Chi ha paura del po...
 
Notifiche
Cancella tutti

Chi ha paura del popolo dei reality?


Tao
 Tao
Illustrious Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 33516
Topic starter  

È un fenomeno di successo che va interpretato. Come fa un romanzo di Sergio Bizzio

La fine, ieri sera, della decima edizione italiana del Grande Fratello ci induce a riflettere se sia il caso di arrenderci al suo evidente successo oppure fare come il romanzo dell'argentino Sergio Bizzio Reality (edizioni e/o, pp. 149, € 16,00) in cui un commando di terroristi dà l'assalto alla scena. Ma prima, facciamo un significatico passo indietro. Probabilmente, ha ragione Pierluigi Battista quando nel suo recente saggio I conformisti (Rizzoli), polemizza con la sinistra che usa l'allegoria del "Grande Fratello" come riflesso di un presente stato di controllo e direzione dei gusti per via mediatica. In realtà - gli ricorda il giornalista del Corriere della Sera - l'allegoria fu creata da George Orwell, nel suo romanzo 1984, per accusare un altro potere: quello stalinismo che la sinistra dichiara aver superato ma che ad occhi attenti appare piuttosto una rimozione di bella, ancorché poco convincente, maniera. Basta osservare la spocchiosità intellettuale che da certi ambienti duri e puri riservano a fenomeni mediatici di massa, primi fra tutti quei format che contemplano modalità residuali di consenso e democrazia partecipata attraverso il televoto. Intendiamoci: un surrogato resta un surrogato, e il televoto tale è, anche se di successo. Ma non è forse un fenomeno sul quale vale la pena soffermarci criticamente e cercare di capirlo, piuttosto che censurarlo dall'alto di non si sa bene quale superiore integrità morale e intellettuale? Sono proprio completamente rincoglioniti quegli italiani che, fra i sei e i dieci milioni a puntata, assistono e partecipano parteggiando e coinvolgendosi nelle vicende, per esempio, della madre di tutti i reality, che prende titolo appunto di Grande Fratello?

Il meccanismo del format è ultranoto e non conviene perdere tempo a riferirlo. Qualcuno lo ha paragonato alle tragedie greche, qualcun altro alle commedie di costume che tanto piacciono allo spettatore italico. A noi non pare nemmeno fuorviante un riferimento al mito della caverna platonica, dove la vita virtuale dei partecipanti, attori e spettatori, è solo il riflesso residuale della loro vita reale. Solo che sotto l'occhio della telecamera, non si sa mai dove finisce la recita virtuale e dove comincia l'autenticità dei personaggi in scena. Infatti, chi partecipa al Grande Fratello è un consumatore vorace di successo, di soldi ma, soprattutto, è un divoratore dell'apparire. Ma chi lo dice che l'apparire sia sempre matematicamente distinguibile dall'essere e che, come produttore di immaginario, sia meno efficace? Millenni di teatralità affermano esattamente il contrario. Prendiamo il caso di uno dei finalisti (mentre scrivo non so ancora chi sarà il vincitore, ma gli indizi portano a ritenere possa essere lui): il "maschilista" Mauro. Che lo sia veramente (maschilista) o ne reciti la parte è comunque difficile stabilire. Certo è che ha liberato l'istinto del maschio represso dal politically correct, riconsegnando all'immaginario collettivo il cliché dell'uomo che non deve chiedere mai. Non si spiega altrimenti il fatto che, puntualmente "nominato" dagli altri partecipanti della "casa", è sempre stato salvato dal televoto. Un ribelle contro le convenzioni lanciato a cuneo nelle contraddizioni del sistema? È un'ipotesi da non scartare, anche perché trova conferma nell'altro personaggio finalista: la cubista Veronica. Quella che, di primo acchito, si è offerta facile preda di tutte le fantasie erotiche, della casa e no. Putacaso, dopo aver fatto innamorare un po' tutti gli uomini del Grande Fratello, ha finito per stringere il patto più forte con un'altra concorrente, Sara. Insieme hanno fatto valere le loro ragioni, fingendo virtualmente (o vivendo realmente?) un amore saffico. Un'altra ribelle agli stereotipi premiata con l'ammissione alla finale.

Ora, qualcuno potrebbe obiettarmi che attribuire a un maschilista e a una lesbica, per di più nel rango di un reality, il ruolo dei ribelli è una caduta di stile. E lo è, se ci atteniamo ai canoni classici in uso per definire quella tipologia (del ribelle). Ma non è detto che il canone classico sia valido a interpretare tutto e tutti una volta per sempre. La settimana scorsa, per esempio, sempre su queste pagine, abbiamo fatto i conti con una nuova definizione di ribelle: si tratta di quella compresa nel saggio collettaneo Il potere delle minoranze (edizioni Mimesis, 2010) curato dal sociologo Massimo Ilardi. È - la sua - una figura di "ribelle" che non contesta più il consumismo ma converte il consumismo a leva contro le leggi imposte dal mercato. Il sociologo urbano dell'Università di Urbino, pur non affrontando direttamente la questione dei reality, offre una chiave utile per analizzare il potere del consumo e del desiderio ribellistico che da questo può scaturire. È una chiave che abbiamo anche contestato ma che fa rientrare di fatto i finalisti dell'ultimo Grande Fratello in questa categoria: ribelli che usano il consumo - del format televisivo e dei loro stessi personaggi - per costruire immaginario, linguaggio e simbolica contro gli stereotipi del "politicamente corretto".

