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Perchè il riconoscimento della Palestina non piace ad Israel


ilnatta
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Dopo la firma degli accordi di Oslo tra palestinesi ed israeliani la soluzione del conflitto sembrava a portata di mano. Poi una mano assassina s'incaricò d'uccidere il principale sponsor israeliano dei quell'accordo, Ytzhak Rabin, e i governi israeliani dell'epoca dettero vita a una rapida escalation di provocazioni volte ad allontanare il risultato. Il termine dell'amministrazione Clinton e l'avvento di quella Bush segnarono la fine di qualsiasi speranza per il processo di pace. Da allora solo ipocrisie.

Dall'undici settembre del 2001 i governi israeliani hanno avuto sostanziale via libera dagli Stati Uniti nei confronti dei palestinesi, la War On Terror è stata una manna per tutti i governi autoritari del mondo, Israele non ha fatto eccezione.

Da allora il processo di pace è stato affondato con pretese assurde, l'occupazione della West Bank è stata accelerata e con essa la sua colonizzazione, la costruzione di muri e di blocchi a recludere nativi in spazi sempre più stretti. In questi anni Israele ha fatto quel che ha voluto con i vicini e dei vicini. Una politica che ha relegato quel che resta dell'OLP, l'Autorità Palestinese e Fatah al ruolo d'impotenti complici dell'occupante e favorito l'affermazione di Hamas.

Gli attacchi a Gaza e al Libano sono gli esempi più eclatanti, ma Israele si è presa la licenza di ricorrere all'assassinio violando la sovranità di numerosi altri paesi, di bombardare la Siria e il Sudan, di minacciare l'Iran, di creare un sistema di Bantustan, di sigillare Gaza e metterne a dieta gli abitanti, di tenere di fatto prigioniera l'intera popolazione palestinese, che in nome della "sicurezza" d'Israele può andare all'estero solo con il permesso israeliano e spesso è poi impedita illegamente a rientrare. Anche negli ultimi mesi Israele ha autorizzato nuove colonie e annunciato nuove deportazioni di palestinesi per liberare dalla loro presenza zone destinate alla colonizzazione.

Violazioni clamorose delle leggi internazionali, dei diritti umani e civili degli occupati, violenze insensate, detenzioni arbitrarie e senza processo, esecuzioni nella pubblica via senza badare troppo a chi c'è vicino all'obiettivo di turno. Poi una valanga di sofismi e cavilli a difendere l'indifendibile, la sovversione semantica da parte della propaganda, che ha trasformato i Territori Occupati in "contesi", i resistenti occupati in "terroristi", mentre si distribuiva con generosità la patente d'antisemita a chiunque osasse obiettare.

Mappa che riproduce la compressione dei territori controllati dai palestinesi dal '46 al 2000, passando per i confini previsti dal piano di partizione dell'ONU del '47 e quelli del '67. Oggi l'area in verde è ancora più piccola. Un'indiscutibile dimostrazione dell'espansionismo israeliano e di un atteggiamento che è tutto fuorché "difensivo".]

Un'impunità che non ha tardato ha sviluppare nei governi israeliani una particolare e sgradevole arroganza, giunta a tal punto che il gabinetto di Lieberman (un brigante moldavo arrivato con i detriti del muro) ha recentemente proposto di armare i "terroristi" curdi, per fare un dispetto alla Turchia, arrabbiata per la strage della Mavi Marmara e per l'atteggiamento d'Israele.

La quasi totalità delle affermazioni di Lieberman in bocca ai nemici d'Israele avrebbero sollevato uno scandalo mondiale, ma di solito faticano ad essere riprese dai nostri organi d'informazione e da quelli occidentali in generale.

Sulla strage Israele ha fatto un'inchiesta interna e ha concluso di aver fatto tutto in regola.

Del rapporto della commissione Palmer, dell'ONU, ha preso solo un'affermazione che parlava della legittimità del blocco navale israeliano. A una settimana dalla pubblicazione del rapporto tutta la comunicazione israeliana e dei filoisraeliani si fonda su quell'affermazione.

