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Kissinger - A Kabul i timidi perdono


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Nelle prime settimane del proprio mandato, la nuova amministrazione americana ha preso due importanti decisioni riguardo l’Afghanistan. Le forze combattenti americane sono aumentate del 50% ed è stato nominato un eminente ambasciatore come rappresentante del presidente, al quale è stata affidata la regione Afpak (il che comporta che Afghanistan e Pakistan vengono considerati come un’unica unità geopolitica).

Queste decisioni rispecchiano la dichiarazione del presidente Obama nel suo discorso sullo stato dell’Unione, cioè che «egli non consentirà ai terroristi di complottare contro il popolo americano da sicuri rifugi sparsi nel mondo». Il risultato, tuttavia, dipenderà dalla strategia con la quale affronteremo le inevitabili complessità.

La sfida principale islamica si è spostata verso l’area tribale pashtun nella regione montagnosa al confine fra Pakistan e Afghanistan, dove i terroristi rifugiati sul lato del confine del Pakistan si preparano e si addestrano all’assalto in Afghanistan. Nessuna guerriglia è mai stata vinta nei confronti dei santuari immuni agli attacchi.

L’amministrazione si trova pertanto ad affrontare questa situazione come un singolo problema. Tuttavia, il fatto è che i santuari esistono non tanto per proposito del governo pachistano quanto per la sua incapacità politica e militare di controllare il territorio lungo il confine afghano, che non è mai stato sotto l’amministrazione civile, persino durante il dominio britannico.

La posta in gioco va oltre il futuro dell’Afpak. La vittoria talebana in Afghanistan darebbe un enorme incoraggiamento al jihadismo a livello globale. Il Pakistan sarebbe minacciato dalla presa di controllo jihadista. L’India, con la popolazione musulmana al terzo posto per ordine di grandezza su scala mondiale, potrebbe trovarsi a fronteggiare un incremento del terrorismo, di cui sono esempio gli attacchi al Parlamento indiano nel dicembre 2001 e a Mumbai lo scorso novembre. Russia, Cina e persino l’Indonesia sono state bersaglio dell’islam jihadista. Il governo islamico sciita dell’Iran è un acerrimo nemico dei talebani sunniti che considerano gli iraniani degli eretici.

L’amministrazione Obama si trova di fronte a dilemmi familiari a molti dei suoi predecessori. Gli americani non possono ritirarsi ora, ma neppure possono sostenere la strategia che ci ha portati a questo punto. Finora l’America ha perseguito tattiche tradizionali anti-guerriglia: per creare un governo centrale le risulta utile estendere la propria autorità sull’intero Paese, dando origine al processo di formazione di una moderna società democratica.

Questa strategia non può riuscire in Afghanistan, soprattutto non come uno sforzo essenzialmente solitario. Il Paese è troppo vasto per questo, il territorio troppo impervio, la composizione etnica troppo varia, la popolazione troppo armata. Nessun conquistatore straniero è mai riuscito a occupare l’Afghanistan. La Gran Bretagna ha fallito due volte nel XIX secolo, perdendo in una sola volta letteralmente tutto il suo corpo di spedizione. L’Unione Sovietica ha inviato 100 mila soldati negli Anni 80 e ha abbandonato il territorio frustrata e vinta dopo nove anni inutili, anche se la sua ritirata è stata certamente accelerata dal sostanziale supporto americano e in parte cinese.

Anche i tentativi di stabilire un controllo afghano centralizzato hanno raramente avuto successo e non per lungo tempo. Gli afghani sembrano definire il loro Paese in termini di un comune impegno all’indipendenza, ma non di autogoverno unitario o centralizzato. Una volta liberi dalle forze straniere, i vari gruppi etnici e regionali riprenderebbero le proprie autonomie, sottomettendosi solo con riluttanza a un’autorità centrale e unicamente in modo limitato. Quando, nel 2002, l’allora nuovo presidente afghano Hamid Karzai ha convocato una loya jirga, una specie di assemblea costituzionale, i capitribù regionali hanno manifestato resistenza al governo centrale che la loya jirga aveva contribuito a creare. Molte difficoltà di Karzai sono strutturali. Mi inquieta la dissociazione ostentata da un leader nel mezzo di una guerra civile e di uno che ha ricevuto il nostro aiuto per assumere la carica. Senza una sostituzione ovvia, le nostre precedenti imprese di questo tipo si sono solitamente rivelate controproducenti.

