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Qui pianeta terra


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Qui pianeta terra

Economia e crisi degli stili di vita
😀 Consiglio la lettura dell'articolo di Pollan su Internazionale 745 (si trova anche nelle emeroteche di certe biblioteche) “Qui pianeta terra” interessante riflessioni per tutti, sull'importanza del fare concentrandosi sull'autoproduzione. 😉

😀 Andare in bicicletta. Mangiare meno carne. Abbassare il termostato. A che servono questi piccoli gesti quotidiani di fronte a un evento epocale come il cambiamento climatico? La risposta di Michael Pollan

MICHAEL POLLAN,
THE NEW YORK TIMES MAGAZINE,
STATI UNITI.

VALE LA PENA?
E' QUESTA LA grande domanda che ci facciamo quando ci
confrontiamo, come individui, con problemi come il riscaldamento globale. Vale le pena di fare qualcosa? Non è facile rispondere. Non so per voi, ma per me il momento più sconvolgente di Una scomoda verità, il documentario di Davis Guggenheim sul riscaldamento globale, non è quando Al Gore spiega perché la vita sulla Terra come la conosciamo oggi è a rischio. Per me il momento peggiore è quando passano i titoli di coda e Al Gore ci chiede di cambiare le lampadine. È lì che mi deprimo: davanti alla sproporzione tra l'enormità del problema descritto da Gore e la limitatezza di quello che ci chiede di fare. Sostituire una lampadina normale con una a basso consumo ci sembra una goccia nel mare, ma il problema non è dare al lavoro a piedi ci fa aumentare l'appetito e di conseguenza ci fa mangiare più carne e più latte. Nel complesso ci fa produrre più anidride carbonica che se andassimo in macchina. Recentemente, diversi studi hanno dimostrato che in alcuni casi, e in determinate condizioni, gli alimenti importati da paesi lontani come la Nuova Zelanda producono meno anidride carbonica del loro equivalente locale. È vero che tra gli autori di uno di questi studi c'era un rappresentante dell'industria agro alimentare neozelandese (ma guarda!), però il dubbio ti viene. E poi calcolare l'impronta di carbonio è complicato!Bisogna considerare non solo i chilometri percorsi dal cibo per arrivare nel mio piatto, ma anche se ha viaggiato per mare o su strada, e tenere presente quanto è verde la Nuova Zelanda. Forse mi conviene continuare a comprare carne d'importazione al supermercato, almeno fino a quando gli esperti non avranno finito di fare i loro calcoli. Pensare in un altromodo Possiamo trovare tante scuse per giustificare la nostra inerzia, ma forse la più insidiosa di tutte è che, qualsiasi cosa facciamo, sarà troppo poco e troppo tardi. Il cambiamento climatico incombe, ed è arrivato molto prima di quanto pensassimo. Le previsioni che dieci anni fa ci sembravano spaventose si sono rivelate fin troppo ottimistiche: l'aumento delle temperature e lo scioglimento dei ghiacci si stanno verificando più rapidamente di quanto avessero previsto gli esperti. Le terribili reazioni a catena già innescate rischiano di accelerare il cambiamento, perché l'acqua prodotta dallo scioglimento dei ghiacci dell'Artide assorbe di più la luce del sole e i terreni riscaldati di tutto il mondo diventano biologicamente più attivi, riversando le loro enormi riserve di carbonio nell'aria. Avete guardato la faccia di qualche climatologo negli ultimi tempi? Sembrano veramente spaventati. E noi stiamo ancora qui a parlare di orti? Proprio così. Come singoli, tutto quello che ora possiamo fare per cambiare il nostro modo di vivere è assolutamente inadeguato. È difficile contestare quello che ha scritto recentemente Michael Specter sul New Yorker: "Le scelte personali, per quanto virtuose (!), non sono sufficienti. Ci vogliono anche le leggi e i soldi". È vero. Ma è altrettanto corretto e realistico dire che nemmeno le leggi e i soldi sono sufficienti. Ci vorrà anche un profondo cambiamento degli stili di vita.Il punto è proprio questo: la crisi provocata dal cambiamento climatico è fondamentalmente una crisi degli stili di vita, oserei dire di carattere. Il grande problema non è altro che la somma di tante piccole decisioni quotidiane: la maggior parte le prendiamo noi (i consumi costituiscono il 70 per cento della nostra economia),e quasi tutte le altre vengono prese in nome dei nostri bisogni, desideri e preferenze. Se aspettiamo che siano le leggi o la tecnologia a risolvere il problema di come viviamo, significa