Affermazione pur preceduta da precisi caveat che ovviamente Israele ha interpretato come non apposti. Parole vergate per riavvicinare Turchia ed Israele da una commissione appositamente costituita per stendere una versione attorno alla quale i due paesi si potessero ritrovare, non da una corte o da un istituzione incaricata di vegliare sulla legalità, ma da una commissione per l'accertamento dei fatti.

Parole che sono state usate per sputare in faccia alla Turchia e, sostanzialmente, per raccontare agli israeliani che il governo era in regola. Lo stesso rapporto Palmer recita fin dalla prima pagina:

"La commissione d'accertamento dei fatti ha concluso che è stata commessa una serie di violazioni delle leggi internazionali umanitarie e dei diritti umani, commessa da parte delle forze israeliane durante l'arresto della Flotilla e durante la detenzione dei passeggeri in Israele prima della loro deportazione."

Conclusioni che renderebbero comunque superflua qualunque valutazione del blocco israeliano e che indicano Israele come responsabile di una strage. Conclusioni che è come non fossero mai state pronunciate a sentire Israele e i suoi apologeti.

Un tale abuso del senso del rapporto, che a pochi giorni di distanza una Commissione ONU di legali esperti, appositamente convocata, ha dovuto ribadire pubblicamente l'illegalità del blocco di Gaza secondo le leggi internazionali. In questo caso non si tratta di un'affermazione incidentale di una commissione costituita con il gradimento delle parti in causa per l'accertamento di alcuni fatti, ma di un organo ufficiale dell'ONU composto dai direttori di diversi dipartimenti dell'UNHCR per esprimere una valutazione della situazione dal punto di vista del rispetto del diritto e di quello umanitario in particolare. L'infrazione dei diritti umani rende ovviamente illegale qualunque espediente altrimenti legale impiegato per portare a termine la violazione.

Perché la questione non attiene solo al blocco navale (che la commissione Palmer ritiene applicabile anche se la sua disciplina rientra in quella dei rapporti tra stati, e in questo senso lo considera "legale"), ma dell'impedire l'accesso al mare dei palestinesi e il transito di qualsiasi merce o persona, per mare come via terra. Poi perché il "blocco navale" è una misura permessa nei confronti tra stati, non certo ammissibile come contromisura verso i "terroristi" che vivono in un certo territorio.
Ancora meno ammissibile è che la "lista di contrabbando", prevista per i blocchi, sia allargata a comprendere qualunque merce e il transito dei passeggeri. Spetta inoltre al Consiglio di Sicurezza stabilire la legalità dei blocchi navali e fino ad ora quello israeliano non ha ricevuto alcun parere favorevole da questo indirizzo, dall'ONU solo solo pareri negativi.

Sono le modalità del blocco ad essere illegali, perché impediscono persino l'allontanamento dei palestinesi dal paese e non si limitano certo alle ispezioni per verificare che non ci siano armi in transito verso Gaza. I palestinesi non posso avere porti o aeroporti, non possono usare le barche da pesca e per anni non hanno potuto importare una lunga lista di beni, compresi quelli alimentari, che con le esigenze di "sicurezza" israeliane non ha nulla a che vedere. Il fatto che il blocco nel suo complesso sia stato completato con la complicità della dittatura egiziana non diminuisce le responsabilità israeliane e non lo rende più lecito.

Per questo l'insieme delle limitazioni israeliane alle libertà dei palestinesi è considerato una "punizione collettiva" e niente che abbia a che fare con effettive esigenze di sicurezza o con quanto previsto dalle leggi internazionali che regolano l'occupazione militare. Per questo anche il blocco navale fatto così è platealmente illegale e per questo tutti quanti negli ultimi giorni si sono aggrappati al rapporto Palmer per sostenere la legalità del blocco, mentono sapendo di mentire o non hanno capito bene i termini
della questione.

Anche al netto del paradosso di un paese che s'aggrappa alla legalità internazionale solo nelle frasi che possono tornare utili e poi ignora completamente il resto come se non fosse mai esistito.

Non c'è niente di segreto in un comportamento del genere, nessun complotto, è tutto alla luce del sole. Si bombarda Gaza perchè la risposta militare "piace" a un'opinione pubblica israeliana ormai piegata da decenni di costruzione scientifica della paura, ma anche perché Israele non ha mai avuto una classe dirigente d'estrazione civile. Una classe di militari al comando difficilmente riesce ad evadere da soluzioni imperniate sull'esercizio della supremazia militare.

