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IL PRIMATO DELLA “PESHITTA”


Affus
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IL PRIMATO DELLA “PESHITTA”
DI DARIO BAZEC

CRITICA ALLA PRESUNTA RICOSTRUZIONE

DEL TESTO ARAMAICO DEI VANGELI

PARTE
PRIMA
Premessa
Recentemente è uscito il libro “La vita di Gesù
nel testo aramaico dei Vangeli” di José Miguel Garcia.

L’autore
afferma di essere riuscito a ricostruire il testo aramaico dei Vangeli
partendo dal testo greco degli stessi. Com’è noto, la maggioranza degli
studiosi di Sacra Scrittura afferma che non solo il testo originale dei
Vangeli, ma anche quello di tutto il Nuovo Testamento è stato scritto
in greco. Però notoriamente il testo greco del Nuovo Testamento
presenta non poche incongruenze, fra le quali le più evidenti sono la
presenza di numerosi semitismi, ebraismi e aramaismi che mal si
conciliano con il greco classico, ma anche con quello “koiné”.

José
Miguel Garcia ha ritenuto opportuno cimentarsi nella ricostruzione di
un testo aramaico, che, secondo lui, sarebbe alla base di quello greco.
Quest’ultimo altro non sarebbe che una traduzione del primo, che Garcia
ha trovato. Così l’autore, una volta trovato il testo originale, non ha
fatto altro che tradurlo in lingua moderna, affermando di essere
riuscito a risolvere le incongruenze e, secondo lui, anche alcuni
errori di traduzione dall’aramaico al greco.

Un lavoro inutile. Questo
è il minimo che si può dire in prima battuta, a proposito del libro di
Garcia. Perché il testo aramaico, per essere compilato, non ha
aspettato duemila anni. Ci avevano già pensato i cristiani della Chiesa
delle origini. Tale testo aramaico, altro non è che la “Peshitta”,
coevo al testo greco, com’è dimostrato dal “Diatessaron” di Taziano il
Siro.

In questa prima parte mi limiterò innanzi tutto a criticare
alcune affermazioni di Garcia, che hanno destato non poche perplessità.
In secondo luogo, oltre a entrare nel merito sul primato della
“Peshitta”, cercherò di ricostruire l’ambiente culturale del I sec. d.
C. Infine, ritengo opportuno allegare tre appendici, per meglio
spiegare alcuni argomenti.

Nella seconda parte, mi soffermerò su
alcune particolarità relative ai diversi capitoli del libro citato.

Introduzione

La critica di questa prima parte si fonda soprattutto
su alcune affermazioni di Garcia contenute nella “Prefazione”. Perciò è
opportuno riassumere per sommi capi quanto l’autore scrive in questa
prima parte del suo libro. Per il momento ritengo che quanto segue sia
sufficiente a inquadrare questo lavoro :

1. Il testo
non è un prodotto della sua fantasia, ma deriva dall’originale aramaico
che ha ricostruito partendo dalle anomalie contenute nel testo greco.

2. In molte occasioni la sua ricerca è stata lenta e
faticosa, ma è sicuro di aver raggiunto l’obiettivo contando sulla
coerenza del testo, partendo dalle imperfezioni di quello greco.

3. La scrittura semitica e le copie fatte a mano
favorivano una lettura errata e quindi una comprensione inesatta del
testo scritto.

4. Siccome l’ebraico e l’aramaico sono
scritture consonantiche, senza trascrizione di vocali, le stesse
consonanti potevano indicare parole diverse, tenendo anche conto che la
somiglianza di alcune lettere e la separazione non molto precisa delle
parole poteva provocare errori di lettura.

5. La
polivalenza di significati, i fenomeni sintattici e le caratteristiche
tipiche di ogni linguaggio erano altrettante pietre d’inciampo, perciò
ci sono state delle difficoltà per tradurre dall’aramaico al greco per
un uomo di cultura greca.

6. Non è stato né ora né
mai il suo principale interesse a dimostrare che i vangeli o le loro
fonti fossero in origine aramaiche.

Osservazioni

1. Il prof. Garcia asserisce di aver ricostruito l’
originale aramaico partendo dalle anomalie contenute nel testo greco.
Come ciò sia possibile non si riesce proprio a capirlo. Innanzi tutto
Garcia non specifica quale sia l’aramaico di riferimento. Giustamente
nell’articolo citato del “Giornale” (13.05.2005) si parla di
“aramaici”. Ma un tanto Garcia non lo dice. Infatti, ai tempi di Gesù,
ma anche prima e dopo, esistevano varie forme di aramaico e quello
usato da Gesù e dagli apostoli era l’aramaico galilaico. La prima
lettura della domenica di Pentecoste, tratta dagli “Atti degli
Apostoli”, a un certo momento dice: “Costoro che parlano non sono forse
tutti Galilei?” (At 2, 7). La parlata dei Galilei era inconfondibile:
essi omettevano di pronunciare tutte le lettere gutturali, come ad
esempio aveva detto Gesù, “Effata”, quando guarì il sordomuto. La
pronuncia corretta era “Effatah”, dove la “h” finale corrisponde alla
“j” di “Juan”. Come poi si possa ricostruire da un testo anomalo un
testo originale corretto questo è proprio incomprensibile: “Latius hos
quam praemissae conclusio non vult”. La conclusione non può essere più
ampia delle premesse. Se il testo greco è anomalo, sarà pure anomala
anche la ricostruzione del testo originale.

1.1. E’ ben
vero che molti studiosi si sono cimentati a ricostruire testi perduti,
dei quali erano rimaste soltanto delle traduzioni. Un esempio per
tutti: Paul Viereck nel 1886 pubblicò una tesi in cui asseriva di avere
ricostruito l’originale latino di diversi “Senatusconsulta” tramandati
in traduzione greca, e dei quali il testo latino era scomparso. Ma
Viereck aveva molti parametri di riferimento di cui servirsi. Ad
esempio, la redazione dei “Senatusconsulta”, a parte la materia
trattata, aveva uno schema ripetitivo. Quindi c’era un’altissima
probabilità di poter ricostruire il testo esatto. E ciò anche perché è
sufficientemente noto il lessico greco-latino dell’epoca. Il problema
che invece pone Garcia è completamente diverso. L’aramaico è stata una
lingua che si è arricchita nel tempo. L’aramaico di Babilonia di Esdra
e Daniele è diverso da quello giudaico di Gerusalemme, da quello
galilaico, dal mandaico, ecc. E’ vero che la struttura fondamentale
della lingua rimane invariata, ma da una località all’altra si hanno
arricchimenti di lessico, variazione di espressioni che non rendono una
parlata omologabile all’altra. Ma anche il greco è variato nei secoli.
E’ noto a tutti che il greco neotestamentario non è il greco attico.
Anche in questa lingua la struttura è rimasta fondamentalmente
invariata, ma ci sono state anche in essa dei cambiamenti che non la
rende identica alla lingua di origine. E quali allora sono le esatte
corrispondenze lessicali tra il greco “koiné” e l’aramaico parlato da
Gesù?

2. Garcia asserisce che la sua ricerca è stata
lenta e faticosa. A questo mi permetterei di aggiungere che è stata
anche “inutile”. Inutile è stata infatti, perché il testo del Nuovo
Testamento completo in aramaico esiste già e da secoli e può vantare la
stessa anzianità di quello greco. Trattasi della “Peshitta”, il Nuovo
Testamento scritto in aramaico, nella sua variante siriaca. Che la
“Peshitta” sia antica lo si deduce dal “Diatessaron” di Taziano il Siro
(Siro lo chiama Berthold Altaner nel suo noto testo di “Patrologia”,
più vecchio di
me, ma ancora in circolazione). Secondo Altaner il
“Diatessaron” di Taziano fu scritto in base a testi già preesistenti.
Si discute se tale autore abbia scritto prima in greco e poi tradotto
in siriaco o viceversa. A parer mio la discussione non si risolverà
mai. Infatti la scrematura operata dalla storia è stata particolarmente
accentuata in relazione a molti eventi e quindi è molto difficile
ricostruire tutti i passaggi avvenuti nella trasmissione dei testi. Il
“Diatessaron” s’intitola nel testo siriaco “Euangelion da-Mechallete”,
cioè “Il Vangelo dei misti”, o meglio “I Vangeli misti”. Nel V sec.,
Rabbula, vescovo di Edessa, ordinò che i Vangeli fossero separati,
ossia ordinò che fosse compilato il testo dell’ “Euangelion da-
Mepharreshe”, i Vangeli separati. Secondo Altaner questa separazione
non fu senza conseguenze per la redazione finale dei Vangeli. Tuttavia
se Rabbula ordinò la divisione dei testi, vuol dire che per tradizione
i testi separati esistevano già. Inoltre, come S. Girolamo fece la
revisione, sulla base del testo greco, del testo latino già esistente
(“Itala” e “Vetus Latina”), anche Rabbula effettuò la stessa operazione
per la “Peshitta”. In ogni caso si trattò di una revisione e non di una
traduzione. Nonostante le revisioni fatte, in alcuni brani, si possono
riscontrare diverse differenze tra la “Peshitta” e il testo greco. Ad
esempio, nella Lettera ai Romani, dove traducendo dal testo greco si
legge “del Giudeo prima e poi del Greco” (cfr. Rm 1, 16 e altri), dalla
“Peshitta” risulta invece “del Giudeo prima e poi dell’Arameo”. Qual
era il vero originale? Altri due esempi, Timoteo e Tito erano
rispettivamente figli di padri aramei e non greci. Qui si potrebbe dire
pilatescamente: “Quid est veritas?” (Cfr “Appendice n. 1).

3. Più sopra avevo esposto in sei punti i capisaldi
criticabili di ciò che scrive Garcia, seguendo l’ordine in cui si
presentano nella “Prefazione” del libro. Però le osservazioni dei punti
da 3 a 5 è meglio farle partendo dall’ultimo punto. Garcia fa osservare
quali fossero state le difficoltà a capire il testo aramaico per un
uomo di cultura greca. In effetti non c’era alcuna difficoltà, perché a
un uomo di cultura greca non gliene fregava assolutamente nulla di ciò
che dicevano la Bibbia o i Vangeli. Basta leggere dagli Atti degli
Apostoli quale fu il risultato dell’annuncio di Paolo all’Areopago di
Atene (cfr. At 17, 19-34). Certo ci fu qualche adesione, ma molto
piccola. Non è ancora chiara quale fosse la distribuzione linguistica
dei convertiti al cristianesimo, né penso sarà mai possibile fare una
statistica abbastanza esatta di tale diffusione. L’unica cosa che ci è
noto è che a Gerusalemme c’erano decine di migliaia di Giudei credenti
e attaccati alla Torah (cfr. At 21, 20). In ogni caso era ben difficile
che un nativo greco conoscesse l’ebraico o qualche forma di aramaico.
E’ vero invece il contrario: alcuni Ebrei e Aramei conoscevano il
greco, però non sempre in modo perfetto. Sono rari i casi come quello
del siro Luciano di Samosata che scrisse in greco, in modo da essere
considerato uno scrittore greco, benché fosse di nascita arameo. Le
considerazioni di questo paragrafo sono quanto mai opportune per
accertarsi dell’anfibolia del concetto “uomo di cultura greca”. Egli
può essere un greco colto o un ebreo o arameo che conosce bene il
greco. Ma “uomo di cultura greca” può essere anche chi, nei casi
possibili considerati, pratica e assimila i costumi pagani, che
ovviamente stridono alquanto con la rivelazione divina.

