goderne, ma per le generazioni future.
L’Europa, dunque, è finita? Attenzione: non si tratta solo del significato e del futuro peso politico, economico, culturale dell’Europa nel mondo; si tratta, prima di tutto, dell’idea che l’Europa è venuta maturando di se stessa. Perché è chiaro che, dopo il 1918, e soprattutto dopo il 1945, il tempo dell’egemonia mondiale dell’Europa è finito, ed è finito per sempre; nondimeno, che l’Europa sia condannata irreversibilmente alla decadenza, al rattrappimento, alla paralisi, questo dipende dagli Europei; non è un destino, non è scritto nelle stelle (con buona pace di Spengler e di tutti gli altri profeti di sventura). Per chi crede ancora in se stesso, nulla è perduto, anche se versa nelle condizioni peggiori; ma per chi ha smesso di crede in sé e nel domani, per chi dispera, è finita, quand’anche le sue forze fossero ancora intatte. Non si tratta di volontarismo a buon mercato, ma di un dato di fatto, che la storia – degli individui, ma anche dei popoli – ha mostrato infinite volte.
Esemplari, in questo senso, le riflessioni svolte da Stefano Zecchi nel suo «Sillabario del nuovo millennio» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, pp. 53-56):

«Nietzsche alla fine dell’altro secolo si chiedeva se l’Europa voleva se stessa oppure aveva rinunciato alla propria identità. Per la generazione di giovani poeti, pittori e musicisti, come Stefan George, Egon Schiele o Alban Berg, che vivevano in epoca precedente alla prima guerra mondiale, l’intero mondo cristiano-borghese era già spaccato molto tempo prima di Hitler. Ed significativo che a trasformare questa diffusa coscienza della decadenza e del trapasso - il nichilismo – nel tema di fondo della filosofia del nostro secolo sia stato un tedesco, Nietzsche appunto, e che soltanto in Germania questa filosofia abbia raggiunto la sua compiuta radicalità.
Ma Nietzsche, finché è stato in rado, ha sempre combattuto l’idea germanica di Bismarck, e se avesse potuto si sarebbe opposto al paganesimo senza mito del nazismo, e il suo Zarathustra avrebbe deriso chi voleva costruire la forza dell’Occidente sulla purezza di un’unica razza. Quando il partito di Hitler prese il potere, la sua propaganda si preoccupò subito di mostrare l’inversione di un processo: contro la coscienza della disgregazione e del tramonto furono usate parole come “risveglio”, “rottura”, “insurrezione”, per sottolineare che se l’epoca borghese stava per finire, qualcosa di nuovo stava nascendo. Il nazionalsocialismo si presentava come superamento del nichilismo, ereditando e riscattando la tradizione europea moderna che ha nella cultura tedesca un punto di riferimento fondamentale. Ma ciò che è accaduto ha indotto il filosofo tedesco Theodor Adorno a dire che dopo Auschwitz non sarebbe più stato possibile scrivere una poesia, perché qualunque opera avrebbe portato con sé i segni della colpa, della colpa di appartenere alla tradizione culturale che ha condotto all’Olocausto. Ai suoi figli, la miseria e la grandezza della Germania, la sua ambizione e il suo fanatismo, la sua viltà e la sua intelligenza, consegnano così la complessità di un mondo che sembra arrestarsi, che dichiara la resa dopo la tragedia. Le devastazioni della guerra sono allora l’atto finale di una logica e rigorosa conseguenza della storia della cultura tedesca? Il crollo del Reich mostra l’impossibilità del superamento del nichilismo?
Rispondere affermativamente significa ammettere di appartenere ad una tradizione non più recuperabile, di cui ora non rimane più nulla, neppure la disperazione: ciò che può aiutare soltanto un atteggiamento scettico, una posizione intransigente di fronte a quello che accade e che può ancora accadere. Verso questa soluzione si è orientata la grande maggioranza degli intellettuali tedeschi che hanno visto il 1933 come un’improvvisa infrazione della razionalità della storia, come la fine disastrosa di quell’ideologia borghese della sicurezza tanto amata da tutti.
È troppo facile allora scoprire improvvisamente l’orrore e decretare la fine di una tradizione nei campi di battaglia e di concentramento, sostenendo, poi, che la libertà dell’esistenza può essere garantita soltanto da un disilluso abbraccio al nulla. È chiaro che così non solo non si può capire quello che è accaduto politicamente, ma soprattutto non si comprende neppure perché alcuni grandi, come Gottfried Benn, Ernest Jünger, lo stesso Heidegger o – fuori della Germania – Pound, Céline, si fossero illusi, anche solo per poco, che il nazismo potesse ereditare e difendere la tradizione dell’Occidente, rinnovando la visione simbolica del mondo appiattita dal sentimento diffuso della decadenza e del tramonto. Era rischioso, però la scommessa era su qualcosa di essenziale: si doveva guardare alla vita del cosmo come a ciò che dà senso alla vita umana, si doveva dare forma a un sentimento che lucidamente e disperatamente avvertiva che ogni “prima” e “dopo” della Storia scompaiono sulla scala dell’eternità. Alla fine, certo, fu una grande ill
usione, che celava, però, l’esigenza reale di definire un rapporto organico tra l’uomo e la tecnica, in grado di far ritrovare identità e nuova forza creativa nella nostra tradizione.
Nessuna politica democratica, nata dalle macerie della guerra, è riuscita non tanto a risolvere, ma soltanto a pensare questo problema. Ciò che invece è accaduto ha costruito la solida certezza che chiunque avesse cercato di riannodare i fili spezzati tra le mani di Jünger, di Benn, di Spengler, avrebbe portato con sé i segni della colpa di appartenere ad un’idea di cultura e di politica che aveva condotto all’Olocausto. È stata così cullata, più o meno consapevolmente, un’altra illusione, e cioè che l’unica cultura degna di rispetto fosse quella impegnata nella denuncia e nella critica ad oltranza, quella che pretende di negare il significato mitico di ogni cosa del mondo e di annullare il valore simbolico dell’esistenza e del nostro incontro con gli altri.»

