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Demistificare il Contratto Sociale

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Demistificare il Contratto Sociale

“Il Contratto Sociale è una delle opere più fraintese e controverse nella storia del pensiero politico”, così si esprimeva Paolo Casini nel 1994. A venti anni di distanza la situazione non è affatto migliorata e il filosofo ginevrino viene ancora accusato di essere un precursore del totalitarismo o, all’opposto, dell’individualismo sfrenato. In questa breve analisi, si cercherà di sfatare questi falsi miti.
di Lorenzo Pennacchi - 3 marzo 2015

Il Contratto sociale, scritto da Jean-Jacques Rousseau nel 1762, rappresenta uno dei testi più fraintesi e controversi nella storia del pensiero politico. Preceduto dal Discorso sull’origine della disuguaglianza, che nel 1754 aveva illustrato il percorso decadente dell’umanità, approdata nella cosiddetta “società civile”, questo testo si propone di immaginare un’altra storia, capace di determinare de jure il fondamento legittimo di una società giusta. Rousseau non vuole rifugiarsi nell’utopia e sa di dover parlare dell’essere umano reale. Tuttavia, egli è un uomo del suo tempo e per questo deve confrontarsi con la tradizione che ha sotto gli occhi, ovvero quella giusnaturalista-contrattualista.

Come si evince dal precedente Discorso, egli rigetta le premesse giusnaturalistiche (che “parlavano dello stato selvaggio, ma dipingevano l’uomo civile”), ma accetta il contratto come mezzo di fondazione della società. Per i moderni, infatti, il principale obiettivo politico sta proprio nel fondare la società civile, mediante l’aggregazione delle forze di individui considerati originariamente indipendenti, laddove per gli antichi era quello di articolare la già esistente comunità, composta da animali sociali (zoon politikon) e del tutto naturale.

Anche per Rousseau, così come lo era per i vari Grozio, Hobbes, Pufendorf e Locke, la società non è altro che una convenzione, e non una necessità. Tuttavia, questa concezione prettamente individualistica della natura umana, si capovolgerà nel suo opposto all’interno della nuova società. Decidendo di entrare nella civiltà, mediante la stipulazione del patto, gli individui scelgono di rinunciare a tutto ciò che hanno in comune con gli altri: «Chi si dà a tutti non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non acquisti lo stesso diritto che gli cede su se stesso, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si perde, e maggior forza per conservare ciò che si ha». Insomma, le persone riacquistano tutto ciò che hanno precedentemente ceduto in maniera garantita e nobilitata (in quanto veramente politica e quindi morale).

Ovviamente, in questa condizione, la reciprocità è una componente determinante: tutti devono rinunciare a tutto, per riacquisirlo successivamente. Una volta costituita la società, essa sarà in mano alla volontà generale, ovvero l’assemblea di tutti i cittadini riuniti come popolo, formanti un vero e proprio “io comune”. La volontà generale, infatti, non è un concetto “quantitativo”, generato dal semplice conteggio dei voti mossi da interessi particolaristici (come sarebbe la volontà di tutti), bensì “qualitativo”, mirato a determinare il Bene oggettivo per la comunità. Di fatto, come accennato precedentemente, l’antropologia individualistica rousseauiana si tramuta in una visione olistica dello Stato, dove i singoli non sono altro che parti di una totalità, tesa al raggiungimento del bene comune.

Da qui, le accuse di totalitarismo rivolte al pensatore ginevrino, sostenute da frasi estrapolate direttamente dal Contratto, come la più celebre che recita: «Quando dunque prevale il parere contrario al mio, ciò non significa altro se non che io mi ero sbagliato e che quella che io credevo essere la volontà generale non era tale». Evidentemente, se preso isolatamente e del tutto decontestualizzato, questo pensiero sembra dare ragione a questo tipo di critiche, profondamente liberali, che vedono nel Contratto l’impossibilità di disobbedire all’ordine dato. Questa critica, non a caso, ha tra i suoi fautori John Rawls, secondo il quale in questa nuova società, mancherebbe lo spazio per il “disaccordo ragionevole”. Di fatto, Rousseau viene accusato di voler sopprimere indistintamente i singoli al Tutto.