La verità lapalissiana che la guerra, in effetti, è una battaglia per i cuori e le menti della popolazione afghana è concettualmente abbastanza valida. Il basso standard di vita di gran parte della popolazione è stato esacerbato da trent’anni di guerra civile. L’economia è sulla soglia di trovare un sostegno nella vendita di narcotici. Non esiste una tradizione democratica significativa. La riforma è una necessità morale, ma la scala cronologica della riforma è sfalsata dagli imperativi dell’anti-guerriglia urbana. Ci vorranno decenni e dovrebbe essere conseguente e perfino parallela al conseguimento della sicurezza, ma non può esserne il presupposto. L’impegno militare si svilupperà inevitabilmente a un ritmo diverso dall’evoluzione politica del Paese, ma quello che possiamo fare immediatamente è di garantire che i nostri sforzi di aiuto, ora diffusi e inefficienti, siano coerenti e pertinenti alle esigenze della popolazione. Inoltre, andrebbe attribuita maggior importanza alle entità locali e regionali.

La strategia militare dovrebbe incentrarsi sulla prevenzione dell’emergenza di uno Stato contiguo, all’interno di uno Stato di jihadisti. In pratica, questo significa il controllo di Kabul e della regione dei pashtun. Un’area base jihadista su entrambi i lati del confine Afghanistan-Pakistan potrebbe diventare una minaccia permanente per le speranze di un’evoluzione moderata e per tutti gli Stati confinanti con l’Afghanistan. Il generale David Petraeus ha sostenuto che, con il rinforzo delle truppe americane da lui raccomandato, sarebbe in grado di controllare il 10% del territorio afghano dove, secondo lui, ha origine l’80% delle minacce militari. Questa è una regione dove è particolarmente applicabile la chiara strategia di «resistere e costruire» che ha avuto successo in Iraq.

Nel resto del Paese, la nostra strategia militare dovrebbe essere più fluida, tesa a prevenire l’emergenza di qualsiasi punto forte terrorista. Dovrebbe basarsi su una stretta cooperazione con i capi locali e sul coordinamento con le loro milizie, addestrate dalle truppe statunitensi, cioè il tipo di strategia che ha riscosso grande successo nella provincia di Anbar, la roccaforte sunnita in Iraq.

Questa è una strategia plausibile, sebbene sembra improbabile che 17 mila rinforzi siano sufficienti. In definitiva, la questione fondamentale non è tanto come sarà condotta la guerra, ma come si concluderà. L’Afghanistan è quasi l’archetipo del problema internazionale che richiede una soluzione multilaterale per la creazione di una struttura politica. Nel XIX secolo, la neutralità formale è stata talvolta negoziata per imporre una battuta d’arresto degli interventi nei e dai Paesi in posizione strategica. Questo non è sempre stato valido, ma ha fornito una struttura per disinnescare relazioni internazionali quotidiane. (La neutralità belga, per esempio, non è stata toccata per quasi 100 anni). È possibile inventare una soluzione equivalente moderna?

In Afghanistan, un risultato analogo è acquisibile solo se i principali vicini dell’Afghanistan concorderanno una politica di freno e opposizione al terrorismo. La loro recente condotta sembrerebbe contro queste prospettive. Tuttavia, la storia dovrebbe insegnare loro che gli sforzi unilaterali tesi al predominio hanno la probabilità di fallire di fronte all’intervento compensativo di altri attori esterni. Per sondare questo tipo di visione, gli Stati Uniti dovrebbero proporre un gruppo di lavoro composto dai Paesi confinanti con l’Afghanistan, l’India e i membri permanent
i del Consiglio di Sicurezza. Questo gruppo dovrebbe avere il ruolo di assistere la ricostruzione e la riforma dell’Afghanistan e di stabilire principi per lo stato internazionale del Paese e gli obblighi per contrastare le attività terroristiche. Nel tempo gli sforzi unilaterali dell’America potranno convergere con quelli diplomatici di questo gruppo. Quando la strategia prevista dal generale Petraeus avrà successo, le prospettive di una soluzione politica che segua queste linee cresceranno in modo corrispondente. Il presupposto di questa politica è la cooperazione con Russia e Pakistan. Per quanto riguarda la Russia, è necessaria una chiara definizione delle priorità, soprattutto una scelta tra partnership o comportamento ostile, per quanto ci riguarda.

La condotta del Pakistan sarà fondamentale. I leader pachistani devono affrontare il fatto che la continua tolleranza dei santuari, o la costante impotenza nei loro confronti, finiranno per attirare il loro Paese ancora più profondamente in un vortice internazionale. Se i jihadisti riuscissero a prevalere, il Pakistan rappresenterebbe sicuramente il loro prossimo obiettivo, come già si può vedere lungo i confini esistenti e persino nella valle dello Swat vicino a Islamabad. Se ciò dovesse accadere, i Paesi interessati dovrebbero iniziare a consultarsi fra loro riguardo le implicazioni che comporterebbe l'arsenale nucleare di un Pakistan a livello di essere sommersi o persino minacciati dai jihadisti. Come ogni Paese impegnato in Afghanistan, il Pakistan deve prendere decisioni che influiranno sulla sua posizione internazionale per decenni.

Altri Paesi si trovano ad affrontare scelte analoghe, specie i nostri alleati Nato. Simbolicamente la partecipazione dei partner Nato è significativa. Ma salvo alcune notevoli eccezioni, il supporto della popolazione per operazioni militari è trascurabile in quasi tutti i Paesi Nato. Ovviamente è possibile che la popolarità di Obama in Europa possa modificare questi atteggiamento, ma con tutta probabilità solo in misura molto limitata. Il Presidente dovrà allora decidere fino a che punto potrà farsi carico delle inevitabili differenze e affrontare la realtà che i disaccordi riguardano questioni fondamentali del futuro e del raggio d'azione della Nato. Una migliore consultazione faciliterà il processo. È probabile tuttavia che le differenze da risolvere non siano di tipo procedurale. Potremmo quindi concludere che un maggior contributo Nato alla ricostruzione dell’Afghanistan è più utile di un marginale sforzo militare ottenuto con intimidazioni. Ma se la Nato si rivela in questo modo un’alleanza «à la carte», si costruisce un precedente che può inserirsi in entrambi i modi. Coloro che auspicano una ritirata americana con la loro indifferenza o titubanza eludono la prospettiva che questo sarà il preludio a una lunga serie di crisi frequenti e gravi.

Il nuovo gruppo per l’Afghanistan affronta scelte temibili. Qualsiasi strategia scelgano deve essere perseguita con determinazione. Non è possibile evitare l’insuccesso con un atteggiamento esitante.

Henri Kissinger
Fonte: www.lastampa.it
Link: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=5652&ID_sezione=&sezione=
27.02.2009

(c) 2009 TRIBUNE MEDIA SERVICES, INC. traduzione a cura del Gruppo LOGOS


Citazione
Anonymous
Illustrious Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 30947
 

la bestialità americana non smette di stupire.
questo ottuagenario criminale, la cui stoltezza non trova paragoni se non nella sua disumana ferocia, non riesce a capire che se l'invasione dell'Afganistan, iniziata nel 2001, e dopo 8 anni è alla bloccata alla periferia di Kabul vuol dire che è FALLITA, come in IRAQ, come in VIETNAM a suo tempo.

Obama, prima riesce a capire che andarsene dall'Afganistan e dall'Iraq è la condizione per arrestare la crisi economica del suo paese e prima riuscirà a dimostrare di non essere simile al suo predecessore.


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