Un punto archimedeo
 
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Un punto archimedeo


Tao
 Tao
Illustrious Member
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La catastrofe italiana non è un futuro possibile, ma una realtà che ha un prezzo altissimo. E le domande sono sempre lì: ma a che cosa può servire una manifestazione? A che cosa possono servire i discorsi e le analisi? Non ne se ne sono già prodotti abbastanza? E che cosa è cambiato?

In realtà, questo scoramento è ingiustificato. Molte cose stanno cambiando e sono cambiate. Non solo. Nelle grandi linee, il problema deve essere rovesciato. Non soffriamo di un’impotenza politica che si traduce in un eccesso di analisi, ma di un’arretratezza dell’analisi che si traduce in un’impotenza politica. Ma il berlusconismo ha realizzato uno dei più grandi processi di autoconsapevolezza politica che l’Italia abbia mai sperimentato dopo il fascismo. Ha portato molti a scoprire che nel nostro Paese manca un punto archimedeo su cui fare leva per cambiarlo. Non serve solo un leader: serve la capacità di stare insieme con un obiettivo politico.

Per arrivare a questo bisogna compiere però il passo in avanti più difficile: quello di uscire dalla bolla autoreferenziale che trattiene da anni tutte le migliori energie italiane. La sinistra italiana ha coltivato per decenni l’illusione di essere all’avanguardia in Occidente, perché il suo punto di riferimento era il comunismo. Il Paese del più grande Partito comunista d’Occidente ha creduto di poter guardare dall’alto in basso le democrazie socialdemocratiche europee.

Oggi si scopre che siamo, invece, il fanalino di coda dell’Europa, non solo per quanto riguarda la legislazione sociale e del Welfare State, ma anche per la cultura politica media della sinistra. Per questo quando la sinistra italiana guarda all’Europa accetta come verità colata i resoconti che gli propina il Corriere della sera. Crede effettivamente che all’Italia possa appartenere il destino del riformismo europeo, perché ignora del tutto quali sono i problemi sul tappeto oltre le Alpi.

Chi parla di riforma europea del Welfare spesso neanche immagina che il problema centrale in Europa è quello di trovare un equilibrio che faccia sì che i sussidi di disoccupazione, da strumento di difesa dalla disoccupazione, non finiscano per alimentarla. Il problema non è cancellarli, ma ridurre l’incidenza che hanno sulla crescita di una disoccupazione di ritorno. Per fare un esempio recente: in un suo discorso il nuovo leader del Labour inglese, Miliband, ha detto che il partito difenderà il Welfare, ma non permetterà che la disoccupazione diventi uno “stile di vita”. Mi sono chiesto quanti in Italia capirebbero questo riferimento. In che senso l’essere disoccupati può diventare uno “stile di vita”? Non è un paradosso?

Prendiamo adesso l’intervento di Formigoni da Santoro. Ha ripetuto che l’Italia starebbe meglio degli altri paesi europei anche grazie alla Cassa integrazione, che solo in Italia esiste, e che è merito del governo Berlusconi aver (ri)apparecchiato in un battibaleno. Presenti in studio Bersani ed Epifani. Nessuno ha pensato di rispondere a Formigoni che effettivamente solo in Italia esiste una porcata come la Cassa integrazione, perché in tutti gli altri paesi europei qualsiasi disoccupato (senza mediazioni di sindacati e di politici, e dunque senza le conseguenti clientele) può disporre di un sussidio di disoccupazione per tutto il tempo in cui resterà senza lavoro, fosse anche tutta la vita. Mi pare che di fronte alle persone che hanno figli da mantenere sarebbe importante, almeno qualche volta, raccontare queste cose.

Del resto, non è un caso se il “Manifesto degli espatriati” che è stato sottoscritto da una valanga di giovani autoesiliatisi (molti dei quali ora sono professori universitari, professionisti etc.) mette al punto 8 il ruolo che ha all’estero il sussidio di disoccupazione. Chi viva fuori dall’Italia ha un punto di vista di cui si fatica a capire l’importanza. Santoro benemerito continua a parlare di cassaintegrati, ma non ci pensa un momento a raccontare come stanno le cose negli altri paesi.

Naturalmente, lo so, non si risolve la crisi solo con i sussidi. Ma se non siamo neanche in grado di dire a Formigoni - nello studio di Annozero - che la Cassa integrazione non dà alcun primato all’Italia, perché al contrario ne rappresenta l’abisso, come possiamo sperare che ci si possa opporre poi ai processi epocali legati alla globalizzazione? La disoccupazione risulta più alta in alcuni paesi europei rispetto all’Italia (di uno zero virgola) non perché questi paesi stanno peggio di noi, ma perché la disoccupazione stessa è del tutto diversa in questi paesi.