C'è comunque questo nuovo romanzo, Reality. Assalto al Grande Fratello di Sergio Bizzio, che adesso in tal senso, offre ulteriori spunti di riflessione. L'autore argentino - che è anche giornalista, autore televisivo e regista cinematografico - immagina appunto un attacco terroristico al Grande Fratello del suo Paese. E mette a confronto due mondi: quello dell'audience e quello dell'integralismo islamico. Non temete: non si tratta di banale propaganda islamofobica. Il gioco dichiarato fin dall'incipit è un altro: «Se quello che segue verrà letto come un romanzo, allora conviene dire subito che i terroristi entrano nella sede della rete televisiva con un luogo comune: mettendola a ferro e a fuoco». E invece, no: una volta che il commando entra dentro la rete televisiva, la principale del paese, lo scontro tra i due schieramenti è, sì, totale, ma totalmente altra è la linea dell'impatto: «Fu - scrive l'autore - uno scontro tra l'Audience e il Corano. Per i talebani quello che dice il Corano è buono, e quello che il Corano non dice è cattivo. Per i produttori televisivi la faccenda funziona allo stesso modo: quello che fa audience è buono, quello che non fa audience è cattivo». Ad un certo punto, insomma, questi due mondi, che pure sono o dovrebbero essere antitetici, si incontrano. I terroristi iniziano a scrivere i dialoghi dei partecipanti al Grande Fratello portando le persone, ancora dentro la casa, a svelare falsità e meschinità che fino a quel momento erano state opportunamente dosate dai veri sceneggiatori. E i veri sceneggiatori, pur di "cavalcare la tigre" dell'audience, diventeranno veicolo delle istanze dei terroristi, in una gara fra irriducibili integralismi. Il romanzo, ancora, forzando la realtà in funzione letteraria ci svela come il confine fra vero e falso, fra reale e virtuale, fra attori e spettatori, fra chi consuma chi e da cosa è consumato, in quel gioco di specchi opposti e riflessi che sono i reality show, sia assai incerto. Tanto da produrre scarti interpretativi multipli dentro i quali si individuano due possibilità di rilievo diametrale: rifiutare qualsiasi interpretazione e bollare tutto come luogo della cosiddetta decadence borghese, come fanno i nostalgici della presa definitiva del Palazzo d'Inverno o cavalcarne le modalità utili alla rivolta permanente come fanno i cavalieri per l'avanzata dei diritti civili. Fra questi ultimi possiamo ricordare i protagonisti di due episodi di segno politico (apparentemente) opposto (almeno continuando a rifarci alle vecchie etichette ideologiche). Il primo, quando (era il 21 gennaio di due anni fa) i militanti del Coordinamento per il Mutuo Sociale e del movimento delle Osa (Occupazioni a
Scopo Abitativo) fecero irruzione nella "casa trasparente" allestita a Ponte Milvio dalla produzione del Grande Fratello, per protestare contro l'emergenza abitativa, contrapponendo la casa come diritto alla casa immaginaria divorata dalla pubblicità e dal voyeurismo. E il secondo, quando Vladimir Luxuria partecipò, vincendo, all'Isola dei famosi (era l'edizione del 2008), facendo conoscere agli italiani una identità sessuale su cui pesavano e continuano a pesare ignoranza e pregiudizio. Tutto ciò non basta certo a salvarci dalle ore e ore di banalità, piagnistei, amori, tradimenti, coatterie e trivialità varie profuse in diretta o per selezione di riassunto settimanale. Ancor di più: non serve per salvarci dall'illusione che il massimo dell'esercizio democratico possa consistere nella possibilità di fare vincere o eliminare qualcuno con il televoto che - lo dicevamo all'inizio - resta un surrogato di una sana democrazia realmente partecipata.

Quello che possiamo farne è un uso diverso e antitetico rispetto al progetto che li ha concepiti. Ed è su questa ipotesi che l'analisi va approfondita. Gli storcimenti di naso dei conservatori perennemente afflitti dai mali della (post)modernità, invece, non servono a niente.

Miro Renzaglia
Fonte: http://www.secoloditalia.it/publisher/In%20Edicola/section/
9.03.2010


Citazione
Truman
Membro Moderator
Registrato: 2 anni fa
Post: 4113
 

Dissento da molto di quanto viene detto, in particolare per una certa ammirazione per il Grande Fratello embedded nel post.

Sgombriamo intanto il campo dagli errori: se il GF è ancora è un successo in Italia, in Gran Bretagna ha chiuso. Quindi lì dove il format era cominciato, si è consumato prima.

Sgombriamo poi l'altra idea che sia un successo: per ora rende bene commercialmente, ma il successo commerciale non può essere l'unico metro per valutare uno spettacolo, in particolare nella situazione italiana dove tutti gli argomenti interessanti sono tabù in TV.
Il lager di Gaza, il signoraggio bancario, la Costituzione usata come carta igienica sono solo alcuni di tali temi.

Il successo del Grande Fratello è quindi basato sul disastro mediatico, sul fatto che in TV non si può più dire niente di vero.

Il reale viene sostituito dal real-time: la differenza non è da poco. Ci si disinteressa del mondo ma si vuole merce fresca, infotainment costruito direttamente sotto gli occhi dello spettatore.
Ma non basta, allo spettatore bisogna dare anche potere. Il miglior modo per mantenere il potere vero è dare alle masse un potere del tutto irrilevante.
Nell'antica Roma il popolo andava al Colosseo a vedere i giochi circensi ed alla fine degli scontri tra gladiatori votava con il pollice: pollice su per salvare la vita allo sconfitto, pollice giù per lasciarlo morire.
In modo analogo il pubblico partecipa ai giochi circensi di oggi e vota su chi escludere dal reality.
Non casualmente, il periodo in cui i giochi circensi erano al massimo è abbastanza sovrapponibile con il disfacimento dell'Impero romano.


RispondiCitazione
Condividi: