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Nuovo Paradigma: primo passo


GioCo
Noble Member
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Vorrei provare a trattare una serie di questioni cruciali per la nostra epoca, senza voler cambiare il mondo o le persone che lo abitano, ma semplicemente per condividerlo nella convinzione che ognuno deve poi poter essere responsabile di se stesso e del suo pensiero.

Offro una opportunità, ma intendiamoci, non positiva. Nel senso che è un opportunità che apre alla pedagogia dell'Inferno. Parto da un presupposto: all'inferno non c'è la necessità di verificare, non esiste cioè il problema della verificabilità, per il banalissimo motivo che si assume falso tutto ciò che vi accade al suo interno, a parte ovviamente la sofferenza, la fatica e più in generale il disagio che provoca rimanervi intrappolati. Il corollario di questo presupposto è che noi (tutti noi) stiamo abitando l'Inferno senza saperlo. Meglio, stiamo abitando l'Inferno senza vederlo e per ciò e come se "facessimo finta" di essere da tutt'altra parte, in tutt'altro stato a fare qualche cosa che ha significato solo nella nostra fantasia.

Allora facciamo i bastardi dentro e vediamo di aggredire questa illusione, prendendo in prestito il concetto gnostico che divide l'Uomo nelle categorie: Ilici, Psichici e Pneumatici. Cioè di persone che sarebbero più o meno vicine alle bestie in quanto preoccupate solo di vivere per vivere, sulla via dell'illuminazione o perfezione spirituale in quanto intuitivamente mosse dalla necessità di ascendere spiritualmente e infine "sagge e illuminate", cioé ormai maestri di vita (interiore). Oppongo a questa visione che nella materialità dell'esperienza, trovo difficile il riscontro concreto. Mettiamoli allora tutti all'inferno e proviamo a rovesciare la prospettiva: gli Ilici sarebbero i più vicini all'uscita perché banalmente i più disillusi, gli Psichici sono quelli che non si sono ancora completamente arresi e lottano per ciò (senza saperlo) per arrendersi e i Pneumatici sarebbero i più illusi, tanto da concepire un vero e proprio castello di stronzate più o meno condivisibili, una più divertente dell'altra (dal punto di vista cinico di un demone, ovviamente). A ben vedere a me "così a intuito" mi sembra che "la seconda che ho detto" quadri meglio con la realtà che mi circonda, voi no? >:)

Mettiamo davanti ai buoi il carro, anche se sembra funzionalmente assurdo, perché sarà poi facile scoprire che stavamo guardando tutto attraverso uno specchio, per ciò "i buoi erano già davanti al carro" che pretendevamo di guidare (senza per altro riuscire). Una volta rovesciati i termini, ci ritroveremo un carro che funziona meglio anche se paradossalmente i buoi stanno dove adesso li vediamo, cioè davanti. Per riuscire però a mettere "davanti i buoi", fuori di metafora, dobbiamo porci in condizioni estremamente rigide, cioè inflessibili, in particolare circa il giudizio rivolto alle persone. Possiamo (e anzi dobbiamo) giudicare ciò che accade ma sforzandoci di non passare per osmosi tale giudizio sulle persone. Lo so, è molto difficile ma è cruciale l'applicazione inflessibile di questo punto. Vi sono infiniti perché che giustificano tale necessità, non ultimo l'esercizio della guida del giudizio (che tendiamo a non allenare) ma ce ne è uno che secondo me vale per tutti: concentrare l'attenzione sulle persone svuota inutilmente le nostre energie (cognitive) deviando l'attenzione su "un parcheggio" che ferma la critica e l'apprendimento. Cioè ci fa operare "in folle", come uno che al semaforo fa rombare i motori "preludendo" a chissà quale partenza, per "fare a gara di rombo dei motori libero" con quanti incontra sul suo percorso, senza però mai partire davvero, perché è un agire fine a se stesso, "vince" chi fa più rumore non chi parte più deciso. Questa opera illusoria, del preludere un azione che in verità non verrà mai consumata è uno dei presupposti cardine dell'abitato infernale e se noi giudichiamo la persona (che romba il motore) per esempio perché consuma in modo imbecille carburante, entriamo nella spirale della condanna e della colpa dentro cui verremo risucchiati inevitabilmente, per essere incatenati al nostro "pensiero infernale".

Ecco allora che abbiamo definito un tratto fondamentale: l'Inferno è oggettivo, solo perché forgiato dal nostro pensiero e dal momento che diventa da noi accettato e accettabile, nonché collettivo e condiviso. Come il pensiero mercantile. Naturalmente anche la religione fa la sua parte, ma l'errore fondante che oggi ci abita è che per fuggire dalla religione e dai suoi aspetti più repellenti (attraverso altre credenze come quelle animiste, gnostiche o con l'ateismo) finiamo fatalmente per aderire al mercantilismo trasformandolo in religione, passando in pratica dalla padella nella brace.

Il tutto condito con un problema di fondo che è il concreto problema vissuto, non difficile da riconoscere ma non a caso lontano dalla nostra attenzione: non sappiamo cos'è il pensiero e per ciò non abbiamo idea di cosa ci sta guidando, anche qui, adesso, mentre leggi questo contributo. Per ciò rispetto Socrate ho deciso di fare un passo indietro, non per dire "so di non sapere", ma per dire "so di non pensare".

Cioè so che il pensiero che mi abita non mi appartiene.

Paradossalmente non è neppure troppo difficile accorgersi che le cose stanno in questo modo, dato che il pensiero ci accompagna continuamente. Ma fissiamo un altro punto di questa monografia, se no non sarebbe possibile continuare. Esiste un nostro pensiero? Stabilito questo, in successiva battuta, ci rimane una residua possibilità di un pensiero "nostro"? Fatto questo, possiamo stabilire un risultato meno illusorio?
Naturalmente evito volutamente di distribuire condanne e colpe, quindi non mi chiedo "di chi è il pensiero" che non è mio. Tuttavia è utile notare la curiosità di stabilire questo presunto colpevole al fine di sottolineare la difficoltà di governo della nostra attenzione. Proviamo a soddisfare questo prurito. Per me sono demoni, cioè forze non meglio classificabili che hanno la proprietà intellettuale esclusiva del pensiero. Tranne uno.

Il pensiero capace di accorgersi del pensiero, detto anche con buona approssimazione "osservatore", ma personalmente preferisco definirlo "capacità di essere presenti a se stessi" perché mi sembra più chiaro. Questa capacità possiamo dire che esiste perché possiamo negarla. Se perdiamo i sensi o qualcosa ci stordisce (per esempio troppi alcolici) perdiamo in tutto o in parte la capacità di essere presenti a noi stessi, quindi di testimoniare (sempre rispetto noi stessi) quello che ci accade. Facciamo molta attenzione perché non mi riferisco nello specifico al ricordo. Ciò a cui mi riferisco si consuma nell'istante. Per capire ancora meglio pensiamo al sogno e confrontiamolo con la veglia. Quando sognamo, c'è una residua possibilità di renderci conto che stiamo sognando, ma di solito noi tutti non siamo coscienti che si tratta di un sogno durante l'esperienza. Notiamo come questo non diminuisce affatto la "presenza a noi stessi", tant'é che rimaniamo testimoni di quanto ci accade nel sogno, esattamente come durante la veglia anche se dopo lo dimentichiamo. Tanto più quello che accade appare "definito" e "chiaro", cioè vissuto fin nei minimi dettagli (= poco confuso) tanto meno ci appare illusorio, tanto più siamo presenti a noi stessi e ci rimane inutile stabilire "la verità" al fine di distinguere il sogno dalla realtà.

Questo significa che a prescindere dal "risveglio" (il momento in cui prendiamo coscienza che eravamo in uno stato onirico) ciò che conta non è la verità ma "rimanere presenti a noi stessi" in quanto unico riferimento stabile oltre che strumento necessario ad acquisire un controllo sempre maggiore circa la nostra lucidità cognitiva. Ripeto, indipendentemente dallo stato di partenza.

Ma c'è di più e di meglio. Se la presenza a noi stessi si consuma nell'istante, il tempo come si misura? Il tempo individuale diventa la pausa tra una negazione e l'altra della nostra lucidità. Cadenzata non perché indipendente dal testimone, ma perché il testimone ne conserva una misura comunque ritmica (ad esempio nell'alternanza veglia-sonno).