Allora si assedia e affama Gaza perché i suoi abitanti hanno votato Hamas, la definizione giusta è quindi quella di "assedio di Gaza". Un atteggiamento criminale e cieco, anche perché a parti invertite legittimerebbe i vicini d'Israele a blindare il paese al primo pretesto e a rinchiuderla, novello ghetto, dietro mura altissime.

In Israele al governo ci vanno da sempre i generali e i generali hanno trovato nell'avanzare dell'estrema destra e nella War On Terror due leve potentissime con le quali allontanare la pace con uno stato palestinese, la definizione di confini certi e il definitivo approdo d'Israele a una vita diversa da quella del fortino assediato nel quale vigono regole e spirito da caserma.

Israele non ha mai voluto dichiarare i suoi confini, così come non si è mai data una costituzione, due cose che di solito premono molto agli stati che vogliono affermare la loro esistenza, ma anche un impedimento a future acquisizioni territoriali e all'azione dei militari, che di solito dalle costituzioni sono sottoposti a particolare disciplina e limitazioni.

Se da domani Israele non avesse più nulla da temere, "convertire" Israele da paese attrezzato per la guerra permamente in un paese normale, significherebbe imponenti cambiamenti nell'economia e nell'assetto politico e sociale d'Israele. Cambiamenti che in Israele sono visti come il fumo negli occhi da molti.

L'immigrazione dallo spazio post-sovietico e il dilagare dei partiti religiosi hanno infatti offerto la materia prima per la creazione di un blocco di potere perfettamente in sintonia con l'amministrazione Bush, che negli anni si è speso per plasmare l'opinione pubblica a sua immagine e somiglianza. Un afflusso di votanti poco avezzi alla democrazia e abbastanza determinati da poter essere usati come colonizzatori dei territori palestinesi, armati fino ai denti e protetti dall'esercito israeliano.

Il maccartismo e l'estremismo religioso si sono impadroniti della società israeliana, si fanno leggi contro le ONG accusate di fare il gioco del nemico e leggi per privare della cittadinanza i "traditori" (anche se a volte con effetti paradossali), il dilagare del liberismo economico ha trasformato quella che un tempo sembrava avviata a diventare una moderna socialdemocrazia in un paese dominato dal furore bellico della destra e dal fanatismo religioso dei suoi alleati. A forza di convergere "al centro" anche la sinistra israeliana, come quella italiana, si è disintegrata e anche governi più "liberali" non hanno esistato a scatenare guerre ed aggressioni per avvantaggiarsi elettoralmente o per approfittare degli ultimi giorni dell'amministrazione Bush.

Presenti queste condizioni, la politica israeliana verso la questione palestinese è mutata in senso deleterio. Il governo ha cominciato ad usare le definizioni bibliche di Giudea e Samaria per la West Bank (mai impiegate prima degli anni '90) e ha fatto quel che ha voluto dei palestinesi. I palestinesi sono diventati una minaccia e il dialogo con loro un'ipotesi da pazzi, condivisa solo dai "traditori" d'Israele.

Tanto che quando le elezioni palestinesi (free & fair secondo gli osservatori) hanno consegnato ad Hamas la maggioranza palestinese, Israele non ha esitato a servirsi dell'odiata Fatah e persino del famigerato Dahlan per cercare di cacciare i "terroristi" dal governo. Prima non si poteva far la pace perché c'erano i "terroristi" dell'OLP, poi per colpa dei "terroristi" di Hamas che avevano battuto quelli dell'OLP. Qualunque governo si diano i palestinesi per Israele non è mai quello buono.

La cronaca di questi giorni ci racconta che dopo altri dieci anni di prese per i fondelli, di violenze, di risoluzioni dell'ONU ignorate, diversi massacri e vastissime rappresaglie ed angherie, i palestinesi hanno deciso di procedere verso il pieno riconoscimento dello stato palestinese. Dieci anni persi nei quali i palestinesi sono solo stati presi in giro, trattati da delinquenti mentre Israele faceva quel che voleva ai loro danni, si capisce la necessità urgente di fare qualcosa di diverso, si capisce che i palestinesi non credono più a un'iniziativa di pace in coma da dieci anni e nemmeno alla disponibilità dei governi d'Israele di arrivare a una soluzione nel quadro del diritto internazionale e delle risoluzioni ONU.

La questione può apparire complessa, ma lo è meno di quanto si creda. Intanto la Palestina esiste già come entità statale, è riconosciuta come tale da un centinaio di paesi e persino da Israele, la sua dichiarazione d'indipendenza risale al 1988.

La nascita di uno stato non è un evento codificato con precisione, ma dipende dall'emergere di una condizione di fatto che determina la costituzione di una serie di diritti e di doveri. Uno stato è tale quando è riconosciuto dagli altri stati e tra i pochi punti fermi e sicuri c'è che il riconoscimento non sia reversibile e che possa avvenire sia in maniera esplicita che implicita.

Questo vale per i palestinesi come per gli israeliani ed è per questo che da Israele da qualche tempo si pone la condizione del riconoscimento d'Israele come "stato ebraico" da parte dei palestinesi.

Altro non è che un espediente retorico e dilatorio, utile perché i palestinesi hanno già riconosciuto Israele e anche i paesi arabi che non lo hanno ancora fatto hanno promesso di farlo una volta che lo stato palestinese vedrà a luce e sarà riconosciuto ufficialmente da Israele. Non si capisce la nuova pretesa, su cosa sia fondata e nemmeno a che esigenza israeliana corrisponda. Se non che ripeterla ossessivamente lascia l'idea dei palestinesi cattivi che non vogliono riconoscere Israele e che anzi "vogliono distruggerla" come "vuole Hamas".

Hamas che però non può disconoscere Israele nemmeno qualora vada al potere con una maggioranza plebisicitaria e che ha già trattato "da stato" con Israele una volta al potere.

Israele è già stato riconosciuto come stato (e con esso il suo diritto all'esistenza) da più di una legittima rappresentanza palestinese, dagli accordi di Oslo in poi. L'interazione del governo israeliano con l'Autorità Palestinese prima e poi con i governi palestinesi eletti (legittimamente) ha realizzato un riconoscimento reciproco de facto. Riconoscimento che sta negli accordi di Oslo, ma che ha radici anche nelle risoluzioni ONU sulle quali si fonda la stessa legittimità d'Israele e sulle numerose risoluzioni che richiamano alla fondazione e convivenza dei due stati. Riconoscimento non revocabile.

La prossima mossa palestinese, consistente nel chiedere l'ammissione all'ONU con lo status di osservatore in Assemblea Generale, è prodromica a un ampliamento del numero di riconoscimenti da parte dei singoli stati e all'ingresso della Palestina in diverse organizzazioni internazionali, come alla sua firma di Convenzioni e Trattati internazionali.

Il voto in Assemblea Generale è limitato all'ammissione della Palestina come stato osservatore all'ONU, non quindi "a pieno titolo". Non vale nemmeno come un riconoscimento esplicito della stato palestinese ai fini della sua esistenza f
ormale. Per essere ammessi "a pieno titolo" occorre l'approvazione del Consiglio di Sicurezza, dove gli Stati Uniti hanno il potere di veto e hanno annunciato che lo useranno per impedire che avvenga una cosa del genere.

A questo punto è bene ricordare che essere o non essere membro dell'ONU non ha alcuna rilevanza ai fini dell'esistenza di uno stato e della sua condizione di stato e che l'adesione a pieno titolo all'ONU non è un requisito indispensabile per la formazione, il riconoscimento e l'esistenza di uno stato. Così come uno stato che si staccasse dall'ONU non smetterebbe per questo di essere uno stato, allo stesso modo uno stato può formarsi ed esistere senza che la sua esistenza sia vincolata a una pronuncia del Consiglio di Sicurezza o alla sua appartenenza all'ONU.

