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Il boss cambia affari: acqua, rifiuti, supermercati; ecco le nuove frontiere della mafia siciliana
di Carlo Ruta

La realtà documenta che, a dispetto delle confische operate in questi anni, l’economia della Sicilia continua a essere soggetta all’iniziativa mafiosa. Si registrano comunque mutamenti di rilievo. Se nel secondo Novecento le consorterie hanno puntato in modo debordante sull’edilizia, pubblica e residenziale, negli ultimi tempi, senza nulla togliere al cemento, che a dispetto di tutto mantiene il proprio fascino, le medesime sono state attratte pure da altri tipi di affari, per più ragioni in vistosa crescita. Nella lista dei business più ambiti sono finiti le energie rinnovabili, la gestione dei rifiuti, la grande distribuzione. Era nelle cose del resto che avvenisse, giacché è su tali linee che si giocano oggi sfide, pure in chiave economica, fra le più importanti.
Una voce in forte ascesa è costituita altresì dall’acqua, la cui erogazione, in Italia come in altri paesi, è andata passando dal controllo pubblico a quello privato. Sin dagli esordi, beninteso, la mafia siciliana ha tratto rendite importanti dal controllo delle sorgenti e dei corsi d’acqua. Nel nuovo stato di cose, chiamando a patti multinazionali e società quotate in borsa, le consorterie territoriali sono in grado però di portarsi oltre, compartecipando alla gestione degli acquedotti, dei dissalatori, delle condotte, degli impianti di erogazione nelle case. In definitiva, per le economie più fosche, come per le banche, interessate alle utilities come mai in passato, l’appropriazione del bene comune è strategica. La storia va quindi in replica, con i processi di modernizzazione, o supposti tali, che in Sicilia insistono a passare in modo inclusivo, senza che nessuna parte della tradizione venga lasciata indietro, in un intricato tango di richieste e concessioni, appalti e subappalti.

Naturalmente, si sta trattando di un aspetto della mafia, che ne presuppone un altro, costitutivo. Come tutte le organizzazioni di tipo criminale, quella siciliana costituisce un Giano bifronte, dovendosi destreggiare fra l’ombra, dove organizza i propri affari originari, al riparo della legge, e la luce, dove pure deve approdare, per spendere, investire, fare impresa, in ultima istanza per riciclare. Nelle attività economico-criminali, di ogni latitudine, le due sfere tendono necessariamente a uno standard. Se una certa organizzazione, con le sue attività clandestine, incardinate per esempio sul narcotraffico, produce in un tempo dato un utile netto di 100, tenuto conto della relativa anelasticità dei mercati di droghe, tale sarà pressappoco il capitale che cercherà di riciclare in attività economiche normali. Si considerino i casi della ‘ndrangheta e della camorra. A un crescendo di attività propriamente criminali, soprattutto nel narcotraffico internazionale, ha fatto riscontro, negli ultimi due decenni, una penetrazione incalzante in numerosi comparti produttivi, nel commercio, nei servizi. Le vicende dei Di Lauro, degli Strangio, dei Mancuso, divise appunto fra gangsterismo e affari travolgenti su scala continentale, sono al riguardo rappresentative. Ormai da tempo, in Sicilia le cose vanno invece diversamente.

Fino agli anni ottanta il bilanciamento fra le due sfere, clandestina e legale, era nelle compagini dell’isola pressoché perfetto. L’ombra riusciva a garantire utili ingenti, che venivano poi immessi, senza seri ostacoli, nell’economia visibile, con l’effetto di imbrigliarla. Si considerino in particolare gli anni sessanta, che scandirono l’Eldorado dei clan siciliani. Buscetta, Badalamenti, Luigi Davì, i Greco reggevano le fila del traffico internazionale di tabacchi e narcotici, facendo la spola fra la Sicilia e le due Americhe. Contestualmente, Vito Ciancimino, da assessore ai lavori pubblici, e Salvo Lima, da sindaco di Palermo, pianificavano, con larghezza di autorizzazioni, la presa edilizia della città capoluogo, di concerto con gli imprenditori Vassallo e Cassina, gli esattori Salvo di Salemi, alcuni ministri della Repubblica, a partire dal democristiano Giovanni Gioia. Garantiti a vari livelli, gli affari del cemento venivano irraggiati quindi sull’isola intera, mentre esponenti delle cosche, più o meno legittimati, comunque in grado di esercitare potere, trovavano i modi per estendere la loro influenza oltre lo stretto. Ebbene, oggi è difficile ravvisare un tale equilibrio fra le due sfere, perché si è indebolita intanto quella costitutiva. Dopo lo sprint degli anni settanta e ottanta e la strategia stragista dei primi anni novanta, i capi famiglia hanno dovuto ridurre infatti il loro impegno sul terreno, lungo varie linee, a partire comunque dai commerci di droghe, di gran lunga l’attività clandestina che più rende su scala globale.

In tale ambito i siciliani, ceduta la leadership continentale, hanno dovuto adattarsi a un ruolo dimesso. E alcuni passaggi fra passato e presente ne offrono una rappresentazione plastica. Nei primi anni settanta, i boss dell’isola, che avevano sbaragliato armi in pugno e infine assoggettato i marsigliesi, costituivano il polo di riferimento di pressoché tutti i gruppi italiani. Furono infatti capaci di affiliare capi camorristi come Nuvoletta e Zaza, per la conduzione dei traffici nel Napoletano e nelle aree confinanti. Diversamente, oggi è usuale che i clan siciliani si rivolgano alle compagini campane, ma soprattutto calabresi, che hanno acquisito appunto un ruolo centrale nella geopolitica del narcotraffico, per rifornirsi di cocaina e altre droghe, da destinare al mercato locale e alle aree della penisola, come la costa ligure e l’hinterland milanese, su cui conservano un’influenza. Numerosi indizi lasciando intendere tuttavia che non si tratti di un processo irreversibile.

Fonte: Arcoiris.tv
Ultimo aggiornamento ( Friday 05 March 2010 )

http://www.accadeinitalia.it/index.php?option=com_content&task=view&id=219&Itemid=30

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