che non vogliamo veramente cambiare. I nostri politici l'hanno capito benissimo, quindi non si muoveranno finché non lo facciamo noi.. Anzi, aspettare che a salvarci da questa situazione siano i politici e gli esperti, le leggi, il denaro e i grandi progetti, è proprio un esempio del modo di pensare passivo, delegante, dipendente dalle soluzioni degli specialisti che ci ha cacciati in questo guaio. È' difficile credere che, continuando a pensare in questo modo, ce ne tireremo fuori. Trent'anni fa il poeta e coltivatore Wendell Berry, autore del Manifesto del contadino impazzito, ha fatto un'analisi precisa di questa mentalità e l'ha denunciata senza mezzi termini. Secondo lui, la crisi ambientale degli anni settanta, quando il cambiamento climatico non era nemmeno cominciato, era fondamentalmente una crisi di comportamenti. Bisognava quindi affrontarla prima di tutto a quel livello: partendo da noi stessi. Berry non sopportava le persone che facevano donazioni alle organizzazioni ambientaliste e poi usavano sconsideratamente i combustibili fossili nella loro vita quotidiana (come quelli che oggi comprano quote di compensazione per bilanciare le emissioni dei loro fuoristrada). Secondo lui, bisognava colmare "il divario tra quello che pensiamo e quello che facciamo"~ La domanda "vale la pena di fare qualcosa?" diventava quindi un imperativo morale: «Una volta capito fino a che punto siamo responsabili di quello che succede, dobbiamo scegliere: possiamo andare avanti come prima, ammettendo la nostra malafede cercando di conviverci,oppure possiamo cominciare a cambiare il modo in cui pensiamo e viviamo".
Tutti specializzati
Per Berry il problema di fondo della civiltà industriale, la vera «malattia della modernità", è la specializzazione. La nostra società ci assegna un numero limitato di ruoli: quando lavoriamo siamo produttori (di una cosa sola), per il resto del tempo siamo consumatori di molte altre cose, e una volta all'anno circa siamo cittadini che votano. In pratica deleghiamo tutti i nostri bisogni e desideri a qualche tipo di specialista quello che mangiamo all'industria agroalimentare, la nostra salute ai medici, l'istruzione agli insegnanti, l'intrattenimento ai mezzi di comunicazione, la difesa dell'ambiente agli ambientalisti, l'azione politica ai politici. Come hanno osservato Adam Smith e altri, questa divisione del lavoro ci garantisce molti dei vantaggi della civiltà. È la specializzazione che mi permette di stare seduto davanti a un computer a pensare al cambiamento climatico. Ma questa stessa divisione del lavoro ci fa dimenticare i legami tra le nostre azioni quotidiane e le loro conseguenze nel mondo reale le nostre responsabilità e ci permette così di non pensare alla centrale elettrica a carbone che alimenta il nostro computer, alla vetta del Kentucky che è stata distrutta per ricavare quel carbone o ai ruscelli nei quali l'acqua scorre rossa per i residui di metallo. Naturalmente a rendere possibile questo tipo di specializzazione è stata innanzitutto l'energia a basso costo. I combustibili fossili a basso costo ci permettono di pagare qualcuno molto lontano da noi per coltivare il nostro cibo, intrattenerci e (cercare di) risolvere i nostri problemi, con il risultato che le cose che sappiamo fare da soli sono pochissime. Pensate a tutte le cose che improvvisamente siamo costretti a fare quando manca l'energia elettrica, tra cui intrattenerci da soli. Ma pensate anche a come un'improvvisa mancanza di corrente ci fa sentire molto di più la presenza dei nostri vicini, della nostra comunità. L'energia a basso costo ci ha fatto scavalcare la nostra comuni
tà, permettendoci di vendere la nostra specialità a grande distanza e di far entrare nella nostra vita le specialità di persone lontane da noi. Il punto è proprio questo: l'energia a basso costo, che produce il riscaldamento globale, incoraggia quella mentalità, che ci fa sembrare difficile, se non impossibile, intervenire personalmente sul cambiamento climatico. Essendo anche noi degli specialisti, immaginiamo che solo un esperto, una nuova tecnologia una legge possano risolvere i nostri problemi. Al Gore ci chiede di cambiare le lampadine perché non riesce a immaginarci capaci di fare qualcosa di più impegnativo, come per esempio coltivare una parte di quello che mangiamo. Neanche noi riusciamo a immaginarlo, ed è per questo che preferiamo