Quindi, il pensiero certamente "nostro" (che ci appartiene) è quello che riconosce se stesso, ma questo non ci porta a stabilire qualcosa circa il resto dei nostri pensieri e il grado di appartenenza, ne tantomeno qualcosa circa la loro potenza illusoria, solo una presenza più o meno lucida ai fenomeni di cui riusciamo a essere testimoni. Si tratta di qualcosa di grave? Direi di no, basta arrendersi volontariamente all'idea che il pensiero non debba essere per forza una nostra proprietà "per funzionare". Anzi, diciamo che in fondo non ce ne frega proprio niente, dato che la proprietà del pensiero è un peso utile a tenerci bloccati all'Inferno. Ci importa stabilirne la sorgente? Se siamo curiosi forse potrebbe valere la pena, ma ai fini pratici è meglio dedicare poco tempo, perché il rischio di perdere di vista la finalità (che è di ridurre la dipendenza dall'illusione) è troppo alto.

Quello che va fatto a mio avviso è costruire una visione organica del nostro pensiero, utile a rendere intelleggibile l'esperienza, ma per farlo abbiamo bisogno di andare un pochino oltre Popper e il principio di falsificabilità, dato che abbiamo detto mille volte che non ci occupiamo della verità. Dobbiamo stabilire un principio di visibilità. Per esempio, seguendo un assioma trigonometrico che per scongiurare l'illusione devo disporre almeno tre differenti angoli o propettive d'osservazione, che mi restituiscano una visione molto diversa della stessa identica osservazione.

Cerchiamo di capire meglio con una metafora. Pensiamo a uno stormo che vola nel cielo. Se uno sciamano osservasse lo stormo, lo potrebbe interpretare come il risultato di forze invisibili. Se a osservare lo stesso identico stormo fosse un ornitologo, lo interpreterebbe secondo i paramentri dell'adattamento, del comportamento animale, la tassonomia, l'ambiente, etc. etc.
La differenza tra le due prospettive (tolto dai piedi questa maledetta verificabilità) è come viene osservato il fenomeno, ciò che dischiude e ciò che preclule. Allo sciamano viene preclusa la necessità di classificare, catalogare, cumulare sapienza tassonomica e quindi di avere una visione meccanica e prevedibile del fenomeno. Allo scienziato viene preclusa la necessità di guardare oltre ciò che "crede" stia influenzando lo stormo (ad esempio i campi elettromagentici terrestri) e che costituisce il "torrente" di informazioni invisibili che però indubbiamente scorre e influenza lo stormo, come indubbiamente scorrono e ci influenzano i pensieri che rimangono "invisibili". Proviamo adesso ad aggiungere un punto di vista nuovo, un terzo osservatore, il prestigiatore. Egli noterà come il particolare volo acrobatico dello stormo ha effetti ipnotici e quindi capaci di influenzare l'attenzione dello spettatore. Per ciò per lui saranno importanti i movimenti e si chiederà se ripetere quei moviementi (magari con le mani) può ottenere effetti simili sui suoi spettatori. Cercherà di imitarne "la danza", fatta di cambiamenti improvvisi seguiti da fluttuazioni armoniche, concepiti entro un chiaro ritmo. Una cosa simile potrebbe accadere per uno sceneggiatore che volesse costruire un opera teatrale di danza classica, ma ovviamente il suo intendimento, il significato con cui declina l'accadere, riguarderà la riproduzione di una bellezza affascinante più che il controllo dell'attenzione del pubblico utile a spostarla dove conviene.

Noterete che l'osservazione cambia prospettiva a seconda del ruolo e ciò corrisponde esattamente a quanto da noi definito: se siamo padroni ultimi indiscussi (e indiscutibili) del pensiero presente a se stesso, l'angolo con cui definiamo l'osservato corrisponderà per forza al ruolo che ci siamo dati nell'osservare lo stesso identico fenomeno che (di più) sarà identificato lucidamente proprio in base alle diverse prospettive e significazioni correlate, cioè tra loro connesse, per formare la visione di insieme organica.


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