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Alla conquista dell’attenzione


Tao
 Tao
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Società dello spettacolo. La messa in scena della sofferenza individuale è diventata il modello dominante delle relazioni sociali e dei rapporti tra imprese e consumatori. Un percorso di lettura su un processo storico che ha le sue radici nel capitalismo ottocentesco

In una società domi­nata dagli intensi flussi comu­ni­ca­tivi, può essere con­si­de­rato ancora impor­tante il ruolo rive­stito dallo spet­ta­colo, forma comu­ni­ca­tiva con­cen­trata e unica? Appa­ren­te­mente, infatti, il modello dello spet­ta­colo appar­tiene ad un’epoca pre­ce­dente a quella con­tem­po­ra­nea, nella quale è richie­sta ai sin­goli una con­nes­sione costante alla Rete e ai suoi flussi e dove la strut­tura chiusa che carat­te­riz­zava le opere tra­di­zio­nali (film, com­me­die, varietà, ecc.) è ridotta a fram­menti con­ti­nua­mente cir­co­lanti. In realtà, oggi siamo ancora, e più che mai, all’interno di una «società dello spet­ta­colo». Infatti, pro­prio l’imporsi cre­scente di un flusso comu­ni­ca­tivo che tende ad assor­bire e omo­lo­gare ogni cosa rende indi­spen­sa­bile riu­scire ad emer­gere da tale flusso con eventi spet­ta­co­lari di grande impatto. Ciò vale per i sin­goli, costretti a raf­for­zare la pro­pria pre­senza nel Web rac­con­tando ed esa­ge­rando i det­ta­gli più intimi della pro­pria vita e pren­dendo con­se­guen­te­mente come modello di rife­ri­mento i divi del mondo dello spet­ta­colo. Ma, più che gli indi­vi­dui, sono le imprese a ricor­rere alla for­mula dello spet­ta­colo e a cer­care di cat­tu­rare l’attenzione di con­su­ma­tori sem­pre più distratti per tra­sfor­mare tale atten­zione in valore eco­no­mico. Non è un caso per­ciò che oggi si parli sem­pre più fre­quen­te­mente di «eco­no­mia dell’attenzione».

Eco­no­mia mentale

L’adozione da parte del sistema capi­ta­li­stico del modello dell’economia dell’attenzione pro­duce delle con­se­guenze che vanno con­si­de­rate atten­ta­mente, per­ché non hanno una natura sola­mente eco­no­mica, ma anche cul­tu­rale e sociale. Yves Cit­ton, pro­fes­sore di let­te­ra­tura all’Università di Gre­no­ble e diret­tore della rivi­sta Mul­ti­tu­des, ha recen­te­mente rac­colto le rifles­sioni su tali con­se­guenze di autori pro­ve­nienti da diverse disci­pline nel volume L’économie de l’attention. Nou­vel hori­zon du capi­ta­li­sme? (La Décou­verte, pp. 321, euro 24). Il punto di par­tenza delle rifles­sioni con­te­nute nel volume è l’idea che l’economia tra­di­zio­nale si è sem­pre basata sulla ricerca di una mas­si­miz­za­zione della pro­du­zione di beni mate­riali a par­tire da risorse scarse, men­tre oggi invece la situa­zione sem­bra essersi rove­sciata. Vale a dire che quello che in appa­renza suc­cede al sistema eco­no­mico è che tende a tra­sfor­marsi in una spe­cie di «capi­ta­li­smo men­tale» i cui beni sono in gran parte cul­tu­rali e dun­que non pon­gono par­ti­co­lari pro­blemi dal punto di vista della loro pro­du­zione. Al punto che ven­gono spesso offerti gra­tui­ta­mente alle per­sone, come suc­cede ad esem­pio nel Web con aziende come Goo­gle, Face­book o You­Tube. La risorsa che è diven­tata scarsa è invece il «capi­tale atten­zio­nale» di cui dispon­gono i con­su­ma­tori, per­ché que­sti sono quo­ti­dia­na­mente bom­bar­dati da pro­po­ste di vario tipo.

Il pro­blema dun­que per il sistema capi­ta­li­stico è di riu­scire ad otti­miz­zare la capa­cità degli indi­vi­dui di rice­vere, assor­bire e dige­rire una pro­du­zione sovrab­bon­dante di beni culturali.

Come ha osser­vato Yves Cit­ton nell’introduzione del volume L’économie de l’attention, la realtà eco­no­mica e sociale che abbiamo di fronte non è esat­ta­mente basata su un capi­ta­li­smo pura­mente «men­tale», per­ché la pro­du­zione dei beni cul­tu­rali ha ancora la neces­sità di sfrut­tare la mano­do­pera ope­raia (soprat­tutto cinese), deve ricor­rere a un con­sumo ele­vato di ener­gia e non può fare a meno d’impiegare alcuni metalli rari. È vero però che il nuovo modello dell’economia dell’attenzione è venuto ad aggiun­gersi al modello eco­no­mico tra­di­zio­nale, seb­bene que­sto non sia mini­ma­mente messo in discus­sione e anzi con­ti­nui ad ope­rare attra­verso le stesse moda­lità che ha sem­pre utilizzato.