3.1. In realtà, a cominciare con la traduzione dell’Antico
Testamento dei LXX fino alla diffusione del Vangelo nell’Impero Romano,
furono gli Ebrei e gli Ebrei-Cristiani a diffondere la rivelazione nel
mondo di allora. L’insegnamento e la vita di Gesù furono tradotti in
greco da Ebrei-Cristiani che conoscevano bene la lingua dello stesso
Gesù, perché era la loro lingua nativa. Perciò non è possibile che ci
sia stata una lettura inesatta del testo o quanto meno un’
incomprensione letteraria della predicazione di Gesù. D’altro canto
bisogna ricordare che per tradurre un testo non è necessario averlo
compreso in tutti i sensi, anche quello spirituale. Un esempio per
tutti: il noto professore Concetto Marchesi, non credente, fece una
bellissima traduzione del testo greco del Vangelo di Giovanni. Il
problema è in realtà un altro: fino a che punto è traducibile, parola
per parola, un testo semitico in un testo in una lingua indoeuropea,
come il greco? Significativo in proposito è il fatto che Jacob, vescovo
di Edessa, nel VII sec. d. C., compilò una “Grammatica siriaca”, in
quanto non era sufficiente il lavoro di Sergio di Ras‘ain. Quest’ultimo
un secolo prima, aveva tradotto dal greco l’opera di Dioniso il Trace,
l’ “Ars grammatica”. Se ciò che fece Sergio era un buon lavoro,
tuttavia si trattava pur sempre di una grammatica greca, anche se
tradotta in siriaco. E ciò non bastava a spiegare la struttura della
grammatica siriaca.

4. A questo punto è opportuno
fare qualche riflessione sul problema delle traduzioni. E’ noto che in
italiano si dice “tradurre tradire”. Questo breve aforisma è ormai di
dominio mondiale da quando l’“Encyclopaedia Britannica” l’ha inserito,
proprio in italiano, come conclusione di tutta la problematica della
traduzione. In effetti non tutti i testi sono facilmente o esattamente
traducibili da una lingua all’altra. In linguistica si dice che non
esiste sempre l’esatta sinonimia tra le parole di una lingua e quelle
dell’altra lingua, come viene riportata nei dizionari. Sul problema
della traduzione si sono impegnati i grandi pensatori, letterati e
linguisti di questi ultimi secoli.

4.1. La questione è
antica; essa poi ha un rilievo particolare soprattutto per ciò che
riguarda la traduzione della Bibbia. I testi scientifici e quelli
matematici possono più facilmente essere trasferiti da una lingua all’
altra perché il mondo sensibile o il rigore logico, seppure con una
certa difficoltà, sono esprimibili in una lingua o l’altra senza errore
di comprensione. Le difficoltà cominciano dai testi filosofici, perché
i concetti espressi dai pensatori di ogni epoca sono strettamente
collegati alla cultura in cui sono vissuti, perciò è necessario capire
qual era il mondo culturale di ogni filosofo per comprendere ciò che
diceva.

4.2. Per la Bibbia, oltre all’esistenza dei
problemi precedenti, se ne assomma ancora un altro. Coloro che sono
stati prescelti da Dio per trasmettere la rivelazione, come hanno
ricevuto la rivelazione stessa? Non è un problema di poco conto, per
nulla risolto, nonostante l’ottimismo di molti studiosi. Anche se è
stato detto che Dio non ha dettato parola per parola ciò che è scritto
nella Bibbia, la sostanza non cambia. Perché si tratta di sapere come
Dio si è rivelato a ciascun prescelto e il modo come lo stesso ha
espresso le verità comunicate da Dio. E anche interessante sapere il
tempo in cui è avvenuta la rivelazione e per quanto tempo la stessa è
durata. Ad esempio Paolo ha ricevuto in un istante ciò che agli altri
apostoli Gesù ha insegnato per tre anni e mezzo. E qui nasce il
problema della scelta delle parole per esprimere il messaggio divino.
Coloro ai quali Dio si è rivelato direttamente, esprimono il messaggio
ricevuto secondo il linguaggio proprio del loro tempo e in ogni caso
nella loro lingua materna. Perché solo in essa si ha la piena
padronanza dei concetti e di tutte le forme letterarie e linguistiche
tipiche. Un esempio per tutti: è noto che Giovanni Paolo II sapeva
molto bene diverse lingue, però tutti i suoi testi li scriveva
direttamente in polacco e poi li faceva tradurre da esperti
traduttori.

4.3. Sappiamo che la lingua materna degli
agiografi dell’Antico Testamento era l’ebraico e in alcuni libri, come
Esdra e Daniele, anche l’aramaico. Inoltre sappiamo con certezza che
Gesù ha predicato in aramaico. D’altro canto fin dall’antichità si è
presentato il problema della traduzione della Bibbia, perché l’ampia
diffusione degli Ebrei nel bacino del Mediterraneo e nel Medio Oriente
aveva fatto acquisire agli stessi altri linguaggi, come il greco e l’
aramaico, talvolta con la dimenticanza dell’ebraico. Da ciò la
necessità di tradurre tutto l’Antico Testamento in greco e
rispettivamente in aramaico. Ora è noto, ed è una regola generale, che
la traduzione da una lingua madre a una lingua acquisita, e comunque da
una lingua ad un’altra, per essere accettabile, richiede almeno tre
requisiti: la piena conoscenza della lingua da cui si traduce, la piena
conoscenza della lingua in cui si traduce e infine la padronanza degli
argomenti che si traducono. Da quanto detto fin qui schematicamente,
senza pretese di teoria linguistica, ne discende che l’opera di
traduzione non può essere fatta da chiunque, ma da persone che hanno
una cultura appropriata e una particolare competenza.

4.4.
La questione prospettata da Garcia sulla polivalenza di significati, i
fenomeni sintattici e le caratteristiche tipiche di ogni linguaggio,
erano pietre d’inciampo fino a un certo punto. Perché un traduttore ben
preparato le sa risolvere in modo adeguato. E ciò può avvenire in modo
coerente, specialmente quando chi traduce è contemporaneo o in ogni
modo non molto distante temporalmente dal periodo in cui il testo
originale è stato composto. Certamente la traduzione da una lingua a un’
altra può essere fatta in qualsiasi tempo, anche a notevole distanza
temporale da quando fu scritto l’originale, però le difficoltà crescono
sempre più. Infatti man mano che ci si allontana dal tempo della
composizione del testo la traduzione diventa più difficile, perché col
tempo muta l’ambiente culturale ed è difficile ricostruire quello
antico, pur conoscendo bene le lingue di allora. A titolo di esempio,
basta soltanto osservare quante traduzioni sono state fatte della
Bibbia in lingua italiana in questi ultimi sessant’anni. Certamente
molti testi antichi sono stati tradotti da una lingua all’altra, come
ad esempio il lavoro di Paul Viereck. C’era però sempre chiarezza sulla
lingua dalla quale si traduceva e la lingua di arrivo. Ma ciò che dice
Garcia è invece frutto di pura invenzione. E ciò per un motivo molto
semplice. Pur partendo dal testo greco, che egli dà per noto, non è
chiaro il punto di arrivo, cioè a quale letteratura aramaica faccia
riferimento. E questo è un motivo di non poco conto. Perché esistono
diverse forme di aramaico, tutte assurte a livello di lingua. Così dall’
aramaico imperiale, quello dell’Antico Testamento, si va a quello
giudaico, galilaico, mandaico, palmireno, e infine alla variante
siriaca. Si ritiene che il centro da cui si diffuse il siriaco sia
stata la città di Edessa. Strutturalmente le varianti sono abbastanza
simili, però in concreto non sono intercambiabili. Il quesito che qui
ci si deve porre è invece un altro: come mai i Vangeli, che sono stati
predicati in aramaico galilaico, hanno avuto la loro prima redazione
scritta in siriaco? Tra la Galilea ed Edessa ci sono circa 600 km. Come
mai allora fu scelto un linguaggio che si parlava in una località così
distante? O forse, invece il siriaco, almeno a livello colloquiale, era
molto più diffuso di quanto si creda?

5. La questione
relativa alla polivalenza di significati, in altre parole la polisemia,
è comune a tutte le lingue. Per esprimere la realtà esteriore, ma
soprattutto quella interiore, esiste un’infinità di sfumature, che
nessun vocabolario può contenere. A maggior ragione ciò vale quando per
un agiografo si è presentato il problema di esprimere una realtà
divina. Ecco quindi che è stata necessaria la formulazione di modi di
dire, parabole, metafore, esempi, ecc., proprio perché il numero per
quanto grande di parole disponibili non è sufficiente ad esprimere
tutto. Tuttavia ciò non sempre costituisce un pietra d’inciampo, quando
si tratta di tradurre da una lingua a un’altra. Certamente non sempre c’
è sinonimia tra un termine della prima lingua e un termine della
seconda. Ma qui sta la maestria del traduttore, che può sempre
ricorrere a calchi, a prestiti linguistici, a perifrasi, ecc. E’ ben
noto che il Nuovo Testamento greco abbonda di questi termini nuovi, che
molte volte sono classificati come aramaismi, ebraismi e semitismi, ma
anche latinismi.

6. Le obiezioni di Garcia riportate
ai punti n. 3 e n. 4 sono del tutto inammissibili. Qui l’autore vuole
giustificare il suo assunto, di errori di traduzione, asserendo che la
scrittura consonantica poteva dar luogo a degli equivoci perciò si
poteva sbagliare di capire il senso del testo. Questo tipo di discorso
si può fare a delle persone che ignorano completamente le lingue
semitiche, approfittando della loro non conoscenza della materia. Si
tratta in altri termini delle cosiddette parole omografe. Si può citare
qui un caratteristico esempio delle parole ebraiche “dabar” e “dibber”.
Entrambe si scrivono con le stesse consonanti: DBR. Però “dabar”
significa “parola” e “dibber” “egli parlò, egli disse”. Ora anche un
principiante sa distinguere un significato dall’altro se non altro dal
contesto della frase, e credo che nessuno confonderà un sostantivo con
un verbo. Se poi chi traduce da una lingua semitica a un’altra lingua,
e parla quella lingua semitica fin dall’infanzia, sicuramente non
prenderà “fischi per fiaschi”. La faccenda delle lettere simili, ad
esempio “dalath” e “resh”, per i motivi sopra esposti, non costituisce
alcun problema. Garcia poi asserisce che non c’è una separazione molto
precisa tra le parole, per questo ci furono degli errori di lettura. Ma
Garcia si è preso almeno la briga di guardare, non dico gli originali
dei testi del Mar Morto, coevi al tempo di Gesù, ma almeno qualche
riproduzione fotografica? Le parole sono separate una dall’altra,
eccome.

7. Vediamo ora il punto n. 6. Garcia afferma
che non è stato mai suo interesse dimostrare che i Vangeli o le loro
fonti fossero aramaiche. Ma allora perché si è dato tanto da fare per
ricostruire quel suo cosiddetto “originale aramaico”? Questa è una
domanda cui può rispondere solo Garcia e quindi non occorre
scervellarsi sul significato di questa affermazione. Invece ciò che è
importante stabilire è quando si può affermare che un testo è
originale. A proposito di quest’argomento Gian Maria Vian ha attaccato
Garcia, ripetendo che è sufficiente il testo greco originale. (cfr.
“Avvenire”, 24.05.2005, pag. 32). Nei prossimi paragrafi cerc
herò di
approfondire questo problema.

8. Sulla questione dei
vangeli originali in greco sono stati versati fiumi d’inchiostro. Ed
altri fiumi se stanno versando ora, da parte di alcuni discendenti di
aramei emigrati in America ai tempi del massacro degli Armeni (1915)
(In realtà i Giovani Turchi avevano massacrato 3.000.000 di cristiani:
1.500.000 di Armeni, 1.000.000 di Greci e 500.000 Aramei; quando si
racconta la storia bisogna sempre raccontarla tutta!). Questi studiosi
aramei americanizzati affermano invece che, non solo i Vangeli, ma
anche gli altri libri del Nuovo Testamento sono stati prima scritti in
aramaico e poi in greco. Il problema che qui si pone è sapere quando si
può dire che un testo è originale o è conforme ad esso. Ciò implica la
conoscenza dell’autore, la lingua in cui ha scritto e l’esistenza del
manoscritto originale scritto dall’autore stesso. La soluzione del
problema è relativamente semplice per i tempi moderni, ossia da quando
si sono formati gli stati nazionali e c’è stato l’avvento della stampa.
Generalmente gli autori scrivono nella lingua dello stato in cui
vivono, o nei casi di stati sovrannazionali, nella lingua della
nazionalità in cui si riconoscono. Tuttavia è sempre necessario
trovare, qualora esistano ancora, i manoscritti, perché può darsi che l’
editore abbia alterato il testo, o ci siano degli errori di stampa,
ecc. Se si risale poi ai tempi più antichi i problemi si moltiplicano,
perché dall’antichità ci sono pervenute soltanto copie delle copie dei
testi, tranne che dai Manoscritti di Qumran. Senza affrontare questo
vasto problema, andiamo direttamente ai Vangeli, o meglio, a tutto il
Nuovo Testamento. E’ noto che tutti i testi del Nuovo Testamento oggi
esistenti, sono delle copie, anche i papiri più antichi. Perciò
affermare che un testo è stato scritto in originale in una o nell’altra
lingua può essere un fatto probabile, una mera ipotesi, un postulato,
ecc., ma in nessun caso una certezza. Ciò vale sia per l’originale
greco sia per l’originale aramaico.

8.1. E’ opportuno però
cercare di analizzare quale possa essere l’originale come fatto
probabile. E’ bene peraltro chiarire cosa significa dire che un evento
è probabile. Nel calcolo delle probabilità si dice la probabilità sta
tra lo zero (un fatto impossibile) e l’uno (un fatto certo). Di solito
si dice che un evento è probabile, se non si hanno altri dati
statistici, quando c’è la probabilità di ½, cioè del 50%, ossia c’è la
probabilità media. Qui però non bisogna dimenticare che un evento che è
probabile al 50%, è pure improbabile al 50%. Bisogna allora cercare se
esistono dei modi per stabilire una probabilità più alta e quindi
diminuire il margine d’improbabilità. Per aumentare la percentuale di
probabilità, bisogna partire da dati certi e bisogna stare attenti a
non ricorrere ad altri elementi probabili. Si avrebbe in tal caso una
diminuzione della probabilità finale; infatti se per trovare la
spiegazione di un unico evento si associano più fatti probabili, si ha
la probabilità composta e quindi il risultato diventa sempre più
improbabile. Se getto un dado sperando che esca il numero tre, la
probabilità è di 1/6; se getto un altro dado, sempre sperando che venga
tre, la probabilità è ancora di 1/6. Ma se getto entrambi i dadi
insieme, la probabilità che sortisca il tre è di 1/36.

9. I dati certi che si hanno relativamente al I sec.
d. C. sono diversi. Però ciò che interessa di più per questa ricerca è
considerare attentamente l’ambiente culturale di quel periodo, senza
preconcetti o tesi prefabbricate. In buona sostanza si tratta di sapere
quali lingue erano parlate nel Medio Oriente in quel periodo. Si può
sicuramente affermare che si parlava aramaico, ebraico, greco e latino,
sebbene in ambienti e circostanze diverse. Per sommi capi si può
affermare con certezza quanto è stato esposto nei paragrafi successivi.
Importante è in proposito tener conto di quanto dice Gian Carlo Alessio:
[1]

“La filologia, oltre alle ricerche che le sono tradizionalmente
consuete (che, come abbiamo visto, riguardano prevalentemente la
ricostruzione della forma originaria di un testo, letterario e
documentario), applica i medesimi principi logici che sorreggono la
critica del testo alla ricerca ed alla ricostruzione dei dati culturali
che costituiscono, direttamente o indirettamente, il bagaglio di
informazioni posseduto da un autore, o da un ambiente o da un periodo
storico (studi sulle coordinate biografiche di autori o di personaggi,
storia delle biblioteche, storia dei manoscritti, circolazione e
fruizione dei testi, storia, funzionamento, presenza culturale delle
istituzioni scolastiche, testi e maestri etc.). E’ dunque una ricerca a
carattere filologico anche quella che si propone la conoscenza e la
ricostruzione storica di un fatto o di un problema letterario, storico,
culturale ed impiega criticamente, a questo fine, testi, documenti e
ogni altra possibile testimonianza storica”.

9.1. Si
sa per certo che l’aramaico era la lingua più diffusa, come lingua
franca, sin dai tempi di Abramo: “Mio padre era un Arameo errante;
scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi
diventò una nazione grande, forte e numerosa.” (Dt 26, 5). I
discendenti di Abramo conservarono a lungo la parlata originaria e
soltanto quando tornarono nella terra d’Israele, a contatto coi
Cananei, si formò la lingua ebraica. Con la deportazione a Babilonia,
gli Ebrei appresero nuovamente l’aramaico e lo conservarono anche dopo
il ritorno in Terra Santa. Tuttavia esso si era evoluto in maniera
diversa, secondo le località in cui era parlato. Affinché la Bibbia
fosse comprensibile a tutti fu tradotta dall’ebraico in aramaico; così
si formarono i “targumim”. Gesù predicò in aramaico e tutti i suoi
discepoli parlavano questa lingua. E’ vero che parlavano la variante
“galilaica”, ma la struttura grammaticale era sostanzialmente uguale
alle altre forme di questa lingua. E’ singolare, però, come ho già
osservato prima, che con la nascita del cristianesimo si sia formata o
meglio si sia imposta una nuova forma di aramaico: la lingua siriaca.
Come avevo già scritto sopra, Altaner afferma che Taziano il Siro
compose il “Diatessaron” copiando i Vangeli da testi preesistenti. (Cfr
“Appendice n. 1). Anche se di quest’opera sono rimasti frammenti, è mai
possibile che il testo della “Peshitta” di allora sia diverso dal testo
che è giunto fino ai nostri giorni? Siccome noi sappiamo che il Vangelo
è una cosa seria, possiamo credere che anticamente esso fosse copiato
così come capita, senza alcuna cura?

9.2. I “Manoscritti
del Mar Morto” hanno dimostrato che anche la lingua ebraica era
conosciuta ai tempi di Gesù. Sicuramente le letture della Torah erano
senz’altro proclamate nel testo originale, accompagnate dal rispettivo
brano in aramaico. Oltre ad essere la lingua liturgica, l’ebraico era
sicuramente usato nello studio dei sacri testi.

9.3. L’
“Ellenismo”. Con l’avvento di Alessandro Magno in Medio Oriente
cominciò a diffondersi il greco; ci fu anche una diffusione di costumi
ellenistici. Avvenne quello che gli storici, letterati e biblisti
definiscono come “ellenismo”. E’ necessario a questo
proposito fare una
chiara distinzione tra l’adozione dei costumi ellenistici assieme all’
uso della lingua greca e il semplice uso di quest’ultima come di
qualsiasi altra lingua, ossia come semplice mezzo di comunicazione. Che
ci sia stata una certa assimilazione dei costumi e della lingua greca è
un fatto certo, però di carattere più limitato di quanto si creda. A
questo nuovo modo di vivere si piegarono soprattutto i sadducei e parte
della classe dominante. Peraltro il problema dell’assimilazione è stata
una devianza che ha riguardato gli Ebrei attraverso i secoli, già prima
di Alessandro e anche dopo fino all’altro secolo. Tale atteggiamento è
stato tuttavia ampiamente criticato all’interno del mondo ebraico,
generando un vasto movimento di purificazione dei costumi. All’epoca di
Gesù questa resistenza all’assimilazione era praticata dai Farisei, i
“Separati”, che non volevano mischiarsi col mondo pagano. L’avversione
al mondo greco era arrivata in epoca cristiana fino al punto che, se un
ebreo andava a chiedere al suo rabbino se potesse studiare il greco,
gli veniva risposto che era una bella cosa; però doveva ricordarsi che
sta scritto che è dovere di ogni ebreo meditare la Torah giorno e notte
(cfr. Sal 1, 2). Quindi poteva studiare il greco quando non è giorno e
quando non è notte.

9.4. Altra cosa è invece l’uso della
lingua greca come mezzo di comunicazione. Conoscerla e parlarla non
escludeva che gli Ebrei potessero continuare ad essere Ebrei. La storia
insegna che essi hanno imparato quasi tutte le principali lingue del
mondo, senza che la maggior parte di essi abbia deviato dall’ebraismo.
Ancor oggi in Israele si parlano, negli ambiti familiari, circa cento
lingue. La diffusione della lingua greca nel mondo ebraico ha reso
necessaria la traduzione della Bibbia in greco. Ma si può in questo
caso dire che tale evento è stato uno dei primi effetti dell’ellenismo?
O invece, al contrario, bisognerebbe dire che è stato l’inizio della
ebraizzazione del mondo greco? Con “Septuaginta” per la prima volta la
rivelazione divina del Dio unico è stata espressa in lingua greca; per
la prima volta i comandamenti e i precetti divini erano formulati in
questa lingua; per la prima volta si potevano leggere i profeti nella
medesima lingua.

9.5. Nel § 7 avevo detto che Garcia era
stato criticato da Vian, perché i Vangeli in greco sono sufficienti, in
quanto essi sono canonici e ispirati. Quest’affermazione, condivisa,
salvo rare eccezioni, da tutti gli studiosi occidentali è valida
soltanto per quanto riguarda la Chiesa occidentale. Infatti le Chiese
Orientali di rito e lingua siriaca o aramaica, unanimemente ritengono
che la Peshitta sia pure canonica e ispirata. Ciò vale sia per la
Chiesa Cattolica di rito siriaco, sia per la Chiesa separata, detta
Chiesa Assira dell’Est. In proposito è opportuno leggere le Appendici
n. 1 e 2.

9.6. La “romanizzazione” in Medio Oriente. Un
argomento che è poco trattato dagli studiosi della Sacra Scrittura è la
questione della “romanizzazione” in Medio Oriente. Comunemente si
ritiene che tale espansione del mondo romano sia successa solo in
Occidente, mentre in Oriente si parlasse solo greco. In realtà tale
fenomeno accadde anche nella parte orientale dell’Impero Romano, almeno
fino alla formazione dell’Impero Romano d’Oriente e in ogni modo fino
ai tempi di Giustiniano. Nel 146 a. C. i Romani conquistarono Corinto e
la rasero al suolo. Era lo stesso anno in cui fu distrutta Cartagine.
Così Roma ebbe il predominio assoluto in Occidente e Oriente.
Progressivamente iniziò una penetrazione sistematica. Fu costruita la
Via Egnazia che andava dall’Epiro a Bisanzio e diventò l’asse della
costruzione di colonie latine, fra cui Filippi, chiamata poi “Colonia
Augusta Iulia Victrix Philippensium” che godeva del “ius italicum”.
Corinto, riedificata per ordine di Giulio Cesare e popolata dai
veterani romani, non era più la Corinto greca, ma era la “Colonia Laus
Iulia Corinthus”. La penetrazione romana progredì ancora verso Oriente:
Antiochia era la “Colonia Caesarea Antiochia”. Non a caso in questa
città ai seguaci di Gesù Cristo fu dato il nome di “cristiani”, nome
composto dalla radice greca, ma dalla desinenza latina. Ma il caso più
indicativo è quello di Beirut, l’antica Berytus.

La cronologia di
Beirut è abbastanza singolare. E’ interessante soffermarsi nel periodo
di poco precedente l’era cristiana e quello successivo. Nel 164 a. C.
il nome della città è stato cambiato in Laodicea di Canaan da Antioco
IV. Nel 140 a. C. è stata distrutta da Trifone. Nel 14 a. C. Beirut è
stata ricostruita come colonia romana con il nome di “Colonia Julia
Augusta Felix”. Nel 44 d. C. Agrippa I costruì il teatro. Nel 100
Agrippa II la elesse sua residenza preferita. Settimio Severo fondò,
nel 200, la scuola di diritto. Nel 349 la città fu colpita da una
scossa di terremoto. Infine, nel 450 Beirut ricevette il titolo di
metropoli da Teodosio II.

