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Il cavallo di troia:il mito e l' America


Anonymous
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"Ecco finalmente la guerra di Troia veduta da un americano": così comincia la Nota del traduttore del libretto di Christopher Morley (1890-1957). Il cavallo di Troia. Il traduttore è Cesare Pavese che prosegue (cit): Il campo di battaglia è come un campo di calcio; i guerrieri la sera fanno la doccia e discorrono con l' allenatore; i tassi arrancano alla volta del locale notturno dove suona l' orchestra dei Myrmidon Boys; la radio sbraita nelle case e sulle piazze le ultime notizie di ciò che succede fuori dalle mura; i Greci stringono il blocco, gli economisti crollano il capo e uno di loro, il dottor Calcante, passa al nemico, avendo letto nei suoi grafici che la partita è perduta!. (fine cit)
Ne Il cavallo di Troia (1937) i noti personaggi della leggenda vivono in una grande metropoli dove sono riconoscibilissimi i tratti della società americana anni Trenta. Spassoso il dibattito che i saggi di Troia conducono sul dono ricevuto dai Greci, dagli "Europei". Il cavallo, enorme e ingombrante, viene considerato un espediente pubblicitario, per Pandaro addirittura un pericolo per il turismo, a causa dei danni che potrebbe arrecare "al nostro bel paesaggio troiano".
Più drammatica la descrizione dei combattimenti. Lo scritto, uscito in piena guerra di Spagna, sembra anticipare gli orrori di un conflitto in cui molti centri urbani diverranno sinonimo di battaglie e massacri spaventosi: Stalingrado, Dresda, Hiroshima.
Non manca il sarcasmo nelle fasi finali di IIio raccontate da un cronista radiofonico, CNN ante litteram. Ma il frastuono di vetri infranti, le sirene spiegate, il caos della fuga disperata, riconducono la scena al fatto della distruzione della città. Rimane il turbamento amaro di vedere all' opera lanciafiamme e armi chimiche lanciate dal cavallo, frutto dell' ingegno di Ulisse. Un destino reale che ci conduce a quegli ordigni distruttivi che oggi, con lo stesso gusto del paradosso, vengono definiti "intelligenti".


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