Tra i nume­rosi con­tri­buti pre­senti nel volume di Cit­ton, rive­ste un par­ti­co­lare inte­resse quello che è stato fir­mato dallo sto­rico dell’arte Jona­than Crary, anche se in realtà riprende alcune parti del suo volume Suspen­sions of Per­cep­tion, uscito qual­che anno fa negli Stati Uniti e non ancora tra­dotto in Ita­lia e Fran­cia. La tesi di Crary è che il capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo è costretto a fare i conti con una «crisi per­ma­nente dell’attenzione», la quale ha comin­ciato a mani­fe­starsi già nell’Ottocento durante la seconda rivo­lu­zione industriale.

La crisi è permanente

È stato l’intensificarsi del pro­cesso d’industrializzazione a dare vita ad uno spa­zio urbano, sociale, psi­chico e indu­striale sem­pre più satu­rato di sti­moli sen­so­riali e a gene­rare pro­blemi come la neces­sità di man­te­nere ele­vate la con­cen­tra­zione della mente dell’operaio alla catena di mon­tag­gio e l’attenzione del con­su­ma­tore rispetto ad una pro­du­zione di beni sem­pre più abbon­dante. Tali pro­blemi sono stati affron­tati, ad esem­pio, con la sem­pli­fi­ca­zione tay­lo­ri­stica del pro­cesso pro­dut­tivo e con stru­menti come la pub­bli­cità e i mezzi di comu­ni­ca­zione, che hanno con­sen­tito alle aziende di fare arri­vare sem­pre nuove sol­le­ci­ta­zioni atten­zio­nali ai con­su­ma­tori. Non sono stati però risolti, per­ché, secondo Crary, nell’Ottocento il capi­ta­li­smo ha com­ple­ta­mente tra­sfor­mato il pro­cesso di per­ce­zione dei sin­goli, che hanno visto le loro espe­rienza carat­te­riz­zate da fram­men­ta­zione, disper­sione e vero e pro­prio choc. Dun­que, come d’altronde aveva già soste­nuto Wal­ter Ben­ja­min, nelle società capi­ta­li­sti­che si è sem­pre più impo­sto un pro­cesso di «rice­zione in stato di distrazione».

Ma Crary ha anche affer­mato che il capi­ta­li­smo tende a spin­gere ogni giorno in avanti i limiti dell’attenzione e della distra­zione, intro­du­cendo con­ti­nua­mente nuovi pro­dotti, nuove fonti di sti­molo e nuovi flussi d’informazione, ai quali ogni volta ten­tano di dare una rispo­sta nuovi metodi di gestione e rego­la­zione della per­ce­zione. Come ha mostrato Marx, infatti, il capi­ta­li­smo crea con­tem­po­ra­nea­mente le sue crisi e i modi per limi­tarne gli effetti, in un pro­cesso dia­let­tico con­ti­nua­mente attivo. Nelle società con­tem­po­ra­nee, dun­que, l’attenzione e la distra­zione si tro­vano in una situa­zione di perenne con­flitto simbolico.

Gli spet­ta­tori distratti

Crary ha sot­to­li­neato inol­tre come il modello dello spet­ta­colo crei le con­di­zioni per­ché i sog­getti ven­gano ad essere immo­bi­liz­zati e sepa­rati l’uno dall’altro, sep­pure all’interno di un mondo in cui domi­nano la mobi­lità e la cir­co­la­zione. Le nuove tec­no­lo­gie della comu­ni­ca­zione, infatti, con­ten­gono metodi di gestione dell’attenzione che ten­dono a incen­ti­vare la seden­ta­rietà e la dico­to­mia tra mente e corpo, anche se illu­dono i sin­goli pro­met­tendo inte­rat­ti­vità e una piena libertà di scelta.

