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L'università dei somari


mastermind
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Agli esami per magistrati abbiamo scoperto schiere di laureati che riempiono i loro temi di «ogniuno», «comuncue», «l’addove», «un’altro», «qual’è» e «risquotere». Un altro laureato tristemente celebre, Raffaele Sollecito, processato a Perugia per la morte di Meredith, nel suo memoriale scrive: «Il bagno è sporco ho chiesto che venghino a pulirlo». Ricevo il curriculum di una laureata in Scienza della Comunicazione alla Sapienza che si candida a lavorare come giornalista che comincia così: «Denoto un grande interesse per il mondo del giornalismo...». Denoto? Io denoto, tu denoti, egli denota interesse? E vuol fare la giornalista? Sempre meglio della sua collega, pure lei laureata, che ha scritto: «L’attore all’ungandosi verso la finestra...».
E dunque: laureati? O l’aureati? In questi giorni gli studenti di alcuni atenei hanno provato a inscenare proteste. Fallite. In corteo quattro gatti e un megafono, tutti gli altri in classe a studiare. Ma studiare cosa? Quanto? Come? E con che profitto? Cercheranno, nelle prossime settimane, di far montare la protesta anche qui, in facoltà. La sinistra ha voglia di Sessantotto, e il Sessantotto non partì proprio dagli atenei? Il paradosso è che quarant’anni fa la rivolta, che si rivelò sciagurata, cominciava da un principio sano: quello di cambiare un sistema universitario che non funzionava. Ora, invece, chi scende in piazza, quel sistema che non funziona, lo vuole conservare. Ma sì, vuole conservare quest’Università, cioè l’Università dei concorsi bloccati, della parentopoli, degli scandali dei baroni. L’Università delle lauree vendute e dei testi falsificati. L’Università truccata, come rivela in un bel libro della Einaudi, il professor Roberto Perotti, docente della Bocconi: l’Università che nelle classifiche internazionali finisce dietro quella delle Hawaii, che spende più di tutto il resto del mondo (16mila dollari per ogni studente contro i 7mila degli Usa) ma non dà risultati scientifici né una formazione adeguata. L’Università che, grazie alle sue inefficienze, premia le élite e, contrariamente a quello che si crede, punisce i ceti meno abbienti: solo l’8 per cento degli universitari italiani proviene dalle fasce più basse contro il 13 per cento degli Stati Uniti. Ma non erano i costosi Atenei americani il simbolo dell’anti-democrazia educativa?
Oggi vi raccontiamo l’ultima scoperta: all’Università di Como ci sono 24 docenti per 17 studenti. Un bel record, non vi pare? Ma da qualche giorno il Giornale (e solo il Giornale, come spesso accade) sta denunciando questa strana situazione dei nostri atenei che alzano la voce per lamentarsi dei tagli, dimenticando i loro sprechi. In sei anni le Università hanno moltiplicato i corsi di laurea: da 2444 a 5400. E non tutti utilissimi, si direbbe a prima vista. In effetti oggi si può diventare dottori, tanto per dire, in scienza dell’aiuola, in mediazione dei conflitti, in tecnologia del fitness, in scienza del fiore e in benessere animale. Manca solo il corso di laurea in raffreddore dei suini e quello in filosofia delle oche e poi il quadro sarebbe completo.
Ma poi che sbocchi danno queste facoltà? E chi le frequenta? Tenetevi forte: trentasette corsi di laurea in Italia (dicasi: 37) hanno un solo studente, a questi vanno poi aggiunti altri 66 corsi che hanno meno di sei studenti. Ma vi pare possibile? Tenere in piedi un corso di laurea e relative spese per un unico studente? O per due o tre? E poi le Università si lamentano dei tagli... A Siena hanno collezionato un buco di 145 milioni, non pagano le tasse dal 2004. Poi vai a vedere i bilanci e scopri che, per esempio, l’oculato ateneo spendeva 150mila euro l’anno per affittare alcune stanze di lusso con affaccio su piazza del Campo: inutile tutto l’anno, certo, ma nei giorni del Palio, sai che goduria...
L’Università di Siena utilizza il 104 per cento del suo bilancio per pagare stipendi. 104, avete capito bene: e per tutto il resto? Niente. Nell’ateneo toscano i tecnici sono più numerosi dei professori. E non è un caso unico: a Palermo, per esempio, ci sono 2.103 professori e 2.530 amministrativi, a Messina 1.403 professori e 1.742 amministrativi. La Federico II di Napoli, che nelle classifiche si piazza fra le dieci peggiori università d’Italia, spende il 101 per cento dei suoi soldi per il personale. L’impressione è che anche le facoltà, come la scuola, negli ultimi anni siano stati concepiti più come ammortizzatori sociali che come luoghi di formazione: non si sa se chi esce troverà un posto di lavoro. L’importante è che trovi un posto di lavoro chi resta dentro.
Dunque è vero che ci vorrebbe una protesta. Ci vorrebbe un Sessantotto. Ma per rivoluzionare l’Università, non per tenerla così com’è. E invece oggi assistiamo a questo strano paradosso: si scende in piazza solo per difendere il sistema, anche quando il sistema non funziona. I riformisti nel palazzo e i conservatori nel corteo. Strano, no? Ma nelle università ci sono i nostri migliori cervelli: gente di talento, e anche di buona volontà. Non possono non capire che dietro i luoghi comuni e la lagna per i tagli si nasconde la solita difesa di privilegi, baronie, sprechi e inefficienze, quelli che hanno creato quest’Università di laureati (o l’aureati?) pieni di lacune. O forse lagune. Quelli che ti dicono: vedrete, faremo il Sessantotto e la protesta si estenderà a macchia d’occhio. Sì, a macchia d’occhio. E la gente arriverà in piazza a frottole.