Insomma: in un empito di furore auto-punitivo, si è gettato via il bambino insieme all’acqua sporca; per esorcizzare l’immagine di Auschwitz (l’immagine, non il ricordo: perché non bisognava mai più dimenticare Auschwitz, ed era un crimine, per Adorno, scrivere anche una sola poesia dopo Auschwitz), si è calpestato quel poco che restava della tradizione, anche della miglior tradizione europea; si sono eretti il relativismo e il nichilismo al rango di nuovi dogmi intoccabili; si è bollata qualunque affermazione come un atto di arroganza, e si è benedetta qualsiasi negazione; infine, si è tacciato di vergognosi scopi revisionisti chiunque osasse tornare a parlare di metafisica, di cultura dei valori, di etica dei doveri oltre che dei diritti, di merito, di selezione, di ordine, di gerarchia, di pulizia (fisica e morale), di rispetto del passato. Perché il passato era quello che aveva condotto ad Auschwitz; tutto il resto, non era stato che il preambolo. Dietro i versi immortali di Dante, dietro la musica divina di Bach, dietro le cattedrali e le università, dietro la religione cristiana e il diritto romano, si vedeva, in controluce, Auschwitz: la sua preparazione sotterranea, la sua segreta incubazione. L’Europa aveva commesso una colpa collettiva inespiabile; dunque, chiunque avesse ancora parlato, o anche solo pensato, un’Europa proiettata in avanti, fiera di sé, capace di dialogare da pari a pari (perlomeno) con il resto del mondo, sarebbe apparso come un criptonazista o, nel migliore dei casi, come un imbecille, un presuntuoso, un insensibile. Per non offendere la memoria dei morti, bisognava che i vivi smettessero di amare la vita, di amare se stessi, di amare la propria terra, la propria religione, la propria tradizione. Bisognava che si suicidassero intellettualmente, spiritualmente e moralmente. E allora, ecco il ghigno: ecco il teatro dell’assurdo e della crudeltà; il trionfo del brutto e del disgustoso; il corteggiamento del sadico e dell’aberrante; l’esaltazione del deforme e del grottesco; il compiacimento ed il plauso riservati all’illogico, al folle, al ripugnante, alla nausea, al vomito, alla bile, a tutto ciò che è sordido, necrofilo, blasfemo, a tutto ciò che suona come latrato animalesco, come imprecazione e come maledizione.
Amare la vita è stato equiparato ad un colpa; desiderare dei bambini, ad una manifestazione di egoismo e d’incoscienza; voler insegnare qualcosa ai giovani, ad un atto di prepotenza e di arroganza; voler distinguere il bello dal brutto, a un arbitrio e ad una forma di fondamentalismo estetico; voler distinguere il giusto dall’ingiusto, ad una inqualificabile pretesa autoritaria; voler distinguere il bene dal male, poi, poco meno che ad un attentato alla sacra libertà individuale, un rigurgito di Medioevo, un intollerabile ritorno alle Crociate e ai metodi nazisti, ai massacri dei conquistadores, e via di seguito. Proibito educare, proibito ammonire, proibito proibire: del resto, come si permette la famiglia, che – notoriamente – è il luogo più sozzo, immondo e rivoltante che esista al mondo – di voler educare, ammonire e proibire qualcosa ai ragazzi? E come si permette la scuola, l’infame combriccola dei maestri e dei professori, di assegnare compiti, di dare voti e perfino di bocciare i più somari? I somari, del resto, non esistono: esistono solo alunni incompresi, avviliti, sfruttati da un sistema iniquo, dentro e fuori le pareti scolastiche.
Questi sono i termini della questione. Se si crede ancora nel domani, se gli Europei amano ancora la vita e sperano ancora nel futuro, devono superare il proprio senso di colpa. Nessuno dice che debbano dimenticare Auschwitz; del resto, non debbono dimenticare neppure Dresda, Amburgo, Tokyo, Hiroshima e Nagasaki (oppure queste ultime “non valgono”, perché sono fuori dell’Europa? Bisognerebbe chiederlo ad Adorno: si può ancora scrivere una poesia dopo Hiroshima?). E devono sbarazzarsi, a calci nel sedere, di tutta la genia di pseudo-intellettuali, di questi signorini del “no” per partito preso, di questi nichilisti politicamente corretti e di questi radical-chic campioni di relativismo, che ammorbano l’aria e stendono un sudario di morte sull’Europa. Pretendono di essere la sua vigile coscienza, mentre sono solo la sua zavorra, se non il suo tumore.
Se gli Europei torneranno a volersi un po’ di bene, ad amare le proprie radici, a riscoprire la loro ricca e gloriosa tradizione, la loro storia entusiasmante (che contiene, certo, anche pagine brutte: come quella di ogni altro continente), forse siamo ancora in tempo a fermare il declino. Nulla è deciso, nulla è perduto per chi crede in se stesso. Ma prima bisogna perdonarsi, amare ed amarsi…

Francesco Lamendola

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