Interessante è quanto scrisse Giustiniano
nell’introduzione ai “Digesta”:

“Noi vogliamo che questi tre trattati
che sono stati composti da noi, siano insegnati agli allievi non
soltanto nelle città reali, ma anche nella bellissima città di Berytus,
che può anche ben essere designata la nutrice della legge, come già
stabilito dai nostri predecessori, ma in nessun altro posto, cui questo
privilegio non sia stato assegnato dai nostri antenati; e siccome
abbiamo udito che degli uomini senza perizia sono andati in giro, sia
nella bellissima città di Alessandria, sia a Cesarea ed hanno
comunicato l'istruzione spuria agli allievi: noi intendiamo trattenere
costoro dal compiere tale impresa per mezzo dell'avvertimento suddetto,
di modo che, se osassero in futuro perpetrare tali atti anche fuori
delle città reali e dalla Metropoli di Berytus, siano puniti con
un'indennità di dieci libbre di oro e siano espulsi da quella città in
cui non insegnano le leggi, ma le violano”. (Dig., C. Omnem, 7).

9.6.1.1.1. “Nutrice della legge”, questo è l’
ineguagliabile appellativo che Giustiniano attribuisce alla Metropoli
di Berytus. Se qualcuno voleva studiare il diritto romano doveva andare
lì, dove esisteva la più grande scuola di tutto l’Impero Romano. E’ ben
noto che diritto romano significava supremazia di Roma, della lingua
latina, ecc. Più che con le armi, o meglio, dopo averlo fatto con le
armi, Roma assoggettò i popoli con il diritto, insegnando loro quella
civiltà intramontabile che si ottiene con la giustizia. Si può allora
pensare, verificando l’evoluzione storica della città, che la
fondazione e lo sviluppo di Berytus, fino a diventare metropoli, non
fosse stato un fatto casuale, ma un disegno preordinato; interessante
allora sarebbe notare il metodo pacifico di penetrazione nel Medio
Oriente: la forza del diritto.

9.6.1.1.2. E’ cosa
nota, peraltro, che diritto romano significa lingua latina. I processi
durante l’Impero Romano erano celebrati in latino. Dall’antichità fino
a pochi anni fa il diritto romano è sempre stato studiato nella sua
formulazione latina. Soltanto in questi ultimi anni, per facilitare l’
apprendimento a studenti che masticano poco questa bella lingua, sono
usciti testi ausiliari che traducono in ital
iano le espressioni
giuridiche. E’ interessante anche quanto Valerio Massimo dice sull’uso
del latino nel diritto e l’appunto che fa sulla lingua greca (Cfr. V.
MAX., Facta et dicta memorabilia, 2,2,2.3).

9.7. Greco e
Latino. E’ cosa arcinota che fin dall’antichità c’è sempre stata la
discussione se prevalesse il greco o il latino e viceversa. Addirittura
se a Roma stessa si parlasse latino o greco. O se Giulio Cesare avesse
detto a Bruto “Tu quoque Brute, fili mi” in greco anziché in latino.
Sono discussioni che probabilmente non finiranno mai, ma che in buona
sostanza non hanno alcun senso perché in tutto l’Impero Romano, almeno
le persone con una certa cultura, sapevano entrambe le lingue, quale
che fosse la loro origine. Che si dovesse studiare il latino e il greco
lo afferma Sant’Agostino nelle “Confessioni” (1,14), quando scrive del
fastidio che gli dava studiare Omero, compensato dal medesimo fastidio
che aveva il suo coetaneo ad Atene che studiava Virgilio. Ciò valeva
anche nel I sec. Che i cittadini romani dovessero sapere il latino si
evince da un provvedimento effettuato dall’imperatore Claudio.
Svetonio, in “De vita Caesarum”, “La vita dei Cesari”, così scrive:
“Non soltanto cancellò dall’albo dei giudici un uomo illustre fra i più
ragguardevoli della provincia della Grecia, perché non sapeva il latino
(“Latini sermonis ignarus”), ma lo privò anche della cittadinanza
romana (“in peregrinitatem redegit”, alla lettera “lo ridusse allo
stato di straniero”).” Ancora Svetonio scrive che Claudio considerò il
greco e il latino “uterque sermo noster”; l’una e l’altra sono la
lingua di Claudio, non però una senza l’altra.

9.8. La
cultura di Paolo. E’ noto che quando si parla della cultura di Paolo si
fa un esplicito riferimento alla sua cultura greca per dimostrare che
egli scrisse le sue lettere in greco. Questo modo di argomentare è un
sofisma del tipo “circolo vizioso”: si vuole in altre parole dimostrare
che egli scrisse in greco perché sapeva il greco; e siccome sapeva il
greco allora scrisse in greco. Come si vede qui non si dimostra nulla.
Per sapere quale fosse il tipo di cultura che avesse Paolo, bisogna
partire da dati certi. Ciò che noi sappiamo, senza ombra di dubbio, è
che Paolo, prima di diventare cristiano, era un fariseo fra i più
zelanti; inoltre sappiamo che egli era stato uno fra i migliori allievi
di Gamaliele, presidente del Sinedrio (e non un membro qualsiasi, come
comunemente si ritiene). Per ultimo sappiamo che Paolo era cittadino
romano, dalla nascita. Era quindi un “ingenuus” e non un “libertus”.

9.9. L’ebraicità di Paolo. Come accadeva a tutti gli Ebrei
la lingua madre di Paolo era l’aramaico. Di quale variante di aramaico
si trattasse non lo sappiamo con certezza. Ciò che invece è certo è che
Paolo conoscesse con padronanza l’ebraico. Questa lingua era la lingua
liturgica, anche se per la comprensione del popolo il testo andava
riletto in aramaico. L’ebraico era anche la lingua di studio. Se Paolo
frequentò con profitto la Scuola di Gamaliele, significa che egli era
un fine e provetto conoscitore dell’ebraico.

9.10. La romanità
di Paolo. Quale “civis Romanus” Paolo doveva conoscere
obbligatoriamente il latino e il diritto romano. Che Paolo conoscesse
bene il diritto romano lo si evince dal comportamento che ha con i
magistrati nelle colonie di Roma, dalla ferma chiarezza con cui si
difende, fino all’appello a Cesare. Paolo però, oltre al latino, doveva
sapere il greco, perché, come aveva affermato Claudio, l’uno e l’altro
erano “uterque sermo noster”.

9.11. Molte volte mi sono
chiesto per qual motivo il Signore abbia scelto Paolo, quando c’erano
già i dodici apostoli e tutti quelli che si erano convertiti a
cominciare dal giorno della Pentecoste. Per la predicazione erano
sufficienti gli apostoli, testimoni oculari della missione di Gesù
Cristo. Per redigere il Nuovo Testamento erano pure sufficienti gli
apostoli, assieme agli evangelisti. Che cosa aveva in più Paolo, per
far sì che Gesù Risorto lo chiamasse direttamente all’apostolato fino a
mandarlo a Roma? E’ scritto infatti: “La notte seguente gli venne
accanto il Signore e gli disse: «Coraggio! Come hai testimoniato per
me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche
a Roma»” (At 23, 11). E più avanti ancora: “Mi è apparso infatti
questa notte un angelo del Dio al quale appartengo e che servo,
dicendomi: Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed
ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione”
(At 27, 23-24). Non bastava che andasse Pietro a Roma per fondare lì la
Chiesa? Che necessità c’era che ci andasse anche Paolo?

C’è qualcosa
in più che Paolo aveva rispetto agli altri apostoli. Conosceva a fondo
le Sacre Scritture, in quanto aveva frequentato la miglior scuola
allora esistente. E, come cittadino romano, conosceva a menadito il
diritto e la struttura dell’Impero. Conoscenze di non poco conto per
poter muoversi nel complesso mondo di allora. Ebbene, questa esperienza
ai dodici apostoli mancava. Anche se Matteo era un pubblicano, quindi
legato alle gerarchie locali romane, non avrebbe potuto muoversi
granché oltre il territorio d’Israele. In effetti nello studio del
Nuovo Testamento si è capito che senza l’apporto di Paolo, la Chiesa a
stento si sarebbe mossa dalla terra d’origine.

9.12. Però c’è
ancora qualche problema da risolvere. Mi sono da tempo posto il quesito
se Paolo, in circa trent’anni di attività apostolica, si fosse limitato
a predicare e a scrivere le sue 14 epistole o se tale lavoro fosse
stato accompagnato da qualcosa di molto più profondo che avrebbe
lasciato un segno indelebile in tutta l’organizzazione della Chiesa. E’
difficile trovare sufficienti prove documentali che diano una risposta
a tali quesiti. Sappiamo che molti documenti antichi sono stati
irrimediabilmente persi. O forse pochi si sono posti in modo adeguato
tali domande. Però una ricostruzione logica e coerente la si può fare.
Per lo meno analizzando due indizi.

Nella seconda lettera a Timoteo a
un certo punto Paolo scrive: “Venendo, portami il mantello che ho
lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le
pergamene.” (Testo C.E.I.); “La scatola dei libri che ho lasciato a
Troade presso Carpo, quando vieni portamela e i libri, specialmente i
rotoli di pergamena.” (Trad. dal testo siriaco) (2 Tim 4,13).

Al punto
n. 12 degli Atti dei martiri scillitani” è scritto: “12. Il proconsole
Saturnino disse: Quali cose custodite nella vostra cassetta? Sperato
disse: Libri ed epistole del giusto Paolo”.

Cos’è questa storia della
scatola dei libri, di altri libri, dei rotoli di membrane (pergamene) o
dei libri e delle epistole di Paolo? Allora egli non si è limitato a
scrivere le epistole note, ma può aver fatto anche altro, qualcosa di
molto importante per il futuro della Chiesa. Più sopra avevo scritto
che non tutti sono in grado di tradurre un libro da una lingua a un’
altra. E’ necessario conoscere entrambe le lingue, ma soprattutto l’
argomento da tradurre. Ora Paolo aveva tutti i requisiti necessari per
fare un’operazione del genere. Conosceva correnteme
nte l’ebraico, l’
aramaico, il greco e il latino. Padroneggiava con perizia l’Antico
Testamento in ebraico, conosceva i Targumim, i Settanta; quindi poteva
senz’altro tradurre l’Antico Testamento in latino. Inoltre poteva
predisporre gran parte del Nuovo Testamento in aramaico, greco e
latino. Né si venga a dire che l’originale dei Vangeli è stato scritto
in greco: si tratta in ogni caso di una traduzione, perché Gesù ha
predicato in aramaico.

Che tale lavoro fosse stato possibile da parte
di Paolo è senz’altro plausibile. Ha avuto trent’anni a sua
disposizione, non era solo, ma aveva uno stuolo di alacri discepoli. Un
fatto però è certo: la Chiesa non avrebbe lasciato a chicchessia il
compito di tradurre o redigere o controllare i testi.

