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DeLillo


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Qualche mese fa Tommaso Pincio sul Manifesto faceva il punto sulla produzione di romanzi americani sull’11 settembre (Updike, McEwan, Kalfus, DeLillo, Massud, McInerney, Safran Foer…), concludendo più o meno che il tentativo di scrivere qualcosa di realistico – a partire da una tale overdose di Reale – si rivelava, anche per scrittori di indiscusso talento, un po’ fallimentare. Mentre Pincio riteneva più convincenti due libri come L’accademia dei sogni di William Gibson e la fiaba apocalittica La strada di Cormac McCarthy, che sceglievano di usare gli strumenti della letteratura per contrapporsi direttamente all’immaginario dell’11 settembre (lo scenario di paura e devastazione) e non al suo dato di evento storico. La questione era sintetizzata da una battuta di Martin Amis, che, all’indomani dell’attentato, aveva dichiarato: “il 12 settembre, dopo essere stati un paio d’ore seduti alla scrivania, tutti gli scrittori della Terra avevano considerato, seppure controvoglia, la possibilità di cambiare mestiere”. Ossia: è morale una narrativa di finzione di fronte a una catastrofe? Che senso ha scrivere storie?
Ma l’attentato alle Torri, lo faceva già notare Žižek in Benevenuti nel deserto del reale, sancisce una più profonda sconfitta della nostra capacità di creazione simbolica: incarnando perfettamente il peggiore degli incubi, è come se in un istante avesse reso l’indicibile del desiderio dell’Occidente “assolutamente espresso” – come, la metafora esatta è sempre di Žižek, se vedessimo un rapporto sessuale da una telecamera piazzata all’interno della vagina.

La potenza degli attentatori era stata proprio quella. Non: cosa poteva ora accadere di più spaventoso? Ma: cosa poteva immaginarsi ora di più spaventoso, di più toccante, di più reale? L’impasse della letteratura si scontrava con la capacità magnetica delle immagini in loop degli aerei che secavano le torri, o anche con l’incanto per la visione di quegli uomini (più di 200) che si lanciarono nel vuoto per trovare scampo dalle fiamme. Da quest’incantamento, probabilmente, parte il tristissimo romanzo di Don DeLillo L’uomo che cade – così si intitolava anche una famosa fotografia di Richard Drew che immortalava uno di quei tuffi nel vuoto.

La ambizione, forse liberatoria, sicuramente non catartica, che DeLillo fa propria in questo libro (Einaudi, 17,50 euro, traduzione magnifica di Matteo Colombo) è quella di dar conto fino in fondo a quest’impasse. Dopo aver creato, nei decenni (da Americana a Underworld), un’impareggiabile descrizione della fascinazione per una metafisica dei simboli vuoti – la parabola del fedele Lee Oswald di Libra coinvolto nella Storia forse solo per un caso astrologico; o le splendide metafore di Rumore bianco, dal fienile più fotografato d’America alla pillola che toglie la paura della morte; o la comprensione sorprendente dei meccanismi umani che animano il fanatismo o l’attrazione per i complotti (in Nomi, in Mao II) –, DeLillo cerca in questo romanzo di distruggere le sue stesse armi mitopoietiche. Esplicita la crisi non della letteratura in generale, ma della sua propria scrittura, per dimostrarla ancora capace di essere un “esperimento di familiarizzazione con l’alterità traumatica”, come la definisce il bellissimo libro di Daniele Giglioli sulle narrazioni del terrorismo, All’ordine del giorno è il terrore.

Ci riesce? Quasi del tutto: solo le parti sui kamikaze peccano di astrazione. Come ci riesce? Con un rigorosissimo stile di retorica dell’antiretorica, o meglio della pre-retorica. Quasi volesse accedere a quello che Lacan chiamava l’inconscio del linguaggio. Dei personaggi de l’Uomo che cade non ci interessano per nulla le azioni, ma l’infinita vertigine dei pensieri. E soprattutto questi personaggi superstiti sembrano fare un corso riabilitativo di semantica: soffrono di forme di amnesia, sbagliano parole in continuazione, frequentano laboratori di scrittura che paiono sedute di alcolisti anonimi, contano i numeri come esercizio contro l’ansia. Ogni loro azione è pervasa dal dubbio del significato: darsi appuntamento con una donna che non è tua moglie vuol dire tradire? dire a tuo figlio che gli aeroplani, il cui arrivo sta aspettando con il binocolo, non arriveranno vuol dire rassicurarlo?

L’altra narrazione, quella della naturalistica codificazione simbolica, è sempre in agguato, e ci porterebbe ancora una volta a toglierci la possibilità di guardare la Medusa, “la verità mostruosa” come la definisce sempre Žižek nella Fragilità dell’assoluto. Ma, se ci fidiamo di DeLillo, c’è una pagina in cui lui stesso ci mette in guardia. Eccola: Keith sta vagando nel deserto inspiegabile, tra i palazzi intorno alle Twin Towers, deserti appena dopo il crollo e DeLillo scrive: “Nella versione cinematografica, all’interno dell’edificio ci sarebbe qualcuno, una donna emotivamente fragile o un vecchio senzatetto, e ci sarebbero dialoghi e primi piani”. Qui non c’è più niente di tutto questo.

Christian Raimo
Fonte: www.nazioneindiana.com
Link: http://www.nazioneindiana.com/2008/03/06/delillo/#more-5457
5.03.08


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