L'ammissione tra i membri a pieno titolo dimostrerebbe sicuramente l'esistenza di uno stato palestinese, ma anche il riconoscimento della Palestina da parte di quasi tutti i paesi del mondo avrebbe lo stesso effetto, rendendo a quel punto inutile il veto americano inteso ad impedire il riconoscimento di una realtà di fatto, accettata dalla quasi totalità comunità internazionale.

Il riconoscimento pubblico in Assemblea Generale è importante per i palestinesi, perché a fronte di un voto di oltre i due terzi dei paesi del mondo, molti altri paesi avranno un titolo in più o qualche problema politico in meno, nel riconoscere la Palestina. Non per niente quasi tutti quelli che voteranno a favore hanno promesso che seguirà il riconoscimento.

I paesi che hanno già riconosciuto la Palestina secondo l'Autorità Palestinese.

Persino l'Italia negli ultimi mesi ha promesso ufficialmente un innalzamento di status della rappresentanza palestinese in Italia al rango d'ambasciata, che non vuol dire altro che riconoscere l'esistenza di uno stato palestinese, perché solo gli stati hanno le ambasciate. E questo nonostante l'Italia sia pronta a votare contro la richiesta palestinese in Assemblea Generale, la tipica doppiezza del duo Berlusconi-Frattini, della quale comunque Israele ringrazia.

Ma perchè Israele e gli Stati Uniti non vogliono il riconoscimento dello stato di Palestina, nonostante l'amministrazione USA abbia sempre detto di volere due stati e nonostante Israele abbia sempre detto di essere pronto ad abbandonare la tutela dei palestinesi e vivere in pace accanto a uno stato palestinese? Perché i paesi dell'UE, che a più riprese ha accusato Israele di sabotare il processo di pace e ha espresso condanne per le aggressioni al Libano e Gaza, dovrebbero accodarsi?

Perché, se si deve arrivare a "due stati per due popoli", il riconoscimento del secondo stato è etichettato come un problema o addirittura una minaccia alla pace o alla sicurezza dell'area? Perché se lo stato palestinese è già previsto e accettato da Israele con gli accordi di Oslo e da molte risoluzioni dell'ONU, il suo riconoscimento è presentato come uno scandalo una minaccia? Perché Israele strilla all'attacco nei suoi confronti? Cosa teme Israele dal riconoscimento di uno stato palestinese? Perché l'esercizio di un diritto da parte dei palestinesi viene tradotto in un atto di guerra?

Il motivo è abbastanza semplice e ormai noto, si ritrova ad esempio trova nelle parole di Eviatar Manor, che al ministero degli esteri presiede ai rapporti con le organizzazioni internazionali, in un telegramma ad ambasciatori e rappresentanti israeliani, ai quali consiglia di:

"... avvertire gli interlocutori che dare ai palestinesi lo status di paese osservatore, permetterà loro anche di associarsi ad organizzazioni internazionali e firmare convenzioni internazionali, che potrebbero usare per censurare Israele in diversi consessi, come al Tribunale Penale Internazionale de L'AJA ( The Hague, Den Haag). Potrebbero anche usare il nuovo status per imporre misure di sovranità nella West Bank.

Non c'è un solo motivo per il quale i fautori della soluzione dei due stati possano vedere una minaccia nella proclamazione dello stato palestinese, almeno in teoria. Ce ne sono invece parecchi se l'emersione di uno stato palestinese determina (come determinerà) un drastico cambiamento dello scenario legale, che fino ad ora ha consentito nella sua (relativa) incertezza di proseguire con la colonizzazione della West Bank e di Gerusalemme Est e di avere mano libera sui palestinesi, per lo più appellandosi ai sofismi e alla protezione americana per affossare il processo di pace e scatenare utili rappresaglie.

Secondo le motivazioni contrarie "ufficiali", la mossa palestinese "mette a rischio la pace" e "sarà seguita da esplosioni di violenza" in tutto il mondo arabo. Poi ci sono anche i ridicoli parlamentari italiani che dicono di essere "Contro l'unilateralismo palestinese all'ONU", una supercazzola degna di stare tra i grandi classici. Nella realtà Israele teme ben altro, a dispetto dei tanti "non farà una gran differenza" spesi in abbondanza per far desistere i palestinesi e gli stati che non osteggiano la loro iniziativa

Paesi che sono già molti di più dei due terzi necessari per l'approvazione, visto che Israele fino ad oggi si è assicurata il voto contrario di soli sei (6) paesi e che anche in Israele danno la partita in Assemblea Generale per persa. Tanto che stanno litigando su chi mandare a presenziare alla sconfitta. Le uniche manifestazioni di violenza peraltro sono state quelle dei coloni israeliani, che hanno cominciato bruciando una moschea e annunciato il delirio in caso di successo da parte dell'iniziativa palestinese.