Nell’autoreferenzialità generale – che non è solo quella (comoda) prodotta della disinformazione berlusconiana, ma anche quella che viene dall’incapacità della cultura di sinistra di elaborare una visione europea – la crisi è diventata da noi un’ottima scusa per azzerare decenni di lotte. Questo all’estero non succede. Come si fa a chiedere di rinunciare ai giorni di malattia o al diritto di sciopero? Può essere questa la soluzione alla crisi? Era questa miseria la ricetta economica che mancava? Naturalmente no. La crisi che viviamo non è solo mondiale, come si ostinano a farci credere: è soprattutto una crisi italiana.

Ho abitato per due anni in Germania, nella Ruhr, zona industriale, dove si trova la Opel, dove c’erano le miniere di carbone, dove ci sono le acciaierie. Noi stiamo meglio degli altri paesi? Ma scherziamo? Lì per la crisi gli operai lavoravano meno, ma quasi con lo stesso salario. Lì il diritto alla casa è una realtà. Gli asili funzionano, le scuole funzionano, i servizi funzionano. E lo stesso vale per gli altri paesi europei, che però molti in Italia conoscono solo attraverso il film Riff-Raff , che il Bertinotti qualche volta citava. Vi ricordate quante garanzie hanno preteso i tedeschi quando la Fiat voleva comprare la Opel? Vi immaginate le risate se Marchionne avesse proposto ai sindacati tedeschi e al governo tedesco il “modello Pomigliano”? E immaginate le risate in Francia, in Inghilterra, in Svezia? L’avrebbero preso per matto.

Si conosce la realtà attraverso il confronto. Non è banale? Ma è proprio questo confronto che manca, a volte per una forma di un’auto-accecamento. L’autoreferenzialità di destra e di sinistra è una barriera più impenetrabile di qualsiasi muro, di qualsiasi censura. Eppure i fatti ogni tanto superano quella cortina fumogena che falsifica ad arte la percezione che in Italia abbiamo dell’Europa e vengono proposti all’opinione pubblica. Per dire, “Il Giornale” (dico “Il Giornale”) scriveva il 24 settembre del 2008 che un operaio tedesco guadagna quasi il doppio di un operaio italiano (2.400 euro al mese contro i 2.200 di un francese e i 1.200 di un italiano).

E si noti che, per quanto possa sembrare incredibile, la vita in Germania costa meno che in Italia (almeno rispetto alle grandi città). Nonostante questo, nel 2008 gli operai tedeschi chiedevano un aumento dell’otto per cento, visto il grande successo delle esportazioni. La Germania è in rovina? L’industria tedesca è alla frutta? Non solo non lo è ma, nonostante il costo del lavoro non proprio da villaggio cinese o da periferia casertana, la Germania contende alla Cina il primato nelle esportazioni.

E allora? Dobbiamo tornare alla domanda di partenza. Naturalmente è inutile guardare a quel simulacro di partito che è il Partito democratico, che riesce a non scendere in piazza in modo netto e chiaro persino per la manifestazione del 16 ottobre 2010 - persino quando si difende l’ABC dei diritti del lavoro.

L’unico punto a cui si può guardare con qualche speranza è alla società civile. Ma alla società civile non solo manca un rilievo politico, perché non è opposizione, essa resta anche preda di un settarismo che è l’eredità diretta del passato di una certa cultura politica. Resta divisa.

Ci si libererà d
ella bolla autoreferenziale in cui continuano a sguazzare, contenti ed ignari, tanti dirigenti politici e sindacali, intellettuali, giornalisti?
Non bisogna essere pessimisti. La manifestazione del 16 ottobre 2010 segna quella che è ormai una tendenza storica indiscutibile: i movimenti, che da diversi anni hanno costituito in Italia l’unica voce critica, pur essendo tra loro divisi, sono sempre più protagonisti di un cambiamento culturale politicamente incisivo. Ed è solo la grande forza di fidelizzazione che il Pd ha avuto in eredità dal defunto PCI, che mantiene in vita uno pseudo partito di oligarchi, asserragliati nella Rai, nelle università, nelle Provincie e Regioni, nei giornali e dovunque si può, sempre in nome di un “realismo” che di “italiano” non ha il pensiero di Machiavelli, ma il vecchio intramontabile familismo amorale.

Un’altra Italia sta nascendo, con fatica, dal berlusconismo. Forse è il vaccino di cui parlava Montanelli. Nell’oscurità una cosa è certa: il rinnovamento culturale del nostro Paese, il punto archimedeo per farlo rinascere, non potrà che passare attraverso questi movimenti.

Giovanni Perazzoli
Fonte: http://temi.repubblica.it
Link: http://temi.repubblica.it/micromega-online/un-punto-archimedeo/
16.10.2010


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