Ma proprio in questo trova la sua smentita: cos’è, infatti, questa totalità, se non l’unione di tutti i cittadini? Insomma, questo tipo di accusa diviene incomprensibile in un modello, come quello rousseauiano, fondato sulla reciprocità e sull’uguaglianza. Che poi, il giacobinismo abbia rivendicato il Contratto come testo del suo regime, è totalmente un altro discorso; sarebbe come dare la colpa a Marx per quello che ha fatto il comunismo, o a Nietzsche per quanto riguarda il nazismo.

Riguardo l’accusa opposta, di individualismo, la questione è molto più semplice. Rousseau, almeno nel Contratto non è definibile in alcun modo come individualista, in quanto tutto il suo progetto è teso, come abbiamo visto, al bene comune. Tuttavia, una questione resta aperta: perché un autore con premesse prettamente individualistiche (quelle sì), concepisce la sua società ideale in maniera olistica? Forse, la risposta a questa domanda, la si può trovare più nella vita, che nel pensiero del ginevrino. Se è chiaro che individualismo ed olismo sono due prospettive antitetiche, è vero anche che Rousseau ha dato vita al suo intero sistema politico proprio a partire dagli opposti (basti pensare alle dicotomie natura-civiltà, individuo-società, istinto-ragione), generati da un’esistenza turbolenta e piena di esperienze drammatiche (la morte della madre appena nato, i continui dilemmi religiosi che lo hanno portato a convertirsi due volte, l’incredibile abbandono dei figli all’orfanotrofio dei trovatelli).

Una vita all’insegna della dissidenza e della ribellione, che lo ha portato a scontrarsi su tutto con tutti, laici ed ecclesiastici. Ecco perché, più che una falla, questa insolita concordanza tra gli opposti, la si può considerare come un tentativo, da parte del pur sempre irriverente Jean-Jacques, al fine di creare sì una società anti-moderna, in quanto incentrata sulla totalità, ma anche rispettosa delle singole parti, tenendo bene a mente il problema principale a cui il Contratto deve rispondere: «L’uomo è nato libero, e ovunque è in catene».

http://www.lintellettualedissidente.it/societa/demistificare-il-contratto-sociale/

Io vedo il contratto sociale come un passo significativo nella lotta millenaria tra la civiltà e la barbarie.
Insomma per me c'è un filo rosso, una continuità di pensiero, che va da Hammurabi, imperatore della Mesopotamia, a Kelsen, costituzionalista austriaco.
E in mezzo c'è Rousseau.
E' l'idea che l'alternativa non è tra socialismo e barbarie, ma tra la legge e la barbarie. Ma la legge non deve essere una legge qualsiasi, deve essere nomos, principio ordinatore e allo stesso tempo a tutti comprensibile. Deve essere una legge capace di difendersi dalle ingiurie degli uomini, una legge resistente, scolpita su pietra o difesa in altro modo. Deve essere una legge visibile e comprensibile a tutti.
Capiterà non di rado che per avere una legge di questo tipo bisogni combattere con le armi in mano. Come capitò ai partigiani italiani, i quali sono alla base della Costituzione italiana.

premetto che io questa polemica su Rousseau totalitarista/individualista la ignoravo completamente.
A me ha sempre dato un pò fastidio la definizione di patto o contratto sociale la capisco solo da un punto di vista della "mitologia politica".
IL discorso che fa truman è condivisibilissimo ma molto vago all'atto pratico.
Quando si tratta (e si è trattato) di farle le leggi ci si è accorti che si contrppongono sempre gli interessi di un gruppo sociale ad un altro ma allora quello che può essere "giusto" per uno non lo sarà per l'altro e viceversa.
L'ottica socialista (con la sua aspirazione egualitarista) cerca proprio di superare questo problema stabilendo il principio che l'interesse collettivo ha sempe (almeno dovrebbe) la priorità sull'interesse dei singoli gruppi e sono quindi gli interessi del "popolo" come categoria maggioritaria che dovrebbero essere fatti.
Per dirla alla rousseau se questo contratto sociale viene redatto dalla sola classe dominante (e secondo i suoi interessi) è una truffa che il singolo, di fatto, non ha il potere di NON sottoscrivere.
per cui secondo me invece.... o socialismo o barbarie.