9.13 Scrive
Silverio Zedda nella “Prima lettura di San Paolo” (pag. 103), nel
paragrafo “In quale lingua”: “La lettura di S. Paolo deve essere fatta,
per quanto è possibile, nella lingua originale. Le eccellenti versioni
che abbiamo, quelle fatte sul greco, non potranno mai supplire, presso
una persona colta, in particolare presso un sacerdote o uno studente di
teologia, il contatto diretto con la mente dell’Apostolo, nella lingua
in cui egli pensò e si espresse”. L’affermazione di Zedda parte dal
presupposto che Paolo pensasse e scrivesse in greco. In realtà le cose
non stavano in questi termini. Come ho già scritto sopra la lingua
materna di Paolo era l’aramaico. Un dato è certo: ogni persona, quale
che sia la lingua in cui scrive, pensa sempre nella sua lingua madre.
Perciò, se scrive in una lingua diversa da quella materna deve fare
sempre mentalmente una traduzione. Può darsi però che certi termini li
pensi in una lingua di cultura, che per Paolo era innanzi tutto l’
ebraico. In ogni caso, prima di scrivere o di parlare, si deve rendere
conto dei termini nella sua lingua materna. Tipico era stato un caso
accaduto qui a Trieste. C’era un sacerdote di madre lingua slovena che
insegnava in italiano. Però i corsi teologici li aveva fatti a Roma al
“Germanicum” in tedesco. Egli asseriva che prima di spiegare, pensava
in tedesco, traduceva in sloveno e infine in italiano.

9.13.1.1 Un caso analogo capitò a Italo Svevo. Si
legga quanto scrive Giorgio Voghera negli “Anni della psicanalisi” a
pag. 45 s, dove parla delle “Considerazioni eretiche sulla «scrittura»
di Italo Svevo”. Il problema che Voghera affronta, in buona sostanza è
questo: Svevo ha scritto in italiano, ma pensava in triestino e
talvolta le sue espressioni erano mescolate con modi di dire e
locuzioni prese dal tedesco. E non sempre riusciva a tradurle in un
italiano letterariamente corretto. Infatti Ettore Schmitz aveva assunto
il nome d’arte Italo Svevo, proprio per rimarcare la sua scelta
italiana (Italo), partendo dalla sua origine tedesca (Svevo).

9.13.1.2 Queste precisazioni sono state
necessarie per capire quale lavoro bisogna fare per capire veramente
quale sia il significato del Nuovo Testamento, perché come già
affermato più sopra l’aramaico era la lingua madre di tutti gli
scrittori dello stesso. Bisogna fare un confronto in parallelo tra la
“Peshitta”, il testo greco e quello latino. Per quest’ultimo
bisognerebbe ricorrere alla ricostruzione della “Vetus Latina”.
Esemplare è il caso del citato passo di 2 Tim 4,13 (cfr § 9.12). Il
testo greco scrive che Paolo chiede “phailónēs”, quello latino
“paenula”. Nella traduzione si è sempre inteso che la richiesta si
riferiva a un “mantello” da viaggio; così traduce anche il testo C.E.I.
Invece nella “Peshitta” è scritto “beth kthave”, la “custodia dei
libri”. Questa espressione corrisponde anche al significato traslato di
“paenula”, “custodia”, “coperchio”. Non si tratta, dunque, di un’errata
traduzione dal testo greco o latino, bensì non ci si è resi conto che
Paolo usa una metonimia. Quando scrive “mantello” egli menziona il
contenente, ma intuitivamente indica il contenuto: la “Torah”. Da ciò
si può dedurre quanto alta fosse la venerazione che Paolo aveva della
“Torah”. Egli la conservava rivestita di uno splendido mantello, com’è
anche oggi in uso presso gli Ebrei. Certo, non capita che per ogni
versetto del Nuovo Testamento ci siano delle difficoltà. Però con la
“Peshitta” come testo base di riferimento ci si può rendere conto quale
fosse il modo di pensare dell’autore.

9.14 E’ universalmente
noto che la letteratura greca ebbe inizio con l’“Iliade” e l’“Odissea”.
Che la letteratura araba iniziò con il “Corano”. Che la letteratura
italiana ebbe un solenne avvio con la “Divina Commedia” di Dante. Non è
detto che prima non si parlasse o non si scrivesse nelle rispettive
lingue. Si trattava però di scritti minori. Un caso analogo avvenne
anche per la letteratura aramaico-siriaca. Fu la “Peshitta” che
costituì il fondamento di ogni futuro sviluppo di quella lingua. E si
può affermare che altrettanto accadde per il greco e il latino del
Nuovo Testamento. In quelle due lingue fu forgiato il nuovo linguaggio
della Chiesa occidentale. E anche se, con qualche semplificazione,
formalmente furono conservate le regole grammaticali e sintattiche del
greco antico e del latino classico, si era formato un nuovo modo di
esprimersi e di pensare radicalmente diverso da quello precedente la
venuta di Gesù Cristo. In effetti i grammatici neo-ellenici considerano
il greco del Nuovo Testamento come l’inizio di una nuova lingua greca.
Inoltre si può, a buon diritto, ritenere che il latino del Nuovo
Testamento come l’inizio del latino ecclesiastico.

9.15 Il
problema che, a quanto sembra, non è stato sufficientemente
approfondito è un altro. Come mai la “Peshitta” fu scritta nella
variante siriaca dell’aramaico e non in aramaico galilaico? Comunemente
si afferma che il siriaco era il dialetto di Edessa. Ma ciò avveniva
nel IV sec. d. C. E prima? Fino a dove era diffuso il siriaco al di
fuori di Edessa? Si è osservato che la “Peshitta” esisteva già nel II
sec. d. C. e che essa iniziò sostanzialmente la nascita di questa
variante dell’aramaico. Quali differenze ci sono tra l’aramaico
galilaico e il siriaco? Vediamo se alcuni di questi dilemmi possono
essere risolti.

Proprio l’anno scorso il Vescovo Mar Jacob Barday e il
Prof. Massimo Pazzini hanno completato la revisione del testo di “The
New Covenant Aramaic Peshitta text with Hebrew translation”, che quest’
anno è stato pubblicato da “The Bible Society -Jerusalem”. A pag. VI
della “Nota editoriale” scrivono:

“The advantage of this Eastern
Aramaic dialect, is that it shares a common morphology and idiom with
Judean and Galilean Aramaic of that period. We hope that this diglot
will serve as a key for a more direct access to the Semitic and Jewish
background of the books of the New Covenant”.

“Il vantaggio di questo
dialetto aramaico orientale, è che condivide una morfologia e un idioma
comune con l’aramaico giudaico e galilaico di quel periodo. Speriamo
che questo testo bilingue possa servire da chiave per un più diretto
accesso all’ambiente semitico ed ebraico dei libri del Nuovo
Testamento”.

Vale ancora la pena di ricordare i due validissimi lavori
di Massimo Pazzini:

a) “Grammatica siriaca”, 1999.

b) “Lessico
concordanziale del Nuovo Testamento Siriaco”, 2004.

Entrambi sono per
studiosi italiani e sono editi dalla “Franciscan Printing Press,
Jerusalem”.

A questo punto, chi è veramente interessato a studiare
seriamente il Nuovo Testamento, può accedere direttamente a questi due
testi fondamentali in lingua italiana. Finalmente P. Pazzini ha colmato
un abisso profondo più di un secolo. Finora esistevano, anche fin dall’
Ottocento, valide grammatiche siriache in tedesco, inglese, francese e
latino e i rispettivi dizionari che traducevano le parole siriache in
quelle lingue. Ma in lingua italiana non esisteva nulla di simile, se
non delle dispense dattiloscritte di una grammatica per studenti
universitari.

Conclusione

In questa prima parte abbiamo
criticato le premesse al libro “La vita di Gesù nel testo aramaico dei
Vangeli” di José Miguel Garcia. E’ stata evidenziata l’inutilità di un
simile lavoro, in quanto esiste già la “Peshitta” che, a giusto titolo
risale quanto meno a Taziano il Siro.

Nella seconda parte si
confuteranno alcune interpretazioni gratuite effettuate da Garcia e
alcune ricostruzioni a dir poco bizzarre.

DARIO BAZEC


Citazione
Affus
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L’ARAMAICO, LA LINGUA DI GESÙ di Dario Bazec

PARTE SECONDA

L’ARAMAICO, LA LINGUA DI GESÙ

Testo della conferenza tenuta l’8 marzo 2004 per il Gruppo
Ecumenico di Trieste

Premessa

Si legge Omero in greco, Cicerone
e Virgilio in latino, Shakespeare in inglese, Kant in tedesco, ma chi
legge le parole di Gesù Cristo nella sua lingua nativa, l’aramaico?

Certo, non tutti leggono quelli ed altri testi nella lingua originale,
però c’è la possibilità di farlo con una certa facilità. Infatti, nei
licei si studiano le lingue classiche; e anche i testi della
letteratura e filosofia straniera moderna, soprattutto all’università,
si leggono nella lingua originale. Invece lo studio dei Vangeli in
lingua aramaica coinvolge un ristretto gruppo di persone ed è fatto,
più che altro, per confrontare questa lingua con l’ebraico. È prova di
ciò il fatto che, alcuni anni fa, fu pubblicata in lingua inglese una
grammatica dell’aramaico per ebraisti. È ovvio d’altro canto che, per
capire meglio l’ebraico antico e anche quello moderno, è necessario
studiare anche la lingua aramaica nelle sue varie forme. Ma il problema
che qui si pone è questo: è necessario studiare l’aramaico come lingua
a sé, prima di studiare le influenze reciproche con le altre lingue
circostanti? La risposta a questa domanda non è così semplice, come può
sembrare a prima vista; e questo per un motivo: la lingua aramaica è
piuttosto una famiglia di lingue, più che una lingua sola. Questa
lingua ha subito nel corso dei secoli, per diversi motivi storici, una
ramificazione in più dialetti, che sono diventati lingue per i testi
letterari che sono stati scritti. La struttura dei vari dialetti è
rimasta sostanzialmente uguale, ma per diversi influssi ci sono state
delle varianti fonetiche e lessicali, che li hanno resi diversi.

L’
aramaico antico era compreso, fino ai tempi dell’impero persiano in
tutto il Medio Oriente fino a Elefantina, in Egitto, alla prima
cateratta del Nilo. Dopo la formazione dell’impero di Alessandro Magno,
molti Greci si trasferirono in quell’area, frammentando l’unità del
mondo aramaico. Le varie comunità che parlavano quella lingua persero
il diretto contatto con le altre comunità e si formarono i vari
dialetti. Sostanzialmente l’aramaico si divise in due tronconi: l’
aramaico orientale e quell’occidentale. Inoltre l’aramaico occidentale
aveva pure le sue varianti: a Gerusalemme si parlava un aramaico
diverso da quello della Galilea (cfr. Mt 26, 74: “Certo anche tu sei di
quelli; la tua parlata ti tradisce!”; Mc 14, 70; Lc 22, 59; At 2, 7-8).
Da questi brani citati sappiamo che Gesù, come Pietro, parlava in
aramaico galilaico. Perciò tutto il suo insegnamento avveniva in questa
lingua.

L’ultima forma di aramaico che si formò in Medio Oriente fu
il siriaco, detto anche caldeo. A sua volta il siriaco si divise nella
sua forma occidentale, detto “giacobita”, e nella sua forma orientale,
detto “nestoriano”. Dopo la conquista del Medio Oriente da parte degli
Arabi, l’aramaico cominciò a perdere terreno. Continuarono a parlarlo
soltanto quegli abitanti che rimasero cristiani. Soprattutto fu
conservato nella liturgia. Nel corso dei secoli si è formata un’altra
variante della lingua aramaica, il neo-aramaico. Alcuni neo-aramei s’
identificano come Assiri e quindi chiamano la loro lingua assiro. D’ora
in poi userò i termini aramaico, assiro, siriaco come sinonimi.

Il
popolo assiro, appartenente al ceppo semita come Arabi ed Ebrei, è uno
dei popoli autoctoni della vasta regione compresa fra il Tigri e l’
Eufrate. In altre parole, è quell’area storicamente nota come
Mesopotamia, che oggi coincide grosso modo con l’Iraq. La sua lingua è
l’aramaico, la stessa che era parlata da Gesù Cristo.

