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L’impudente schiavismo della multinazionale FIAT


Tao
 Tao
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Il dramma di Pomigliano: o il lavoro come pena o la via crucis della disoccupazione


L’impudente schiavismo della multinazionale FIAT

Per gli amanti della liturgia della retorica patria, la Fiat sarebbe una perla del patrimonio nazionale, solo perché nata in Italia. Io non sono nazionalista ma rispetto coloro che professano un sano nazionalismo, che non è quello in questione.  La Fiat è soltanto l’espressione lobbistica del padronato naturalmente amorale, il quale non ha patria, che non sia quella del profitto, dell’usura e della predazione antropozoica.  La storia della Fiat non è delle migliori: è quella di un’impresa affaristica nel senso più pedestre, gretto ed avido del termine, che ha saputo cogliere, nelle varie situazioni storiche, le posizioni più confacenti con la propria grossolana avarizia. Un collocamento nella Fiat è stato sempre ritenuto un buon partito ma solo in assenza di un’alternativa. Lo spirito caporalesco è di casa.

E non poteva essere diversamente, essendo la Fiat una creatura onnivora del capitalismo, che è vera e propria criminalità essenziale (checché ne pensino le barbe accademiche), nel cui linguaggio la insistente economia altro non è che predonomia dal significato trasparente.

Semmai ci fossero dei dubbi, l’attuale vicenda tra Polonia ed Italia non ne lascia in piedi uno solo. La Fiat pone al centro della sua attenzione – come sempre, del resto -  solo il proprio interesse, il proprio predamonio, come è naturale per qualunque attività affaristica con mire mondialiste. E tale è quell’imprenditoria e quell’industria, che i nostri ineffabili saggi Tremonti chiamano la “nostra economia” (non mia certamente) e da cui fanno dipendere il benessere – o la sopravvivenza animale, come nel caso di Pomigliano – della nostra collettività umana.

Assumere come fine unico del proprio produrre e vendere merci una sempre maggiore ricchezza del gruppo padronale e dei segugi maggiori (principato e corte), è proprio del costume e della sociodinamica del Medioevo. E’ vero che si è parlato di un nuovo costume e di una diversa sociodinamica al cui centro si è posto l’uomo con tutta la sua dignità. A tale nuovo costume e a tale diversa sociodinamica si è dato il nome di “Stato di diritto” e a tal fine si sono create delle condizioni giuridiche, la principale-basilare delle quali è la Costituzione repubblicana mentre prodotti legislativi specifici sono il Contratto Nazionale Collettivo del Lavoro ed una serie di leggi di valore attuativo.  Ad onor del vero anche alla legislazione del Ventennio si devono delle innovazioni, specie in tema di previdenza e di assistenza, che sono arrivate fino a noi anche se -  per rispetto di un clima di contrapposizione ideologica, che si sarebbe dovuto esaurire con la fine della guerra – si preferisce non parlarne.

Si deve comunque alla Prima Repubblica il primo vero tentativo di realizzare un vero Stato di diritto, che è tale solo se la centralità dell’uomo significa centralità del lavoro come diritto e come condizione creativa della nostra specie. Perché il lavoro sia tale ci vogliono tutele legislative dei ritmi naturali della produzione e del riposo, della salute, dell’unità psicofisica della persona e, non ultima, quella della possibilità di contestare condizioni unilaterali fino al rifiuto ed allo sciopero pur nei limiti della funzionalità specifica del lavoratore (in un contesto industriale), che è insieme un prestatore d’opera ma anche e sempre un cittadino sovrano. La Fiat che, fedele alla propria tradizione, è già saltata sul cavallo vincente della restaurazione del primo capitalismo, vuole ridurlo a “merce usa e getta”!

Si deve alla Prima Repubblica una procedura di assunzione e di tenuta in carico dei lavoratori sotto la diretta protezione del pubblico potere, una possibilità di piena tutela sanitaria, in fabbrica e fuori, ed una pensione retributiva, cioè computata sul numero degli anni lavorati. La crescita naturale sarebbe dovuta essere, pertanto, quella di una vera economia, quasi di un ordine socialista. Ma è avvenuto esattamente il contrario, una decrescita, un ritorno verso il Medioevo, verso la civiltà del principe e dei cortigiani. Fino alla miserabile pensione contributiva, cioè computata sui contributi versati e quindi bisognosa di essere integrata dallo stesso pensionando. Il potere dei padroni è prevalso sul potere del diritto.

Tale decrescita si chiama liberismo, il cui attributo pancomprensivo è la globalità. Liberismo vuol dire centralità dell’imprenditore-affarista e strumentalità del prestatore d’opera; e globale vuol dire che il padrone può impiantare la sua impresa predatoria dove può realizzare maggiori profitti. “Maggiori profitti” sono l’altra faccia dei “costi minori”, i quali sono bassi quanto esasperata è la fame di coloro che chiedono lavoro con l’urgenza di chi, naufrago, chiede un’azione di salvataggio.

Ebbene, alla luce dell’animalismo liberista, è perfettamente normale che una Fiat – ente amorale per definizione – nata casualmente in Italia, abbia trovato convenienti i costi bassi accettati per fame dai polacchi – liberati dal socialismo, e ridati in pasto al capitalismo, anche dagli americani – per la produzione della Panda. Com’è normale che alle stesse condizioni la multinazionale torinese, può sfruttare-schiavizzare indifferentemente gli affamati di casa nostra o quelli degli Usa o del Canada, verso cui ha già esteso il suo sguardo rapace.

Non è invece compatibile con lo Stato di diritto il ricatto della fame e l’uso schiavistico dei lavoratori che, nel caso specifico, dovrebbero potere tenere un ritmo produttivo, quasi macchinale, fino ad otto ore consecutive – come gli uomini- robots di “Tempi Moderni” di Chaplin  -; essere disposti allo straordinario comandato; subire un’incentivazione all’agonismo conflittuale ed autolesivo a colpi di premi di produzione (per i più forti, i più cattivi o forse i più disperati); accettare modalità di turni, pause e lavoro notturno dettate dalla ragione suprema del profitto dell’impresa; sottomettersi al divieto di protesta e di sciopero pena il licenziamento; subire un controllo rigoroso sulle assenze per malattia con il pretesto dell’”assenteismo anomalo” come detenuti in regime speciale.

Non c’è dubbio che, con tali condizioni da immigrati clandestini assunti in nero, il posto di lavoro oscilla tra la caserma, il carcere e il campo di concentramento dove i lavoratori non sono degli schiavi veri e propri solo perché non hanno le catene e possono dormire a casa e qui anche morire, sollevando i padroni da ogni fastidio ma anzi fornendo loro la possibilità di farsi belli con altri poveri cristi, morti di fame.

Questa è la grande Fiat, rappresentata dal duo Elkann-Marchionne (il padrone e il servo, più falso e spietato del padrone,  plenipotenziario e superpagato) che, con la Marcegaglia, prima donna della Confindustria, formano una vera e propria “trinità” della vergogna liberista italiana. Tale trinità vuole d’un sol colpo cancellare tutte le leggi che riguardano il diritto e la tutela del lavoro e fare sottoscrivere un contratto pluridecennale sotto l’imperativo della fame. Non può esserci contrattazione paritaria fra chi ha tutto e chi non ha niente. Anche l’eventuale referendum è privo di senso perché dietro ad ogni sì ci può essere sempre la dama nera della fame. In quest’operazione di vero e proprio assassinio del nascente Stato di diritto sono complici sindacati indegni del nome, di cui si fregiano, una compagine governativa totalmente asservita al padronato nella totale ignoranza del diritto e del senso di marcia della civiltà ed un’opposizione così tiepida da sembrare inesistente. La Fiom non ha forze sufficienti per fare il miracolo! Il destino di Pomegliano sembra già segnato: alle lagrime della fame succede
ranno le lagrime dello stress e a cedere non saranno donne e bambini ma uomini vigorosi!

Stando così le cose non c’è altro da aggiungere se non che la regressione alla giungla (di stampo antropozoico, s’intende) sta per passare il confine del non ritorno, laddove solo due iniziative possono evitare il peggio: una protesta generalizzata o l’azione di un gruppo capace di impadronirsi delle leve del potere e di fare giustizia. Io mi auguro che prevalga la prima.

Carmelo R. Viola
Fonte: www.cpeurasia.eu
Link: http://www.cpeurasia.eu/1012/il-dramma-di-pomigliano-o-il-lavoro-come-pena-o-la-via-crucis-della-disoccupazione
24.06.2010


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