Io vedo il contratto sociale come un passo significativo nella lotta millenaria tra la civiltà e la barbarie.
Insomma per me c'è un filo rosso, una continuità di pensiero, che va da Hammurabi, imperatore della Mesopotamia, a Kelsen, costituzionalista austriaco.
E in mezzo c'è Rousseau.
E' l'idea che l'alternativa non è tra socialismo e barbarie, ma tra la legge e la barbarie. Ma la legge non deve essere una legge qualsiasi, deve essere nomos, principio ordinatore e allo stesso tempo a tutti comprensibile. Deve essere una legge capace di difendersi dalle ingiurie degli uomini, una legge resistente, scolpita su pietra o difesa in altro modo. Deve essere una legge visibile e comprensibile a tutti.
Capiterà non di rado che per avere una legge di questo tipo bisogni combattere con le armi in mano. Come capitò ai partigiani italiani, i quali sono alla base della Costituzione italiana.

Bé Truman, per una volta ti quoto. Bisognerebbe anche inquadrare Rousseau nel suo tempo, fra l'altro.

Platone, La Repubblica, libro I, dialogo tra Trasimaco e Socrate: il problema del rapporto tra giustizia sociale e leggi istituzionali parte da lontano, è durato numerosi secoli, alla fine ha trovato una prima risoluzione, rivolta al bene comune, con Rousseau, illuminista e tra i primi interpreti del pensiero moderno.

TRASIMACO: ( con tono sprezzante) O caro Socrate, stammi ben a sentire, alla tua domanda io rispondo così: la giustizia non è altro che l’utile del più forte. Ogni governo legifera per il proprio utile, e ogni volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è il proprio utile, e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore sia della legge sia della giustizia.In ciò dunque consiste, mio ottimo amico, quello che identico in tutti quanti gli stati, definisco giusto: l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza: così ne viene che in ogni caso il giusto è sempre la stessa cosa, cioè l’utile del più forte. Inoltre caro Socrate devo dirti con molta franchezza che la vita dell’uomo ingiusto è superiore a quella dell’uomo giusto, nel senso che è più felice e migliore. 

SOCRATE: ( con tono calmo ma deciso) Carissimo Trasimaco, vediamo se le cose stanno proprio come tu dici. Secondo me il giusto è ciò che giova ai più deboli cioè a coloro che sono
subordinati. Ti faccio questo esempio: la medicina non mira all’utile della medicina stessa, ma all’utile del corpo e d’altra parte la medicina, come qualsiasi altra arte, esercita dominio e governo su quello che è il suo oggetto, cioè sui malati. Non c’è quindi scienza che abbia di mira e prescriva l’utile del più forte, bensì quellodi ciò che è più debole e che da essa viene governato. Nessun medico in quanto medico ha di mira prescrive l’utile del medico, ma piuttosto quello del malato. Così, caro Trasimaco, non v’è alcuno , in  alcuna forma di governo  che in quanto uomo di governo abbia di mira  prescriva il proprio utile anziché quello di che gli è suddito e per cui esso stesso lavora. Tutte le sue azioni e parole hanno questo scopo e sono in funzione dell’utilità e della convenienza del suddito.

TRASIMACO: ( con rabbia) Non hai nessuno che possa farti da balia e toglierti il moccolo dal naso? Dici cose senza senso: il pastore secondo te cura il proprio gregge per il bene delle pecore o per il proprio bene? I governanti degli stati sono nello stesso stato d’animo dei pastori e mirano giorno  e notte solo al loro profitto. E devi poi tenere presente questo, semplicione di un Socrate,  che in qualunque modo un uomo giusto ci perde rispetto ad un ingiusto. Vorrei poterti ficcare questa verità così semplice nella tua testaccia come un chiodo.
 Trasimaco si avvicina a Socrate e fa il gesto di conficcare un chiodo nella testa di Socrate mentre ripete più volte: L’uomo ingiusto è più felice di quello giusto.

SOCRATE: Caro il mio Trasimaco, non è così semplice conficcar chiodi. Io resto convinto che l’uomo  giusto è più felice dell’ingiusto. Prendi l’esempio dell’uomo più ingiusto, il tiranno, la sua è una vita miserabile perché costantemente oppressa da paure, dunque, colma di infelicità. Sono convinto, e lo resterò nonostante tutti i chiodi che tu vorrai conficcarmi in testa, che sia preferibile subire ingiustizia piuttosto che commetterla.

Socrate mi pare un po' a corto di argomenti.
L'equivoco è nel fatto che si mette l'accento su una questione del tutto secondaria e cioè se vive meglio il cattivo o il buono.
La vera questione è: chi ha più possibilità di agire in prima persona per realizzare i propri progetti e chi invece si trova, per dirla à la De Martino, a "essere agito"?
E lì controbattere le argomentazioni di Trasimaco diventa difficile.

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