Avendo impa­rato a tenere insieme l
’attenzione e la distra­zione dello spet­ta­tore, il modello dello spet­ta­colo con­ti­nua dun­que ad essere note­vol­mente impie­gato nelle società con­tem­po­ra­nee. D’altronde, pre­senta un ele­vato livello d’efficacia e ciò viene con­fer­mato dal suc­cesso che ottiene oggi per­sino un par­ti­co­lare tipo di spet­ta­colo come quello che è basato sulla sof­fe­renza umana. Tale spet­ta­colo è stato messo sotto osser­va­zione dal recente libro Lo spet­ta­tore iro­nico. La soli­da­rietà nell’epoca del post-umanitarismo (Mime­sis, pp. 230, euro 20), scritto da Lilie Chou­lia­raki, docente presso il Dipar­ti­mento di Media e Comu­ni­ca­zione della Lon­don School of Eco­no­mics, e curato da Pier­luigi Musarò. L’aspetto mag­gior­mente inte­res­sante di que­sto libro risiede nella scelta dell’autrice di foca­liz­zare la sua atten­zione soprat­tutto sugli aspetti comu­ni­ca­tivi e media­tici. E cioè di ana­liz­zare i cam­bia­menti avve­nuti negli ultimi decenni in Occi­dente per quanto riguarda le moda­lità con le quali le orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie hanno sinora comu­ni­cato la soli­da­rietà e l’umanitarismo.

Ciò ha con­sen­tito a Lilie Chou­lia­raki di vedere come negli ultimi anni ci sia stato un pas­sag­gio da una rap­pre­sen­ta­zione ogget­tiva della sof­fe­renza di altri popoli, pre­sen­tati come qual­cosa di lon­tano e sepa­rato, a una rap­pre­sen­ta­zione sog­get­tiva, che chiama diret­ta­mente in campo gli «occi­den­tali», invi­tan­doli a riflet­tere sulla loro con­di­zione. Si è svi­lup­pato cioè, come ha scritto Chou­lia­raki, «un pas­sag­gio da un’etica della pietà a un’etica dell’ironia». Il che ha voluto dire abban­do­nare una morale altrui­stica, dove la scelta di com­piere una buona azione verso chi ne ha biso­gno dipen­deva dal rico­no­sci­mento della comune con­di­zione umana di fra­gi­lità, per abbrac­ciare invece una morale indi­vi­dua­li­stica, dove invece la buona azione dipende dalle emo­zioni e dalle gra­ti­fi­ca­zioni per­so­nali che la per­sona può otte­nere. Ne deriva che la soli­da­rietà diventa «iro­nica», per­ché è moti­vata prin­ci­pal­mente dal pia­cere per­so­nale dell’individuo. Nasce per­tanto anche lo «spet­ta­tore iro­nico», che osserva con evi­dente disin­canto coloro che hanno biso­gno di aiuto e asso­cia l’azione rivolta al loro soste­gno ai bene­fici che ne può rica­vare in ter­mini di par­te­ci­pa­zione emotiva.

Il web dell’organizzazione

Que­sto cam­bia­mento dipende cer­ta­mente dai pro­cessi di tra­sfor­ma­zione in atto nelle società occi­den­tali, che si vanno facendo sem­pre più indi­vi­dua­li­sti­che, ma anche dal fatto che, come ha soste­nuto ancora Chou­lia­raki, la comu­ni­ca­zione della soli­da­rietà è andata pro­gres­si­va­mente modi­fi­can­dosi, in quanto si è media­tiz­zata, adot­tando pra­ti­che abi­tuali nel campo del mar­ke­ting azien­dale, come l’utilizzo di appelli, di cele­brità hol­ly­woo­diane, di con­certi rock e dell’informazione gior­na­li­stica. Inol­tre, l’uso sem­pre più intenso dei nuovi media in que­sto ambito, se da un lato ha per­messo alle per­sone di pra­ti­care azioni momen­ta­nee ma effi­caci di atti­vi­smo online, dall’altro ha pro­gres­si­va­mente mar­gi­na­liz­zato la voce delle per­sone biso­gnose, coperta da una forma nar­ci­si­stica di auto-espressione indi­vi­duale. D’altronde, come ha mostrato effi­ca­ce­mente Chou­lia­raki, sono le stesse stra­te­gie di comu­ni­ca­zione delle orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie che hanno abban­do­nato l’utilizzo di mes­saggi di soli­da­rietà per con­cen­trarsi su espli­citi inviti a «sco­prire cosa si prova» o comun­que a visi­tare il sito Web dell’organizzazione uma­ni­ta­ria. Cioè a con­fron­tarsi con il suo brand più che con la causa che si trova all’origine della solidarietà.

Insomma, Lilie Chou­lia­raki ha cer­cato di ren­dere i let­tori del suo volume con­sa­pe­voli dell’urgenza di porsi una domanda impor­tante e cioè se sia dav­vero neces­sa­rio tra­sfor­mare la soli­da­rietà in una forma di «spet­ta­to­ria­lità nar­ci­si­stica», come sta avve­nendo nelle società con­tem­po­ra­nee, o se invece sia pos­si­bile ten­tare di pra­ti­care nuovi modi di comu­ni­carla e viverla. Se cioè sia pos­si­bile evi­tare di ren­dere anche la sof­fe­renza un puro spettacolo.

Vanni Codeluppi
Fonte: www.ilmanifesto.info
24.12.2014


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