incrociare le dita e parlare di etanolo e di energia nucleare: nuovi liquidi e nuovi elettroni per alimentare le stesse macchine, le stesse case, la stessa vita. La "mentalità dell'energia a basso costo', come la chiamava Wendell Berry è quella che si chiede "vale la pena di fare qualcosa?» perché non riesce a immaginare, e meno che mai a vivere, un tipo di vita diverso, meno diviso, meno dipendente. La mentalità dell'energia a basso costo traduce tutto in denaro, e al denaro delega tutto. Per questo si affida alle soluzioni di mercato: la tassa sulle emissioni di carbonio e la compravendita di quote di inquinamento. Pensa a trovare gli incentivi per incanalare i nostri interessi nella direzione giusta. Il risultato migliore che può sperare di raggiungere è una versione più ecologica della vecchia mano invisibile. Non sa che farsene delle mani visibili. Probabilmente non potremo fare a meno di un intervento a livello globale. Ma dubito che sarà sufficiente o politicamente sostenibile se non dimostreremo a noi stessi che siamo capaci di cambiare. Pagare, spendere, perfino votare: tutto questo non è fare, e invece ci sarebbe tanto da fare, subito. Secondo James Hansen, il climatologo della Nasa che vent'anni fa ha lanciato il primo allarme sul riscaldamento globale, se non vogliamo ritrovarci in un "pianeta diverso" abbiamo solo dieci anni di tempo per cominciare a ridurre la quantità di carbonio che produciamo. Il suo avvertimento risale al 2006. Sono passati già due anni e non è stato fatto nulla. Ci restano otto ann e tante cose da fare.
Il virus del cambiamento
Il che ci riporta alla domanda iniziale e a una possibile risposta. I motivi per non fare nulla sono molti e apparentemente convincenti, almeno per chi ha la mentalità dell'energia a basso costo. Vorrei suggerire alcuni motivi da mettere sull'altro piatto della bilancia. Se facciamo qualcosa, diamo l'esempio ad altri. Se un numero sufficiente di persone cominciasse a fare qualcosa, ognuna influenzerebbe altre persone e si verificherebbe una reazione a catena di comportamenti diversi. Il mercato dei prodotti biologici e delle tecnologie alternative crescerebbe. Molti prenderebbero coscienza del problema, forse cambierebbero. Nascerebbero nuovi imperativi morali e nuovi tabù: forse guidare un suv, mangiare una bistecca da un chilo o illuminare una casa come se fosse un aeroporto sarebbero considerati comportamenti incoscienti. Non possedere troppe cose potrebbe diventare di moda. E i pionieri del nuovo stile di vita avrebbero il diritto morale di chiedere anche agli altri persone, industrie, paesi di cambiare i loro comportamenti. Tutto questo, in teoria, potrebbe succedere. Si tratta di un cambiamento sociale di tipo virale, cioè non lineare e non prevedibile. Chissà, forse il virus arriverà fino a Chongging e contagerà anche il mio gemello cattivo cinese, O forse succederà il contrario, e tra qualche anno l'ambientalismo sarà passato di moda. Scegliere di vivere in modo più ecologico è solo una scommessa, niente di più e niente di meno. Ma forse, anche se le probabilità di vincerla sono poche, dovremmo accettarla tutti.. A volte bisogna agire come se le nostre azioni potessero fare una qualche differenza, anche se non ne siamo certi.. Dopotutto, è proprio questo che è successo nella Cecoslovacchia e nella Polonia comuniste, quando uomini come Vaclav Havel e Adam Michnik hanno deciso di vivere "come se" la loro fosse una società libera. Quella scommessa improbabile creò un piccolo spazio di libertà, che con il tempo si allargò fino a provocare il crollo di tutto il blocco orientale. Secondo Vaclav Havel, di fronte alla crisi ambientale la gente dovrebbe cominciare a comportarsi "come se dovesse vivere su questa Terra per sempre e un giorno dovesse rendere conto delle condizioni in cui la lascia". Sono d'accordo, ma vorrei dare un suggerimento meno astratto e scoraggiante: trovate una cosa da fare nella vostra vita che non sia spendere né votare, che forse sconvolgerà il mondo come un virus o forse no, ma che sia reale e specifica (oltre che simbolica) e che, qualunque cosa succeda, abbia i suoi vantaggi. Potreste decidere di rinunciare alla carne, cosa che ridurrebbe di un quarto la vostra impronta di carbonio. Oppure per un giorno alla settimana, astenetevi completamente da qualsiasi attività economica:niente shopping, niente automobile, niente elettronica.
