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Il tabù dello sciacallaggio


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Nelle tante corrispondenze arrivate da Haiti, come dai luoghi delle precedenti tragedie naturali, non manca quasi mai un riferimento agli “sciacalli”, cioè a quelle persone che si aggirerebbero tra le macerie arraffando ciò che trovano. E la reazione, scontata, perentoria, priva di empatia o di disponibilità all’ascolto, è generalmente una sola: sdegno di fronte a chi, impietosamente, sembra sfruttare le catastrofi violando la “proprietà” dei deboli o – peggio – dei morti per un proprio tornaconto.

La questione, però, non è così banale. Me ne sono reso conto, improvvisamente, leggendo un articolo scritto da un intellettuale haitiano, Dany Laferrière: “C’è un termine che non bisognerebbe usare a caso: saccheggi. Quando una persona va a cercare tra le macerie qualcosa da bere e da mangiare prima che le gru radano tutto al suolo, non è saccheggio: è sopravvivenza. Ci saranno sicuramente dei saccheggi in futuro, ma finora ho solo visto persone che fanno il possibile per sopravvivere”.

Non è banale il fatto che, anche di fronte a parecchie decine di migliaia di morti e alla distruzione di un’intera metropoli del Terzo Mondo, l’attenzione dei giornalisti ricada sui gruppi di ragazzi (“gang”) che si aggirano tra le macerie delle case distrutte impossessandosi di cibo, vestiti, utensili, oggi Haiti, ma la paranoia non risparmiò nemmeno il caso dell’Abruzzo. E non è scontato il fatto che, di fronte a una simile catastrofe simile, si accenda nel commentatore proprio l’area del cervello legata allo sdegno di fronte ad una violazione del “diritto di proprietà”, indipendentemente dal fatto che il proprietario sia magari fuggito o morto, che il bene sia deperibile o altrimenti privo di valore, o che chi ne approfitta sia a sua volta soltanto un disperato mosso dall’istinto di autoconservazione.

Non voglio mettere in dubbio che il saccheggio costituisca un reato secondo la legge e anche secondo la morale; voglio però riflettere sul motivo per il quale un fenomeno quantitativamente poco rilevante nonché controverso, soprattutto nell’ambito di un cataclisma da centinaia di migliaia di morti, riesca ad attirare tanto l’attenzione di osservatori e commentatori.

Perchè, quindi, tanta sensibilità nei confronti dello sciacallaggio? Ho provato a mettere insieme alcune possibili spiegazioni.

1) Di fronte alle catastrofi amiamo raccontarci che “le difficoltà tirano fuori il meglio dalle persone”: di fronte al crollo di tutti i punti di riferimento e di tutte le difese oggettive, ci piace pensare che esista un’indole umana “buona” pronta a ricreare improvvisamente quelle reti di solidarietà, rispetto, collaborazione che, in mancanza di qualsiasi altra certezza, sembrano spesso essere l’unica risorsa e l’unica consolazione. In questo contesto, lo sciacallo è quindi colui che sembra violare questo “patto” fondamentale e “naturale” di non-aggressione e di reciprocità tra uomini resi inermi e nudi dalla natura.

2) Il terremoto è un evento naturale che scombussola ogni ordine e che mette a repentaglio le regole, le leggi, le convenzioni. In questo clima di profonda precarietà, in cui i bisogni toccano il loro apice e non esistono autorità in grado di far rispettare le norme, si manifesta (anche e soprattutto) in chi non vive la tragedia sulla propria pelle l’esigenza di vedere l’instaurarsi di un qualche ordine in grado di mettere fine allo stato di caos, di potenziale homo homini lupus, che ci destabilizza tutti. Lo sciacallo, in quanto emblema della mancanza di ordine umano, è quindi per questo notato e fermamente stigmatizzato.

3) Di fronte ai grandi eventi, l’uomo sente l’esigenza di attribuire a qualcuno o a qualcosa la colpa. Nel caso di eventi privi di colpevole come i terremoti, però, questo processo di attribuzione della colpa si inceppa, minando le basi del nostro rapporto con il mondo (mettendo in discussione il principio per cui a ogni male corrisponde un artefice) e producendo un senso di sgomento e di vuoto. In questi casi, emerge quindi come surrogato il capro espiatorio: non potendocela prendere con la calamità naturale, tendiamo quindi a prendercela con il primo che si comporta male sotto i nostri occhi. Nel caso della catastrofe naturale, il primo colpevole a portata di mano è evidentemente lo sciacallo.

4) Nella nostra società, esiste uno spiccato senso del diritto di proprietà. E l’automatico senso di condanna di fronte alle azioni che ci sembrano assimilabili al furto, è così forte da emergere anche in un contesto di morte, distruzione e degrado, quale quello del terremoto. Così come ci indigneremmo di fronte a un atto di cannibalismo, senza pensare che magari l’antropofago è spinto dalla fame o da ragioni rituali, così ci indigniamo di fronte a un atto di appropriazione di un bene altrui

5) Lo sciacallo è un animale oggetto di una simbologia particolare connessa alla morte: già divinità trattata con rispetto nei culti egiziani, è nella cultura contemporanea il simbolo spregevole di chi si ciba di cadaveri. In realtà, lo sciacallo non ha che una colpa: quella di cibarsi di cadaveri, cioè dei corpi di animali o uomini già morti per altre cause (le “carogne”, a sua volta termine fortemente spregiativo), violandone in qualche modo la sacralità. Forse per gli sciacalli umani vale un pò lo stesso meccanismo: essi, in fondo, non fanno che violare quello stato di sospensione spettrale, di orrore paralizzante, di “eterno riposo”, che caratterizza le città post-catastrofe naturale.

E poco importa che lo facciano, magari senza far del male a nessuno, unicamente per la propria immediata sopravvivenza.

Andrea Franzoni
Fonte: www.filopop.com
Link: http://www.filopop.com/il-tabu-dello-sciacallaggio.html
27.01.2010


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