Mario Giordano
Fonte: www.ilgiornale.it
Link: http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=299110&START=1&2col=
19.10.2008L’Università di Siena utilizza il


Citazione
mastermind
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Sorpresa: i docenti italiani più ricchi dei colleghi USA

Gli studenti intruppati okkupano per difendere l'università «dalle logiche di mercato», spalleggiati da professori e perfino da rettori. Vedi a Roma Luigi Frati, noto soprattutto per il numero di parenti assunti nella sua facoltà, che ha arringato così i ragazzi: «La proposta del governo è una cretinata». Certo, questi accademici fremono di sdegno sotto gli ermellini, snocciolano la stessa litania: povera università italiana, si lamentano, muore di fame, ma con tanto impegno riesce comunque a farsi valere in campo internazionale per le sue ricerche. E in più, dicono, ammiccando al comprensibile desiderio di egalitarismo dei giovani, è aperta a tutti, senza distinzione di ceto sociale. I dati per comprovare queste affermazioni del resto li forniscono loro, sono soprattutto elaborazioni della Crui, la conferenza dei rettori. E i ragazzi abboccano all’amo. Ma siamo proprio sicuri che una vitaminica iniezione delle vituperate «logiche di mercato», quelle «all'americana», come si dice con disprezzo, andrebbe a svantaggio degli studenti, e tanto più dei poveri e volenterosi?

Colpito e affondato

C’è un professore che a questa domanda dà una risposta diversa dai colleghi del baronato accademico, una risposta che fa a pezzi tre falsi miti sull’università italiana. E lo fa adducendo un semplice ragionamento logico e una puntuale, e inedita, analisi dei dati. Partiamo dal ragionamento del professor Roberto Perotti (esposto in un libro uscito di recente, L'università truccata, ed. Einaudi): «Se fosse vero che l'università italiana con pochi fondi fa una ricerca eroicamente all’avanguardia ed essendo gratuita promuove pure la mobilità sociale, tutto il mondo cercherebbe di imitarne il modello». Colpito e affondato, poiché è evidente che non è così. È l’analisi di Perotti, che non è proprio l’ultimo arrivato: insegna alla Bocconi, dopo 10 anni di docenza alla Columbia University.

Il mito della povertà

Non passa inaugurazione di anno accademico senza che i docenti battano cassa. Poi, andando a guardare a come vengono gestiti i soldi, emergono scandali clamorosi (vedi il caso di Siena, raccontato nei giorni scorsi). Ma non solo: secondo Perotti, è falso l'assunto di partenza, cioè che le risorse a disposizione siano scarse. Secondo la Crui infatti, mediamente gli atenei italiani dispongono di 7.723 dollari per studente, cifra che porrebbe l’Italia agli ultimi posti nel mondo. Le nostre università insomma, avrebbero dotazioni paragonabili a quelle di Messico o Ungheria, invece che a quelle degli altri Paesi del G7. Ma c’è il trucco. Perché se l'università è (quasi) gratis, si iscriveranno molte persone poco motivate, che poi non frequenteranno nemmeno le lezioni, men che meno daranno esami. Dunque, uno studente che in facoltà non mette piedi, non impegna risorse. I fondi delle altre università infatti sono calcolati sulla base dei soli Etp, gli «studenti equivalenti a tempo pieno». Insomma i soli studenti attivi. Il dato italiano, al netto da questo trucchetto da maghi da strapazzo, sale a 16.027 dollari, una delle cifre più alte al mondo, seconda solo a Stati Uniti, Svizzera e Svezia.