Oggi ci sono
nel mondo almeno 3 milioni di Assiri: quasi la metà vive in Iraq, ma
durante la guerra che si è appena conclusa gli organi d’informazione
hanno fornito su di loro informazioni vaghe e insufficienti. Molti
hanno parlato genericamente di “cristiani”, evitando accuratamente di
chiarire che si tratta di un popolo ben definito. Comunità consistenti
si trovano in Siria e in altri paesi del Medio Oriente, negli Stati
Uniti, in Australia e in vari paesi europei. Basti pensare che a
Berlino sono settemila, mentre in Svezia, dove sono molto attivi, hanno
anche una rete televisiva (Assyria Tv).

Come si è detto, la religione
cristiana occupa un ruolo centrale nell’identità culturale degli
Assiri. Le vicissitudini storiche e geografiche hanno determinato una
notevole frammentazione confessionale, che si esprime in quattro chiese
diverse: nestoriana, giacobita (ortodossa), caldea (cattolica romana) e
siriaca di Antiochia. In Kerala (Sud dell’India), dove vivono i
Cristiani di S. Tommaso, si ha invece la suddivisione tra cattolici e
nestoriani; in tale regione però l’aramaico è soltanto la lingua
liturgica.

Nel corso del ventesimo secolo la minoranza assira è stata
oggetto di massacri spaventosi, ma dimenticati. Fra il 1915 e il 1916
ci fu il genocidio delle minoranze cristiane (armeni, assiri e greci)
che facevano parte dell’impero ottomano: quasi tre milioni di persone
furono trucidate dall’esercito turco; fra questi c’erano circa 500.000
aramei. Una responsabilità che il governo turco ha sempre rifiutato.
Molti aramei riuscirono a fuggire e oggi formano delle comunità nei
paesi sopra citati.

Il testo originale dei Vangeli: greco o
aramaico?

E’ sentenza comune fra gli studiosi che il Nuovo
Testamento sia stato scritto in greco e poi tradotto in siriaco. Almeno
questa è la tesi sostenuta dagli studiosi occidentali. Gli studiosi
orientali, di lingua o di rito siriaco, invece pensano che il Nuovo
Testamento sia stato scritto direttamente in aramaico-siriaco e poi
tradotto in greco.

Il problema dibattuto è molto complesso. Anche se
i Vangeli sono stati scritti in greco, in ogni caso Gesù aveva
predicato e insegnato in aramaico, come ci aveva ricordato il pastore
Liberante Matta. Probabilmente Gesù aveva parlato in ebraico quando si
trovava a discutere con gli scribi, i farisei e i sadducei. E quasi
sicuramente quando citava la Sacra Scrittura.

Quindi, comunque si veda
la questione, il testo greco è una traduzione. Questo perché gli
Evangelisti e gli altri Agiografi hanno dovuto trovare le parole greche
adatte a esprimere il pensiero e le parole di Gesù, espresse in
aramaico.

Il motivo per cui l’aramaico è stato trascurato e quasi
dimenticato e relegato solo agli specialisti, è dovuto probabilmente al
fatto che la Bibbia in siriaco è considerata tardiva rispetto al testo
greco. Anche se si ritiene il testo siriaco abbastanza tardivo (V o VI
sec.), la problematica non muta. Perché se l’aramaico si è evoluto nel
corso dei secoli, esso ha in ogni caso mantenuto immutata la sua
struttura fondamentale. Quindi anche se i Vangeli sono stati scritti in
greco la versione siriaca è molto vicina al linguaggio di Gesù e ripete
con un’altissima probabilità le stesse parole da lui pronunciate. Se le
cose stanno così, allora i Padri della Chiesa Siriaca hanno
letto e
commentato i testi leggendo le parole pronunciate da Gesù nella sua
stessa lingua.

Vale la pena in proposito di citare quanto scrisse,
circa cinquanta anni fa, uno studioso estone, Arthur Vööbus: “Nessuna
Chiesa può rivendicare di aver studiato i sacri testi con maggior cura
e di aver usato e applicato tutte le risorse scientifiche, conosciute
ai tempi della Chiesa antica, alla critica biblica, meglio di quanto ha
fatto la Chiesa Siriaca”. Il modo critico di affrontare la Bibbia era
infatti profondamente radicato nella tradizione siriaca. S. Efrem Siro,
che visse nel IV secolo, scrisse: “Se ci fosse un unico senso delle
parole della Scrittura, allora il primo commentatore che venisse,
potrebbe scoprirlo e gli altri ascoltatori non avrebbero più alcuna
possibilità di studiare per scoprirne sensi ulteriori, né la gioia di
trovarli: Piuttosto ciascuna parola di Nostro Signore ha la sua forma
propria, e ciascuna forma ha le sue parti proprie, e ciascuna parte ha
le sue caratteristiche proprie. E ciascuna persona comprende secondo le
sue capacità e interpreta i brani secondo come le è concesso.”
(Commentario al Diatessaron, 7, 22).[2]

Interessante è anche prendere
in esame un brano di quanto scrisse Fredrich Daniel Ernst
Schleiermacher (1768- 1834). Egli fu un pastore della Chiesa riformata
di Prussia e insegnò filosofia e teologia, prima presso la Facoltà
teologica dell’Università di Halle e poi a Berlino. E’ considerato il
padre dell’ermeneutica moderna. Nel passo che cito, Schleiermacher
tratta del rapporto esistente tra la lingua materna e quella scritta
(il riferimento ovviamente lo fa al testo del Nuovo Testamento):

“1. Siccome il progetto avviene spesso nella lingua materna – benché si
pensi nella lingua della Scrittura ciò che si scrive – e il legame tra
i pensieri si trova già nel primo progetto, bisogna tener conto di una
mescolanza, del tutto particolare negli scrittori neotestamentari, tra
il greco e l’ebraico.

2. Questa mescolanza esercita un influsso
maggiore, tanto più che le due lingue sono, per quanto riguarda i
legami, molto differenti. a. Gli scrittori neotestamentari non potevano
far propria, seguendo una via non colta, la ricchezza della lingua
greca; infatti, rende anche esitanti nell’uso della lingua, che si
conosce realmente, il fatto che vi si presti una minore attenzione e,
con un ascolto distratto, si assimili meno il valore delle formule di
legame. …

3. E’ perciò necessario formare un tutto a partire dai
significati greci di un segno e dai significati ebraici che loro
corrispondono, e da qui giudicare come è prescritto”.[3]

Qui
Schleiermacher non tratta della lingua aramaica, ma nella sostanza il
suo ragionamento è valido, anche perché gli autori dei libri del Nuovo
Testamento erano, tranne Luca, tutti ebrei, che però pensavano e
parlavano in aramaico, anche se scrivevano in greco. Sarebbe da
discutere la frase in cui afferma che “gli scrittori neotestamentari
non potevano far propria, seguendo una via non colta, la ricchezza
della lingua greca”. Ritengo che non si possa affermare che gli
agiografi non cogliessero la ricchezza della lingua greca. Piuttosto ci
furono altri motivi che li spinsero a scrivere così: innanzi tutto lo
scopo che volevano raggiungere. L’uso della lingua colta non avrebbe
raggiunto la popolazione cui era diretto l’annuncio e l’insegnamento
cristiano. Ma forse c’erano anche altri motivi, che si possono
risolvere per il momento solo formulando delle ipotesi, come accennerò
più avanti.

Mi sia concesso fare un inciso, a proposito di Paolo. Don
Rinaldo Fabris nel suo intervento, alcune settimane fa, aveva fra l’
altro detto che Paolo conosceva due lingue: l’ebraico e il greco. Qui
mi permetterei di fare un’osservazione. Quella volta non intervenni
perché non avevo materiale a mia disposizione.

In realtà Paolo
conosceva quattro lingue: l’aramaico, l’ebraico, il latino e il greco.
L’aramaico perché era la lingua del popolo, che egli non poteva
ignorare. L’ebraico perché era lingua in cui si leggeva pubblicamente
la Torah e i profeti; inoltre era senz’altro la lingua d’insegnamento
di Rabbi Gamaliele, alle cui lezioni Paolo aveva partecipato. Ma
soprattutto è importante rilevare che Paolo conosceva il latino, anzi
era obbligato a conoscerlo, poiché civis Romanus, cittadino romano.

Che i cittadini romani dovessero sapere il latino si evince da un
provvedimento effettuato dall’imperatore Claudio. Svetonio, in De vita
Caesarum, Vita dei Cesari, così scrive: “Non soltanto cancellò dall’
albo dei giudici un uomo illustre fra i più ragguardevoli della
provincia della Grecia, perché non sapeva il latino (Latini sermonis
ignarus), ma lo privò anche della cittadinanza romana (in
peregrinitatem redegit, alla lettera lo ridusse allo stato di
straniero)”.[4]

Inoltre alcune delle città in cui Paolo predicò il
Vangelo erano colonie romane, anche se si trovavano geograficamente in
Grecia. Così Corinto, non era più la Corinto greca, rasa al suolo dai
Romani nel 146 a. C., ma era la Colonia Laus Iulia Corinthus,
riedificata per ordine di Giulio Cesare e popolata dai veterani romani.
Filippi era la Colonia Augusta Iulia Victrix Philippensium, che godeva
del ius italicum; in questa località Paolo trova un ambiente
tipicamente romano. Antiochia era la Colonia Cesarea Antiochia. Non a
caso in questa città ai seguaci di Gesù Cristo fu dato il nome di
cristiani, nome composto dalla radice greca, ma dalla desinenza latina.

Ci sono poi alcuni passi del testo greco che sono evidenti costruzioni
alla latina (prive degli articoli), e anche miste ad aramaismi; così ad
es.:

1) érga nómou (Rm 3, 20) – le opere della legge;

2) dikaiosýnē theoû (Rm 3, 21) – la giustizia di Dio;

3) pneûma agiosýnēs (Rm 1, 4) – alla lettera: Spirito
di santità; in realtà è anche un aramaismo in quanto è un calco che
riproduce esattamente le parole ruha dqudša, che vuol dire Spirito
Santo (la particella d- qui regge un genitivo);

4) en
omoiōmati sarkòs amartías (Rm 8, 3) – in una carne simile a quella del
peccato ; anche c’è la costruzione alla latina su un calco aramaico ;
la traduzione esatta è : nella similitudine della carne del peccato.
[5]

Ritorniamo ora al testo del Nuovo Testamento così come ci è
pervenuto e viene attualmente studiato. E’ noto che gli agiografi hanno
lasciato immutate alcune parole aramaiche; in tutto sono circa 44; esse
indicano nomi di località, nomi propri, e anche i cosiddetti ipsissima
verba Christi. Fra questi è il caso di ricordare:

1. Effata (Mc
15, 34), che comunemente è tradotto con un imperativo singolare:
“Apriti”.

2. Talitha kumi – “Fanciulla, alzati” (Mc 5,41).

3. Raqa – abietto, vile (Mt 5, 22)

4. Eloi, Eloi, lama
sabbaqtani – “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46)

Anche Paolo usa un’espressione aramaica: Maran atha (1 Cor 16, 22) –
“Il Signore nostro è venuto”. Nei testi attualmente in circolazione si
trova scritto Marana tha – “Signore nostro, vieni”, probabilmente in
riferimento ad Ap 22, 20: “Vieni, Signore Gesù”. Ma il t
esto aramaico è
diverso: Ta maria Ishoc

Come già accennato prima a proposito di Paolo,
ci sono poi moltissime espressioni che sono tradotte alla lettera,
lasciando la costruzione tipicamente semitica, piuttosto che esprimerla
in greco corretto. Sono i cosiddetti semitismi, ebraismi e aramaismi.
Ce ne sono parecchi e molte volte è difficile distinguere se si tratti
di un semitismo o di un ebraismo o di un aramaismo. Ciò talvolta ha
dato luogo a traduzioni errate, anche se non sempre il significato era
compromesso. Ad esempio:

1. Nel brano “Di buon mattino, il primo
giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole”(Mc 16,2),
il primo giorno dopo il sabato, va correttamente tradotto il primo
giorno della settimana. Infatti, secondo l’uso, dire Shabtha da solo,
significa Sabato. Ma se invece si dice Had beshabba, significa il primo
giorno della settimana. E’ vero che nella sostanza non cambia nulla,
però le due espressioni hanno una sfumatura diversa.