A lezione di generosità
Ma l'azione che vorrei raccomandarvi più di tutte è quella di coltivare qualcosa, anche pochissimo, di quello che mangiate. Usate il vostro prato, se ne avete uno, o usate un pezzo di giardino del quartiere. Piantare un orto può sembrare una cosa da poco, lo so, ma è una delle azioni più importanti che un individuo possa fare.. Per ridurre la sua impronta di carbonio, ma soprattutto per ridurre il senso di dipendenza e di separazione: per cambiare la mentalità dell'energia a basso costo.
Quando si pianta un orto, succedono molte cose, alcune direttamente collegate al cambiamento climatico, altre meno. Forse non tutti lo ricordano, ma per coltivare qualcosa basta la vecchia tecnologia solare: la fotosintesi. Anni fa la mentalità dell'energia a basso costo ha scoperto che poteva produrre più cibo con meno sforzo sostituendo la luce del sole con i fertilizzanti e i pesticidi ottenuti dai combustibili fossili. Così, adesso, per produrre una caloria della nostra energia alimentare ci vogliono dieci calorie derivate dai combustibili fossili. Il modo in cui ci nutriamo (o meglio, in cui ci lasciamo nutrire) è responsabile di un quinto del gas serra che ognuno di noi produce. Eppure il sole illumina ancora il nostro giardino. E la fotosintesi funziona ancora così bene che in un orto organizzato con un certo criterio (piantando i semi, usando come concime i rifiuti di cucina), possiamo coltivare il cosiddetto pranzo zero: zero spesa e zero emissioni di anidride carbonica. E mentre contate le emissioni di carbonio, considerate anche un'altra cosa: il compostaggio non solo nutre i nostri ortaggi e sequestra carbonio dal terreno, ma riduce la quantità di rifiuti che devono essere portati via con i camion. Che altro? Be', probabilmente vi accorgerete di aver fatto un bel po' di ginnastica in giardino, e di aver bruciato calorie senza dover prendere la macchina per andare in palestra (perché, nella follia della moderna divisione del lavoro, dopo aver sostituito la fatica fisica con i combustibili fossili dobbiamo bruciare altri combustibili fossili per tenere in forma il nostro corpo). Inoltre, tenendo impegnati il corpo e la mente, il giardino sottrae tempo, e quindi energia, all'intrattenimento eletttronico. Come diceva Wendell Berry trent'anni fa, coltivare anche una piccola parte di quello che mangiamo è una di quelle soluzioni che, invece di creare nuovi problemi (come inevitabilmente fanno "soluzioni" tipo l'etanolo e il nucleare), crea altre soluzioni. Non solo: genera anche preziose abitudini mentali. Impariamo subito che non dobbiamo dipendere dagli specialisti per sopravvivere, che il nostro corpo serve ancora a qualcosa e può essere usato per provvedere a se stesso. Se gli esperti hanno ragione, se il petrolio e il tempo scarseggiano, presto avremo bisogno di queste capacità e abitudini mentali. Avremo anche bisogno di cibo. Gli orti bastera
nno? Durante la seconda guerra mondiale i victory gardens, gli orti della vittoria, coltivati nei cortili e sui tetti, fornivano il quaranta per cento del cibo che serviva agli americani. Ma ci sono anche altri motivi per piantare un orto. Almeno in quell'angolo del vostro giardino e della vostra vita, avrete cominciato a colmare il divario tra quello che pensate e quello che fate, a mescolare la vostra identità di consumatori con quella di produttori e cittadini. È' probabile che il vostro orto vi faccia riprendere i contatti con i vicini, perché avrete prodotti da regalare e arnesi da chiedere in prestito. Avrete intaccato la mentalità dell'energia a basso costo eliminando il suo punto debole principale: il fatto di non permettere di fare quasi nulla che non implichi divisione o sottrazione. Il lungo periodo che va dalla semina alla raccolta degli ortaggi ci ricorda che le operazioni di addizione e moltiplicazione esistono ancora, che l'abbondanza della natura non si è esaurita. La più grande lezione che possiamo imparare da un orto è che il nostro rapporto con il pianeta non deve necessariamente essere a somma zero. Finché il sole splenderà e gli uomini potranno pianificare e piantare, pensare e fare, potremo sempre, a patto di provarci, trovare un modo di provvedere a noi stessi senza togliere nulla al mondo. 😉 😉 😉
Articolo estratto da “ Internazionale” n. 745
Un mio amico mi scrive che di Michael Pollan, si può trovare comunemente "il dilemma dell'onnivoro" - Adelphi.
In due parole: il libro è un'inchiesta divisa in tre parti:
- la filiera del mais (dalla coltivazione all'hamburger)
- una fattoria a ciclo chiuso
procurasi il cibo con la raccolta e la caccia. Dice che è molto scorrevole e a volte decisamente divertente.


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