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In Kosovo e in Afghanistan per raccontare la guerra infinita


Tao
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«Il reportage è la Ferrari del sistema televisivo, riscuote sempre successo ma è difficile a farsi. E' una questione di industria e di finanziamenti certo, ma in termini di autorevolezza paga sempre. Insomma, un buon motivo per pagare l'abbonamento alla televisione pubblica». La considerazione non proviene dai vertici Rai a mo' di spot per il rilancio di un'azienda sempre più dequalificata, ma da Riccardo Iacona, uno che il giornalismo d'inchiesta, diciamocelo, ce l'ha nel sangue. Più che scomodo, un professionista dell'informazione che non si è mai accontentato della solita minestra passata dai tg nazionali, una capacità di andare dentro e oltre la notizia più unica che rara, così come ha dimostrato con l'appassionato ciclo di W l'Italia nel 2004 e con le tre puntate di Pane e politica dello scorso anno, tanto per citare i lavori più recenti.

Stasera torna alle 21,05 su Raitre per la prima puntata del suo ultimo viaggio, La guerra infinita , che si concluderà venerdì prossimo sempre sul terzo canale. Un anno di lavoro tra Kosovo, Macedonia, Serbia, Turchia e Afghanistan, un totale di tre ore di montato seguendo le rotte dei traffici di armi e di droga del nuovo e vecchio fondamentalismo. Senza dimenticare le responsabilità dell'occidente e delle cosiddette missioni umanitarie della Nato per l'esportazione delle democrazia in zone tutt'altro che pacificate. La puntata di questa sera, "Kosovo nove anni dopo", ricostruisce la terribile vicenda della pulizia etnica ai danni dei serbi kosovari; quella di venerdì prossimo, "Afghanistan", l'escalation di violenza ad opera dai talebani seguita alla operazione enduring freedom inaugurata dalla Nato nel 2001. Esempi di cattiva politica internazionale, in cui Riccardo Iacona si è addentrato riportando a casa, ancora una volta, un prodotto di buon giornalismo.

Riccardo Iacona, cosa racconta la sua "guerra infinita"?

E' un viaggio che lega Pristina a Kabul, il Kosovo all'Afghanistan, due realtà lontane e diverse, meta delle nostre missioni umanitarie. Siamo tornati in Kosovo nove anni dopo l'intervento Nato e il nostro è una sorta di bilancio rispetto alle condizioni di partenza. Ed è drammatico. Si tratta di una realtà completamente dimenticata dall'informazione, a parte una parentesi nel 2004 e poi ancora in occasione dell'indipendenza. Il Kosovo ora è etnicamente pulito, con 250mila kosovari di origine serba cacciati dalle loro case sotto gli occhi della Nato. Il paese si è dichiarato indipendente ma la legalità non esiste, perché non è chiaro come i politici siano arrivati al potere mentre la mafia kosovara albanese si comporta come la 'ndrangheta, controllando cioè il traffico di droga in molti paesi tra cui l'Italia. In più, sulle strade che la Nato ha lasciato aperte, passano oggi armi e terroristi. Pazienza per i diritti umanitari violati, verrebbe da dire, se questo fosse almeno servito a costruire un'area di sicurezza, ma purtroppo non è così. Lo stesso vale per Kabul, dove la missione di pace si sta trasformando in un incubo.

Come ha costruito il suo reportage?

Non è un lavoro ideologico, non siamo partiti dal concetto che le guerre siano sbagliate. Semmai il nostro è un punto di vista laico sulle missioni Nato. Siamo andati a verificare cosa sta succedendo in quelle zone, riuscendo anche a rompere il muro della censura informativa. In Afghanistan l'agibilità dei giornalisti è limitata, abbiamo viaggiato al fianco della polizia afgana raggiungendo luoghi a rischio, come la zona di Sorobi dove un mese fa sono stati uccisi i parà francesi. La novità giornalistica è che il sud dell'Afghanistan è assolutamente fuori controllo e che Kabul è una città tecnicamente assediata, visto che i talebani controllano la gran parte dei villaggi circostanti.

Che legame ha riscontrato nell'azione dei guerriglieri dell'Uck e dei talebani?

Per entrambi il principale strumento di finanziamento proviene dal traffico di droga, stimato dall'Onu intorno ai 100miliardi di dollari, e parliamo di soldi cash. Da quando siamo lì la produzione di oppio è aumentata di quattro volte. Tecnicamente è una guerra persa in partenza.

In Kosovo ha intervistato anche alcuni terroristi islamici. Come ci è riuscito?

E' stato abbastanza semplice, sebbene non me l'aspettassi. Avevo contattato un deputato kosovaro di etnia albanese, promotore di un referendum per l'indipendenza di una parte della Macedonia da annettere al Kosovo. Mi ha dato appuntamento in una zona di confine e si è presentato con i guerriglieri, una dimostrazione di forza come si vede nella seconda puntata.

Armi e droga, traffici duri a morire. Che ruolo svolge la politica?

La politica non esiste, la democrazia non si esporta e dopo trent'anni di guerra parlare di Stato in Afghanistan è ridicolo. C'è la polizia e l'esercito, ma a comandare sono i clan tribali. A farne le spese sono soprattutto i poliziotti afgani, vera e propria carne da macello.

Cosa l'ha colpita in questo viaggio?

In Kosovo la sistematicità della pulizia etnica. Basti pensare che a Prizen, la seconda città del paese, vivevano 4mila serbi in un quartiere che è stato poi completamente bruciato dagli albanesi. Spesso siamo indotti a credere che da noi certe cose non succederanno mai, eppure accadono vicino se non addirittura sotto i nostri occhi. In Afghanistan invece ti rendi conto che se cominci a scavare dietro le notizie dei tg scopri che a mancare completamente è il contesto. Come nel distretto di Pagman, dove ha perso la vita il maresciallo Daniele Paladini. Ecco, se tu ci arrivi con la tua testa, le tue gambe e la tua libertà ti rendi conto in che pantano ci troviamo. Ed è importante che l'opinione pubblica ne sia informata.

Fonte: www.liberazione.it
19/09/2008


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