2. L’altra
espressione che vale la pena di osservare è “Con la vostra
perseveranza salverete le vostre anime”. (Lc 21, 19). In realtà la
traduzione corretta è con la vostra perseveranza salverete voi stessi.
Infatti, la parola navsha, ha come primo significato anima, però ha
anche la funzione di aggettivo o pronome dimostrativo, anche con uso
rafforzativo.

Lo studio della lingua siriaca

Peshitta si chiama
il Nuovo Testamento in lingua siriaca, che significa “la (versione)
semplice”. Qui in Italia lo studio di questa lingua è rimasto a lungo
trascurato. La prima grammatica di siriaco pubblicata in lingua
italiana risale al 1999, ad opera di P. Massimo Pazzini, O.F.M.,
docente allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. In buona
sostanza siamo in ritardo di un secolo, rispetto alle pubblicazioni
analoghe in tedesco e inglese. In ogni caso è sempre stato uno studio
riservato a pochi specialisti. Si ritiene sia il momento di renderlo
più accessibile a vasto livello, anche per la grande portata culturale
che esso riveste. Comunque si risolva il problema dei testi originali
del Nuovo Testamento, se mai si risolverà, il problema non si può
eludere: Gesù e tutti gli autori di quei libri erano di madre lingua
aramaica e quindi pensavano e parlavano secondo le regole di questa
lingua.

Riassumendo, ci sono almeno cinque motivi per cui è utile
studiare questa lingua per poter leggere i Vangeli scritti in essa:

1. Il primo e il più importante, anche se la versione è fatta dal
greco, è che la Peshitta ci presenta i detti e i fatti di Gesù Cristo,
in una lingua radicalmente simile a quella da lui parlata.

2. In
secondo luogo la Peshitta, se si ritiene che sia la versione fatta dal
greco, è la prima traduzione fatta in un’altra lingua. Perciò il testo
siriaco è importante per capire la forma più antica del Nuovo
Testamento. Uno studioso della Bibbia, Harris, ha affermato: “Chi cerca
di risolvere i problemi della diversità del Nuovo Testamento nel II
secolo, senza studiare il testo siriaco, sarà senza dubbio vittima di
una delusione”.

3. In terzo luogo lo studio del Nuovo Testamento
in siriaco permette agli Occidentali di percepire le parole di Gesù
pronunciate in modo formalmente semitico, lontano da elementi
ellenizzanti.

4. In quarto luogo il testo siriaco è uniforme e
risolve tutta la problematica dei semitismi, ebraismi e aramaismi
contenuti nel testo greco, in modo esplicito e implicito.

5. Last
but not least, è utile e opportuno conoscere il siriaco, per la
similitudine con l’ebraico. Così si crea un ponte di collegamento
efficace tra la teologia cristiana e quella ebraica; ad esempio il
secondo versetto del Padre Nostro Sia santificato il tuo nome, può
essere letto alla luce della santificazione del nome, argomento che ha
impegnato per secoli gli studiosi ebrei. Inoltre si può seguire l’
evoluzione del linguaggio dall’ebraico all’aramaico; ad es. la parola
hesed – grazia è tradotta in siriaco con taybutha – bontà.

Ancora
alcune parole su un argomento che mi ero riservato di trattare nella
parte finale: perché nel Nuovo Testamento si trovano semitismi,
ebraismi e aramaismi? Secondo Schleiermacher e tutti gli esegeti il
motivo è dovuto al fatto che gli autori del Nuovo Testamento non
conoscevano il greco colto, ma soltanto il greco koiné, la lingua
parlata dal popolo. Si afferma ciò anche perché i discepoli, nella
massima parte, praticavano un mestiere umile, come quello di pescatore.
Qui bisogna stare attenti: nell’antichità, qualsiasi ebreo, anche il
più colto, doveva praticare un mestiere manuale che gli garantisse un
reddito sufficiente per vivere. Così Gesù era falegname e Paolo era
fabbricatore di tende. L’ebreo che insegnava la Torah e i profeti
doveva farlo gratuitamente. Un altro esempio caratteristico è quello di
Rabbi Hillel, il più grande interprete della Scrittura ai tempi di Gesù
Cristo. Egli era un semplice muratore, ma non per questo era meno
colto. Quindi il fatto che i discepoli di Gesù fossero nella
maggioranza pescatori, non esclude che alcuni di essi potessero essere
anche persone istruite. Per fare ancora un esempio consideriamo l’
apostolo Giovanni.

Per sapere chi egli fosse è opportuno esaminare
attentamente Gv 18, 15 – 16:

“Intanto Simon Pietro seguiva Gesù
insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal
sommo sacerdote (gnōstòs tô arkhiereî) e perciò entrò con Gesù nel
cortile del sommo sacerdote; Pietro invece si fermò fuori, vicino alla
porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote ( ho
gnōstòs toû arkhieréōs), tornò fuori, parlò alla portinaia e fece
entrare anche Pietro.” Senza entrare in dettagli qualsiasi vocabolario
di greco traduce gnōstòs tô con conosciuto da e gnōstòs toû con parente
di. Quindi Giovanni non soltanto era conosciuto dal sommo sacerdote
Caifa, ma era anche suo parente. Si può quindi presumere con forte
probabilità che Giovanni fosse una persona colta.

Per qual motivo
allora i Vangeli non usano il greco classico, ma usano la forma koiné,
con calchi di forme semitiche, ebraiche e aramaiche? Una soluzione del
problema, già prospettata, è che volessero essere vicini alla gente. Ma
c’è anche un’altra spiegazione che, per il momento, formulo per
ipotesi: gli autori di quei libri volevano conservare intatto il
linguaggio di Gesù, in modo che per qualsiasi evenienza, fosse
possibile ricostruirlo, qualora fosse venuto a mancare il testo dei
Vangeli in aramaico. Tuttavia, facendo ciò essi hanno creato tre nuove
lingue cristiane: il siriaco, il greco del Nuovo Testamento e il latino
ecclesiastico. Non è un caso che i grammatici del neogreco considerano
il greco del Nuovo Testamento la prima forma di “greco demotico” e la
fonte dello stesso.

DARIO BAZEC

e-mail: [email protected]


RispondiCitazione
Affus
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apendice I " IL PEDIGREE DELLA PESCHITTA DEL DIATESSERON"
di Steve Caruso

ultimo aggiornamento
15.12.2004.

“Questo è un adattamento di un articolo scritto da
Paul Younan in Peshitta.org, usato con suo permesso.

Si legga presso
qualsiasi enciclopedia o commento del Nuovo Testamento e si avrà
occasione d’imbattersi in riferimento a Rabbula (morto 433 A.D.), il
"Tiranno monofisita di Edessa", che egli presumibilmente "soppresse" il
Diatessaron - che secondo la maggior parte di non tutte le scuole dei
moderni studiosi era il Vangelo "più antico" in aramaico.

Se
dovessimo credere a ciò, come si spiega allora la seguente conclusione
a una traduzione araba del Diatessaron fatta nell'undicesimo secolo
dalla Chiesa dell'Est?

“Qui finisce il Vangelo che Taziano ha
compilato e chiamato Diatessaron, cioè, il Quadruplice, una
compilazione dei quattro Vangeli dei Santi Apostoli, gli Evangelisti
eccellenti (la pace sia su di loro). È stato tradotto dal sacerdote
eccellente ed istruito, Abu'l Faáraáj Abdulla ibn-at-Tayyib (possa Dio
concedergli il suo favore), dal siriaco in arabo da un esemplare
scritto Isa ibn-Ali' al-Motatabbib, discepolo di Honain ibn-Ishaq (Dio
abbia misericordia di entrambi). Amen”.

Ciò proviene da una
traduzione araba del Diatessaron fatto da Ibn-at-Tayyib (morto 1043).
Egli era un uomo ben noto, un monaco ed erudito della Chiesa dell’Est,
che era segretario di Eliyah I, Patriarca della Chiesa dell’Est. Honain
(anche accennato nella conclusione) era un medico famoso, un membro
della Chiesa dell’Est, che è ben noto per i suoi contributi alla
medicina moderna. Di questa traduzione araba oggi abbiamo 7
manoscritti. Quattro di loro sembrano contenere la conclusione citata.
Il manoscritto più ben noto è denominato il “Borgian" ed attualmente si
trova nella Biblioteca Vaticana (ed è elencato nella serie dei Padri
Preniceni.)

Così qui abbiamo un traduttore vivente nell'undicesimo
secolo (600 anni interi dopo la morte di Rabbula) che dichiara
chiaramente di aver tradotto il Diatessaron siriaco (aramaico) in
arabo. Si osservi, peraltro, che questa è l'unica traduzione del
Diatessaron che dichiara esplicitamente di essere stata fatta dal
siriaco (aramaico). Nessun altro manoscritto rivendica altrettanto (né
il latino né l’armeno). Inoltre, si noti che l'armonia araba comincia
con Gv 1,1, che sappiamo essere una caratteristica dell’armonia di
Taziano.

Ma si è pensato che Rabbula "avesse soppresso" il
Diatessaron, o no? Il materiale datato nelle enciclopedie e nei
commenti dichiarano questo. Infatti, queste sono le parole di Rabbula,
alla lettera:

“I presbiteri e i diaconi prestino attenzione che tutte
le chiese siano fornite di una copia del Vangelo separato e di questo
si dia lettura”. (Separato in contrasto con “il misto”, cioè il
Diatessaron).

La verità dei fatti è che, sebbene sia stato possibile
che Rabbula avesse avuto il potere di sopprimere il Diatessaron nel suo
piccolo angolo di mondo chiamato Edessa (in territorio bizantino),
difficilmente avrebbe potuto estendere il suo provvedimento in Persia e
distruggere le copie là esistenti del Diatessaron. La conclusione a una
traduzione araba successiva di 600 anni del Diatessaron aramaico
dimostra che Rabbula non ha soppresso il Diatessaron, almeno non nella
Persia in cui la Chiesa dell'Est ha regnato indipendente da lui e dai
suoi “maniaci” declamatori. Questa traduzione araba oppone così
“esattamente” la Peshitta “contro” la Vecchia Siriaca, che F.C. Burkitt
la trovò necessaria per fare l’accusa infondata che il testo della
traduzione araba dovesse essere stato alterato per farlo leggere come
la Peshitta.

Secondo il punto di vista di Burkitt, la Peshitta non
potrebbe essere esistita prima del tempo di Rabbula, così il
Diatessaron (scritto ca. nel 175 A.D.) non sarebbe stato possibile
leggerlo come la stessa Peshitta contro la cosiddetta “Vecchia
Siriaca”. Tutta questa accusa era senza un brandello di prova per
sostenere la sua teoria (simile alla sua teoria “Rabbula ha generato la
Peshitta”, che è già stata confutata da molti studiosi).