Il mito dei poveri ma bravi

«I ricercatori italiani sono di meno della media europea, pagati peggio e con dotazioni inferiori ma hanno una produzione scientifica in linea e spesso superiore». Parola di Fabio Mussi, in un suo intervento quand’era ministro dell’Università. Un entusiasmo con i baffi, signor ex ministro. Come quello che lo indusse ad affermare, in una puntata di Anno Zero, che tra le prime 500 università del mondo ce ne sono 100 italiane. Peccato che in Italia neanche ci siano 100 atenei. La classifica in realtà vedeva solo 20 università italiane in graduatoria. La migliore è la Statale di Milano, piazzata 136ª, dietro anche all’Università delle Hawaii. E le citazioni dei lavori scientifici italiani in campo internazionale, sono scarse.
Ma i ricercatori italiani sono davvero così poveri? Gli stipendi dei giovani sono davvero bassi, ma per effetto della progressione per anzianità, l'unica riconosciuta dall'università italiana, la media arriva a 48.300 dollari l’anno, contro la media di 46.000 dollari dell'Inghilterra. Avete presente no? Il Paese di Cambridge e Oxford.
E il paragone con l'America è ancora più eclatante. «Un ordinario italiano con 25 anni di servizio - spiega Perotti - può raggiungere uno stipendio superiore a quello del 95% dei professori americani, indipendentemente dalle pubblicazioni scientifiche». La differenza è nella distribuzione degli stipendi: negli States il rapporto tra gli stipendi degli ordinari e quelli degli assistenti è di 1,5 a 1. In Italia è di 4,5 a 1. Cioè strapaghiamo l’anzianità di servizio, anche a chi, una volta assunto, non abbia pubblicato nemmeno uno straccio di ricerca.

Il mito dell’egualitarismo

Iscriversi all'università costa poco, dunque è la meno classista, favorisce i talenti senza guardare al portafoglio. Questo è il mito più resistente. E quello che cede con più fragore. Per di più, la verità emerge confrontando la situazione italiana con quella del Paese con l'università considerata più d'élite. «In Italia - dice Perotti - il 24% degli studenti italiani proviene dal 20% più ricco delle famiglie. Dal 20% più povero proviene solo l’8% degli studenti (dati Bankitalia). Negli Stati Uniti, dal ceto sociale meno abbiente proviene il 13% degli universitari. «L'università italiana dunque - conclude amaramente Perotti- è un Robin Hood a rovescio: le tasse di tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi gratuiti dei più ricchi».

Giuseppe Marino
Fonte: www.ilgiornale.it
Link: http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=299129
19.10.2008


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Popinga
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Ma per poter dire cazzate sul quotidiano del padrone bisogna per forza avere il cognome che sembra un nome? Perché non chiamano anche Battista (Pierluigi) e Romano (Sergio)? Una pagina intera di carta (moltiplicata per il numero di copie stampate), sottratta al ciclo naturale del carbonio per convincere i lettori che “Si vuole conservare quest’Università, cioè l’Università dei concorsi bloccati, della parentopoli, degli scandali dei baroni”. Peccato che i baroni stanno tutti dalla parte del padrone del femmineo commentatore. Ed è davvero curioso argomentare che i tagli al precariato possano restituire moralità al sistema: è come dire che siccome molta gente passa con il rosso bisogna chiudere le autoscuole. Se molti universitari e laureati poco sanno di ortografia e sintassi non sarà invece perché si è distrutta la scuola secondaria con due riforme scellerate (non risparmio neanche Berlinguer)? E la moltiplicazione dei corsi di laurea non era stata spacciata per “miglioramento dell’offerta” dovuta alla “sana concorrenza” tra gli Atenei? Aveva ragione il buon Pedullà, che nel 2001 aveva suggerito un metodo geniale per aumentare il numero di laureati: recapitare il diploma di Laurea direttamente a tutti gli iscritti del primo anno, con notevole risparmio di tempo e di danaro.


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Truman
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In generale non bisognerebbe citare gli articoli del giornale. Essi dicono solo ciò che vuole il padrone. Però a volte bisogna far notare alcune incongruenze.
Dice Giuseppe Marino:
«L'università italiana dunque - conclude amaramente Perotti- è un Robin Hood a rovescio: le tasse di tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi gratuiti dei più ricchi».

In realtà l'articolo è sconclusionato fin dalle premesse e porta a conclusioni insensate. L'università italiana oggi costa cara. Le tasse d'iscrizione superano anche i 2000 euro all'anno in una normale facoltà. Per questo ci vanno i ricchi. Quindi i ricchi non studiano gratis a spese dei poveri.

Incidentalmente, l'impostazione attuale degli studi universitari cozza frontalmente con quel dimenticato documento di nome Costituzione della Repubblica Italiana. Un documento che alcuni scribacchini evitano accuratamente di citare.


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Truman
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Vale la pena di citare un'altra perla fatta con la merda:
si scende in piazza solo per difendere il sistema, anche quando il sistema non funziona. dice Mario Giordano, lamentando la sollevazione delle università.

In realtà la protesta scolastica è partita dalle scuole elementari, che funzionavano bene, e per questo andavano demolite da parte di un governo fascista. Poi la protesta è arrivata a tutti i livelli, vista l'infamia con cui è concepita la controriforma Gelmini.


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