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Società umane sull'orlo del suicidio


Tao
 Tao
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La sopravvivenza, dice Diamond, dipende dall'equilibrio ambientale

Fisiologo e ornitologo, titolare di una cattedra di geografia e ambientalista (è un importante dirigente del Wwf statunitense), Jared Diamond non ha certo il physique du rôle del narratore di catastrofi umane. Gentile, minuto, occhi che brillano di intelligenza e curiosità, spiega immediatamente cosa lo ha spinto a scrivere Collasso: «Mi sono sempre chiesto perché una società ricca e potente scompare. Una curiosità che mi porto dietro dall'infanzia, certo, ma anche un grande problema dell'oggi. Ci troviamo a affrontare difficoltà che si sono già presentate in passato e non dobbiamo ripetere gli errori di chi ci ha preceduto».

Come e perché una società umana muore?

Per prima cosa una precisazione: a questa domanda il mio libro risponde in oltre cinquecento pagine. Ciò detto, ho individuato cinque essenziali gruppi di fattori. Il primo è senza dubbio l'impatto delle comunità umane sull'ambiente circostante: le deforestazioni, l'impoverimento e il degrado del suolo, l'esaurimento delle fonti idriche, la distruzione della biodiversità. Il secondo fattore è il cambiamento climatico. Oggi lo si identifica con il riscaldamento globale provocato dall'inquinamento umano, ma nel passato radicali modificazioni hanno avuto anche cause naturali e provocato enormi conseguenze. Poi il terzo elemento, i nemici. Proprio oggi sono andato a visitare il Foro romano: impossibile non chiedersi come sia stata possibile la fine di una civiltà tanto straordinaria. Il dibattito è ancora aperto, ma certo le invasioni «barbariche» hanno avuto un ruolo fondamentale. Il quarto elemento è in un certo senso opposto al precedente, sono i popoli amici. Se una società dipende in maniera essenziale da beni forniti da altri (come nel nostro caso il petrolio del Medio oriente), una caduta di questi ultimi si rifletterà inevitabilmente su di essa.

E il quinto?

Ultimo, ma non certo per importanza, è tutto il complesso di elementi sociali, politici e di organizzazione economica che caratterizzano qualunque comunità umana: questo condiziona severamente la capacità di una società di fornire risposte efficienti alle sfide poste dall'ambiente.

Il sottotitolo di Collasso accenna a società che scelgono di morire. Dove è finito il determinismo ecologico di cui è stato spesso accusato?

Di fronte a una minaccia la scelta è un elemento importantissimo. Non era così in Armi, acciaio e malattie dove analizzavo le cause del dominio della società occidentale. Ma è importante stare attenti alle parole: non conosco un solo caso di una società che abbia scelto di scomparire, ma tutte prima o poi si trovano di fronte a diverse opzioni e le conseguenti decisioni hanno ovviamente delle conseguenze sulla loro sopravvivenza.

Quanto conta l'organizzazione di una società sulle scelte che compie? Nella nostra le élites sono caratterizzate dal privilegio di decidere cosa produrre e cosa no. Considera questo un fattore decisivo per il futuro?

È vero che in una tirannia l'élite gode di un potere assoluto, almeno fino a quando la massa del popolo non si ribella. Per esempio i regni Maya erano tali e una rivolta ha portato alla deposizione del re. Ma in una democrazia i cittadini possono esercitare un potere, magari attraverso il voto. E a questo proposito mi piace ricordare che grazie alle elezioni locali solo pochi giorni fa un duro colpo è stato dato al nostro presidente. Certo, a volte ci sembra di non poter fare nulla ma resto convinto che la scelta sia nelle nostre mani.

Una tipica obiezione ai suoi argomenti «ecologisti» è che comunque la tecnologia risolverà i nostri problemi. È d'accordo?

Niente affatto. In una conversazione, se pur con mille dubbi, Bill Gates mi ha detto proprio questo. Io credo che la tecnologia sia semplicemente potere, potere di fare del bene o di distruggere. Oggi questo potere è enorme ma è anche una delle cause, insieme alla crescita demografica, della velocità e intensità con la quale sorgono oggi i problemi ambientali: troppo spesso una nuova tecnica ci pone di fronte a inattese conseguenze negative e dimenticarlo è un imperdonabile eccesso di ottimismo.

<b<Neutralità della tecnologia, quindi. E della scienza?

Il discorso a mio parere non cambia. Anche la scienza è potere e spetta a noi decidere come utilizzarla.

Vede nello stretto legame tra ambiente e comunità umana una chiave per rinnovare il metodo storico?

Certamente, ma sottolineo che è una tra le molte. E forse è una conseguenza di una mentalità che pone l'accento sul paragone tra tempi e luoghi differenti, alla ricerca di regolarità. Ma dobbiamo sempre tenere presente che quando si parla di storia fare esperimenti è impossibile. Per questo quando parlo di «scienza storica» non penso tanto alla fisica o alla chimica quanto alla mia cara ornitologia o alla geologia. Di norma gli storici non si considerano scienziati e soprattutto si occupano di luoghi e periodi circoscritti: avremo sempre bisogno di esperti del Rinascimento italiano ma per sviluppare una vera e propria «scienza» il metodo comparativo è imprescindibile.

Ci salveremo?

La verità è che non lo so. Faccio comunque una proposta: ripetiamo questa intervista tra trent'anni e forse potrò rispondere.

Luca Tommasini
Fonte: www.ilmanifesto.it
12.11.05


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