Ciò che ha
un significato perfetto è che un'armonia dei Vangeli necessariamente
avrebbe richiesto che i 4 Vangeli distinti siano realmente esistiti
prima dell'armonia. Questo è il buonsenso. Ciò che è ancora più
significativo è che un'armonia aramaica dei Vangeli, che era il
Diatessaron di Taziano, sia stata tessuta insieme dai 4 Vangeli
aramaici distinti. Delle 3 traduzioni sopravvissute del Diatessaron
aramaico (latino, armeno e arabo), quella araba è l’unica che è stata
fatta in una lingua semitica sorella. Il rapporto tra latino e aramaico
(o anche armeno e aramaico) è come il rapporto tra il cinese e
l'inglese. Il rapporto tra aramaico e arabo è bene documentato, poiché
la seconda è figlia della prima.[6] Poiché la traduzione araba di Ibn-
at-Tayyib è l’unica che sappiamo con sicurezza che è stata fatta
direttamente dall’aramaico e poiché suona come la Peshitta (tanto d’
aver infastidito Burkitt) e poiché sappiamo che un'armonia necessita di
una base dei 4 Vangeli distinti dai quali deve essere stata disegnata,
io rimetto all’approvazione che il Diatessaron aramaico di Taziano era
un'armonia dei Vangeli distinti in aramaico che generalmente troviamo
oggi nel canone della Scrittura che conosciamo come la Peshitta.

Il
“rasoio di Occam” è un principio logico che stabilisce che non si deve
aumentare, oltre a ciò che è necessario, il numero di entità richieste
per spiegare qualche cosa (“Entia non sunt multiplicanda sine
necessitate” N.d.T.). Cioè la spiegazione più semplice è solitamente
quella migliore. La spiegazione più semplice è che Taziano ha creato
un'armonia dei Vangeli della Peshitta. Questa armonia è esistita in
Persia almeno fino all'undicesimo secolo, quando è stata tradotta in
arabo. Allora è caduta in disuso presso il popolo. Ciò non era un
problema - poiché ci sono i Vangeli distinti in aramaico com’erano all’
inizio. L'armonia di Taziano era popolare in un periodo della vita
della Chiesa, proprio come oggi qualche numero di armonie contemporanee
dei Vangeli sono oggi popolari. Ma ciò non significa antidatare i
Vangeli della Peshitta.

Infatti, se dobbiamo credere alla prova
testuale nella traduzione araba (e non nell'opinione personale del
Burkitt), i Vangeli della Peshitta erano la base del Diatessaron che la
storia attribuisce a Taziano, perché dovrebbero allora i cristiani
arabofoni uniformare il Diatessaron ad un altro documento siriaco?

Ciò significa che i Vangeli della Peshitta risalgono al 175 A.D. o
ancor prima. Esattamente ciò che Burkitt ha rifiutato di credere”.

APPENDICE N. 2

Storia della Peshitta

di PAUL D. YOUNAN

La Peshitta è la Bibbia ufficiale della Chiesa dell'Est. Il nome
Peshitta significa in aramaico “diritto”, cioè il Nuovo Testamento
originale e puro. La Peshitta è l'unico testo autentico e puro che
contiene i libri del Nuovo Testamento che sono stati scritti in
aramaico, la lingua del “M
shikha” (il Messia) e dei suoi discepoli. In
riferimento all'originalità della Peshitta, le parole di Sua Santità
Mar Eshai Shimun, Patriarca Cattolico della Chiesa dell'Est, sono
ricapitolate come segue:

“Per quanto riguarda... l'originalità del
testo della Peshitta, come Patriarca e Capo della Santa Chiesa
Apostolica e Cattolica dell'Est, vogliamo dichiarare, che la Chiesa
dell'Est ha ricevuto le Scritture dalle mani degli stessi Apostoli
benedetti nell'originale aramaico, la lingua parlata da nostro Signore
Gesù Cristo stesso e che la Peshitta è il testo della Chiesa dell'Est
che è stato tramandato dai tempi biblici senza alcun cambiamento o
revisione.”

Mar Eshai Shimun

per Grazia, Patriarca Cattolico dell’
Est

5 aprile 1957

In riferimento all’aramaico, il Patriarca
Latino Massimo nel Concilio Vaticano II, ha dichiarato: “Cristo,
dopotutto ha parlato nella lingua dei suoi contemporanei. Ha offerto il
primo sacrificio dell’Eucaristia in aramaico, una lingua capita da
tutta la gente che lo ha udito. Gli apostoli e i discepoli hanno fatto
lo stesso e mai in una lingua diversa da quella dei fedeli riuniti.”

Queste rivendicazioni sono fortemente contestate nella cristianità
occidentale. L'idea comune sbagliata che il Nuovo Testamento sia stato
scritto originalmente in greco persiste ancora oggi in una vasta
maggioranza delle denominazioni cristiane. La maggior parte degli
studiosi e dei teologi riconoscono che l’aramaico era parlato da Gesù
Messia, dagli Apostoli e dagli Ebrei in generale, anzi molti esempi di
aramaico sopravvivono nei manoscritti greci del Nuovo Testamento.
Tuttavia, essi ancora asseriscono che il Nuovo Testamento sia stato
scritto in greco dagli Apostoli e dai discepoli del Messia.

La Chiesa
dell'Est ha rifiutato sempre questa affermazione. Noi crediamo che i
Libri del Nuovo Testamento originalmente siano stati scritti in
aramaico e poi successivamente siano stati tradotti in greco nell'ovest
dai cristiani Gentili del primo secolo, ma mai nell'est, dove l’
aramaico era la lingua franca dell'Impero Persiano. Inoltre sosteniamo
e asseriamo che dopo che i libri sono stati tradotti in Greco, gli
originali aramaici sono stati scartati, dato che ormai la Chiesa
dell'Ovest era quasi completamente Gentile e di lingua greca. Questo
non era il caso nell'est, che ha avuto una maggioranza ebraica
(particolarmente a Babilonia e Adiabene) per un periodo molto più
lungo. Anche quando la Chiesa dell'Est si è trasformata principalmente
in Gentile, l’aramaico è stato conservato e usato piuttosto che
tradotto in varie lingue vernacolari delle regioni ad est del fiume
Eufrate.

Anche ad ovest del fiume Eufrate, nella Terra Santa, la
lingua vernacolare principale era l’aramaico. Le letture settimanali
nella sinagoga, denominate “sidra” o “parashah”, con l’ “haftarah”,
sono stati accompagnate da una traduzione orale aramaica, secondo le
tradizioni fisse. Un certo numero di Targumim in aramaico infine furono
scritti, e alcuni di essi hanno carattere ufficioso e un’antichità
considerevole. La Gemara del Talmud di Gerusalemme è stato scritta in
aramaico e ha ricevuto la relativa forma definitiva nel quinto secolo.
Il Talmud Babilonese con i relativi commenti su soltanto 36 dei 63
trattati della Mishnah, è quattro volte più lungo del Talmud di
Gerusalemme. Queste Gemaroth con molto altro materiale sono state
riunite insieme verso la conclusione del quinto secolo e sono in
aramaico. Dal 1947, circa 500 documenti sono stati scoperti in undici
caverne del Wadi Qumran vicino alla costa nordoccidentale del Mare
Morto. Oltre che i rotoli ed i frammenti in ebraico, ci sono parti e
frammenti dei rotoli in aramaico. L' ebraico e l’aramaico, che sono
lingue sorelle, sono rimaste sempre le caratteristiche più peculiari
che contrassegnano la vita religiosa e culturale ebraica e cristiana
orientale, anche ai nostri tempi.

L’aramaico in cui è scritta la
Bibbia chiamata "Assakhta Peshitta", conosciuta come il testo della
Peshitta, è il dialetto della Mesopotamia nord-occidentale, come si è
evoluto e si è molto perfezionato in Orhai, una volta una città-regno,
successivamente denominata dai Greci Edessa e ora denominata in Turchia
Urfa. Harran, la città del fratello di Abramo Nahor, si trova 38
chilometri a sud-est di Orhai. La grande colonia degli Ebrei di Orhai e
le colonie ebraiche in Assiria, nel regno di Adiabene, la cui casa
reale si era convertita al giudaismo, possedeva la maggior parte della
Bibbia in questo dialetto, la Peshitta Tenakh. Questa versione è stata
accettata da tutte le Chiese dell'Est, che hanno usato e ancora usano l’
aramaico, fino all'India e precedentemente in Turkestan ed in Cina. La
Peshitta Tenakh è stato completata durante i periodi apostolici con le
Scritture del Nuovo Testamento.

Per questo motivo, io uso il testo
della Peshitta della Chiesa dell'Est, in cui seguirò la sequenza
orientale dei libri, che dispone le epistole generali (Giacomo, Pietro
e Giovanni) subito dopo gli Atti degli Apostoli e prima delle epistole
di Sha'ul (Paolo). La Peshitta non contiene quattro delle epistole
generali (2 Pietro, 2 e 3 Giovanni e Giuda), il libro dell’Apocalisse,
né la storia della donna colta in adulterio (Gv 8, 1-11). Queste
scritture non sono considerate canoniche dalla Chiesa dell'Est e non
sono state mai incluse nel Canone della Peshitta. Lo scritto usato sarà
l’Estrangela originale, senza indicazioni delle vocali che sono state
introdotte durante il quinto secolo.

PAUL D. YOUNAN

06/01/2000

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[1] Cfr. Gian Carlo Alessio, Istituzioni di filologia medievale.pdf,
pag. 5.

[2] Taziano e il Diatessaron. (Siria, II sec.), scrittore e
apologeta greco-cristiano. Fu a Roma, amico e discepolo di Giustino.
Tornò in Oriente verso il 172. Di lui sono rimasti il Discorso ai
Greci, violenta requisitoria contro la cultura greca antica, che,
secondo Taziano, era una corruzione dei principi mosaici, e il
Diatessàron, fusione dei 4 Vangeli. Di quest’opera è andato perso l’
originale e sono rimaste traduzioni in persiano, arabo, latino e greco
(frammenti, ma importanti perché risalgono al III secolo). Il titolo
deriva dal greco dià tessáron, attraverso i quattro. Il testo fu in uso
fino all’inizio del V sec. fra i cristiani della Siria. Dell’opera,
assai diffusa, in rielaborazioni arabe e latine, rimangono ora soltanto
un brevissimo frammento in greco, frammenti siriaci (soprattutto nel
commento di S. Efrem), una versione araba dell’XI sec. tradotta dal
siriaco e un rifacimento in latino.

[3] Friedrich D.E. Schleiermacher,
Die kompendientartige Darstellung von 1819 – Hermeneutik, XIII. 5.
Anwendung auf das Neue Testament, L’esposizione in forma di compendio
del 1819 – Ermeneutica, XIII. 5. Applicazione al Nuovo Testamento, sta
in Friedrich D.E. Schleiermacher, Ermeneutica, Introduzione,
impostazione editoriale, traduzione e apparati di Massimo Marassi,
Testo tedesco a fronte, Rusconi Libri s.r.l., Milano, 1996, pagg. 365-
366.

[4] Svet. De vita Caesarum, V, 16.

[5] NB: A proposi
to della
costruzione alla latina cfr. Viereck, Paul, Sermo Graecus quo Senatus
populusque Romanus magistratusque populi Romani usque ad Tiberii
Caesaris aetatem in scriptis publicis usi sunt examinatur, Gottinga,
1888, pag. 60. Premesso che Viereck studiò dei senatusconsulta rimasti
solo in greco e che gli originali perduti erano sicuramente in latino,
in buona sostanza egli esaminò, fra l’altro, come i magistrati romani
traducevano in greco la parola senatusconsultum. Talvolta era tò tēs
synklētou dógma, altre volte era dógma synklētou. Così Viereck
commentava l’errore: “In generale, chi esamina attentamente il titolo,
può concedere che i Romani preferissero omettere l’articolo; ciò si
spiega peraltro facilmente, perché la lingua latina è priva di
articoli.”

[6] Qui Steve Caruso è molto sintetico; dire che l’
arabo discende dall’aramaico è abbastanza impreciso. Tuttavia non si
può ignorare che, confinando l’Arabia del Nord con il Medio Oriente,
per secoli si formò una zona mistilingue, con influenze reciproche tra
una lingua e l’altra. Siccome l’arabo è una delle ultime linggue
semitiche a esser state scritte, si presume, non senza fondamento, che
molte parole ed espressioni siano state assimilate dall’aramaico.


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