Di fatto non sono state poste obiezioni sensate all'ammissione della Palestina come membro con lo status d'osservatore, solo scenari da paura, vittimismo alternato a minacce, ma niente nel merito. I palestinesi dovrebbero semplicemente attendere il termine del processo di pace, quando Israele vorrà e solo allora ambire a diventare uno stato come gli altri.

Eppure tutti dovrebbero essere contenti di quella che in fin dei conti è un'assunzione di responsabilità da parte dei palestinesi, il loro riconoscere la legalità internazionale e sottomettersi alle leggi che valgono per gli altri paesi, trattando da stato a stato con Israele. Ancora di più se l'iniziativa non viene da Hamas e se Hamas vi si è accodata con poca convinzione in nome dell'unità palestinese appena restaurata. Un successo dell'iniziativa andrebbe a sfavore di Hamas, che nei confornti della legalità e delle istituzioni internazionali è sempre stata molto scettica.

Il problema è che non si può dire che la mossa incide sull'impunità israeliana, anche se ormai l'hanno capito tutti e anche se le opinioni pubbliche dei maggiori paesi europei che non vogliono mostrarsi in contrapposizione ad Israele, non ci trovano nulla di male. Così come non ci trova nulla di male il Segretario dell'ONU Ban Ki Moon, che ha espresso parere favorevole.

Al netto di qualsiasi arroganza, Israele non può rivendicare quell'impunità che fino ad ora gli ha permesso di farsi beffe della legalità internazionale e anche gli Stati Uniti non possono che utilizzare argomenti diversi. Anche se la realtà sottostante non cambia.

Per via dello "status incerto" della Palestina, è stata negata ai palestinesi persino la firma della Convenzione di Ginevra. Che sembra assurdo, ma che in mancanza di reciprocità permette agli israeliani di ignorare le leggi di guerra sui prigionieri, visto che non c'è uno stato e non c'è l'esercito di uno stato. L'assenza di regole conviene ai più forti. Condizione che fino ad oggi ha anche permesso di chiamare sistematicamente ogni palestinese terrorista e di definire ogni atto di resistenza violenta all'occupazione come terrorismo.

Meglio piangere un soldato Shalit prigioniero che soffre, del dover rispondere delle migliaia di civili palestinesi , torturati, uccisi o incarcerati
a tempo indeterminato senza un processo, senza godere dei diritti dei prigionieri di guerra e nemmeno di quello concessi ai delinquenti comuni.

Per via dello "status incerto" dei palestinesi, Israele è potuto sfuggire anche alla giurisdizione del Tribunale Penale Internazionale, che non ha avuto difficoltà ad accettare il "parere legale" offerto da USA ed Israele che concludeva a favore di un difetto di giurisdizione della corte sul non-stato palestinese:

"Mandelblit ha sottolineato la preoccupazione per lo sforzo dell'Autorità palestinese di colpire Israele attraverso il Tribunale Penale Internazionale (ICC) e ha espresso la speranza che gli Stati Uniti interverranno sia presso i palestinesi che presso l'ICC, e sosterranno pubblicamente l'opinione israeliana sulla mancanza di giurisdizione dell'ICC. Ha avvertito che un attacco dell'Autorità Palestinese ad Israele attraverso l'ICC sarebbe considerato un atto di guerra dal governo israeliano."

"Mandelblit ha detto che sono stati consegnati ad Ocampo (procuratore capo dell'ICC) diversi pareri legali che sostengono che l'ICC non ha giurisdizione legale sulla Palestina a causa della mancanza di statualità dell'Autorità Palestinese"

"Mandelblit ha detto che il governo israeliano è preoccupato perchè la questione dell'ICC non è ancora stata tolta dal tavolo e che sembra essere una decisione politica per Ocampo, con un aumento della pressione proveniente dalla Lega Araba perché l'ICC affronti anche i paesi occidentali invece di occuparsi "solo di Africa"."

Questa sopra è la traduzione di uno dei cable diffusi da Wikileaks e viene dall'ambasciata di Tel Aviv, che incidentalmente è a Tel Aviv perché nemmeno gli americani hanno riconosciuto Gerusalemme come capitale d'Israele.

E qui c'è la curiosa pretesa del governo israeliano di considerare un "atto di guerra" un ricorso alle corti internazionali da parte dei palestinesi. In sostanza dice che sparerà ai palestinesi se andranno dal giudice a chiedere protezione e giustizia per i crimini israeliani. Se si ribellano sono terroristi, se vanno dal giudice sono morti, vien da chiedersi che cosa possano fare i palestinesi senza offendere mortalmente Israele.

Le affermazioni dimostrano anche, singolare coincidenza con la nota di Manor, che il problema è tutto nel fatto che uno stato palestinese godrebbe di diritti e tutele ora negati ai palestinesi e che la sua esistenza provocherebbe l'automatica messa in mora dei pilastri sui quali si è fondata la politica israeliana verso i palestinesi negli ultimi 10 anni.

Politica israeliana che si può riassumere nell'uso della violenza e dell'intimidazione per ottenere sul terreno quello che il diritto proibisce, nella speranza di consolidare almeno parte di queste conquiste in futuro. Una politica protetta dall'esistenza di un evidente doppio standard nel giudicare le azioni degli uni e degli altri.

Fine del limbo legale, fine di parte del doppio standard, fine dell'irresponsabilità garantita dalla protezione in Consiglio di Sicurezza. Perché le responsabilità israeliane nell'occupazione della Palestina diventerebbero materia per molti altri organismi e convenzioni internazionali. Fori nei quali il diritto di veto non c'è.

Fino ad oggi Israele ha potuto agire impunemente, fidando sulla protezione americana e sul (relativo) vuoto giuridico nel quale sono stati mantenuti i palestinesi. Domani quelle stesse pratiche sarebbero tutti crimini da discutere in sedi internazionali. Già oggi diversi ufficiali e politici israeliani non possono permettersi di visitare certi paesi (anche europei) per timore di essere arrestati per i crimini commessi ai danni dei palestinesi, domani questo timore potrebbe diventare un incubo per molti israeliani.

Il problema d'Israele è tutto nella politica criminale abbracciata negli ultimi anni, ben descritta durante una cena a Stoccolma dall'ambasciatore israeliano in Svezia e riferita anche questa in un cable:

"L'attuale strategia è di usare una forza sproporzionata in risposta agli attacchi di Hezbollah e Hamas".

Che è appunto un crimine, tanto più che spesso non c'è nemmeno bisogno di attacchi perché il governo israeliano decida che è il momento di sparare un po', spesso bastano esigenze politiche interne, nei sondaggi l'approvazione vola dopo ogni attacco ai palestinesi, fondato o meno che sia. Un modello di comportamento che inoltre non vale solo per Hamas ed Hezbollah, paradigmatico il caso della Mavi Marmara, nel quale si scelse di fare una strage e di trattare i passeggeri della Flotilla peggio dei criminali (furono persino rapinati) o i tanti casi nei quali chi ha portato solidarietà ai palestinesi è stato trattato con modi indegni o soggetto a violenza, quando non alla morte.

E in questo caso si trattava di passeggeri civili e disarmati di navi che non portavano nulla di pericoloso per la sicurezza d'israele. Con i palestinesi si può fare anche di più, perché sono nel limbo e perché comunque sono "terroristi" a prescindere.

Non è quindi perché gli States pensano davvero che il riconoscimento sia "controproducente" per i palestinesi, che vi si oppongono. Non vogliono impedire loro di farsi del male. Sono solo gli Stati Uniti che cercando d'intimidire i palestinesi non avendo più molto altro da spendere in difesa dell'eccezione israeliana.

L'isteria che scuote Israele non è quella di chi vede minacciata la propria esistenza, ma quella di chi vede messi a rischio una serie di privilegi sui quali si è fondata la politica israeliana negli ultimi anni. È la paura di finire sul banco degli imputati che impedisce ad Israele di unirsi agli altri paesi nel riconoscere esplicitamente la Palestina e votare per la sua ammissione all'ONU. La paura di chi trova limiti improvvisi alla propria onnipotenza nei confronti dei palestinesi e non sa bene cosa fare, perché non ha mai avuto un piano B e perché l'impunità di anni ha nutrito un'incredibile arroganza e la presunzione che tale situazione di privilegio fosse destinata a durare in eterno.

Cadono dunque le premesse tecnico-legali del perpetuarsi dell'oppressione israeliana. Non solo appare una Palestina con i diritti di uno stato, ma appare anche riconosciuta nei confini del '67, quelli che in tutta evidenza i governi israeliani hanno rifiutato, dimostrando con i fatti di volere un'Israele più grande a spese dei palestinesi.

Un'Israele più grande che sembrava possibile in certi discorsi di Bush, ai quali una certa parte d'Israele ha voluto credere, e che ora svanisce di fronte al brusco ritorno alla realtà dopo la sbornia guerresca della War On Terror. Eppure glielo avevano detto tutti che non c'era da fidarsi di Bush e che il sostegno americano non sarebbe bastato ad aver ragione in eterno dei limiti imposti dalle leggi internazionali e dalle risoluzioni ONU, che Israele ha scelto d'ignorare con tanta pervicacia e sistematicità.

La vera minaccia all'iniziativa palestinese è ora rappresentata dalle possibili reazioni del governo israeliano alla delusione e alla nuova situazione. Lieberman e Netanyahu non hanno la diplomazia e la prudenza tra le loro qualità e non è un caso che lo stesso Robert Gates (a capo della difesa americana con Bush e Obama) abbia definito il premier israeliano "un ingrato" e, soprattutto, "un pericolo per Israele". E un pericolo sono anche gli estremisti della destra religiosa, che non hanno niente da invidiare ai talebani e che ora si ribellano e chiedono il potere nella West Bank.

Anche questo lo avevano già detto in parecchi fin dai tempi della WOT, ma allora andava di moda la caccia all'islamico e ad Israele era tutto concesso. Ora che questa tragica ricreazione è finita i nodi vengono al pettine, certe decisioni presentano il conto e la questione israelo-palestinese può fi
nalmente muovere dal pozzo profondo nel quale l'avevano ricacciata la destra americana e quella israeliana.

La retorica dello scontro di civiltà non serve, le fantasie degli Allam, delle Fallaci e delle Nirenstein non hanno più senso, come hanno perso di senso le obiezioni classiche della destra israeliana e filo-israeliana. Parole vuote e inutili contro la mossa palestinese. Parole rese vuote e inutili dai fatti e dalla storia degli ultimi dieci anni.

La Palestina ha scelto la via del diritto e delle istituzioni internazionali per difendere le proprie prerogative e la propria esistenza, per riportare all'attenzione internazionale la sua agonia, il suo essere inerme e in balìa dell'occupante e dei suoi alleati. Non c'è niente di criticabile in questo, non c'è nessuna minaccia nell'affermare il proprio diritto ad essere riconosciuta come stato e non c'è nessun motivo valido, che non sia l'interesse israeliano sopra ricordato, a sconsigliarlo.

Un interesse palestinese moralmente e legalmente legittimo, contro un interesse israeliano per niente legittimo, perché gli espedienti per sottrarsi alle responsabilità per gravi crimini non possono mai essere considerati legittimi.

Ora resta da vedere se Israele persevererà sulla strada dell'arroganza e della sfida al diritto internazionale o se muterà atteggiamento al mutare delle condizioni politiche.

Così come resta da vedere l'atteggiamento che assumerà l'amministrazione USA, già profondamente irritata dal governo Netanyahu eppure non ancora disposta a pressare seriamente Israele per ridurla a più miti consigli e porre finalmente la parola fine al conflitto israelo-palestinese.

http://mazzetta.splinder.com/post/25546822/perche-il-riconoscimento-della-palestina-non-piace-ad-israele


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