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L'altra verità sulla Uno Bianca


Tao
 Tao
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«Riaprire le indagini». Con un maniacale lavoro di ricomposizione attraverso gli atti dei processi, l'ex pm di Bologna, primo titolare dell'inchiesta, torna a far valere la sua visione dei fatti. E a smontare pezzo per pezzo la verità processuale

A convincere il giudice Giovanni Spinosa, oggi presidente del tribunale di Teramo, che era giunto il momento di riprendersi la parola riguardo la vicenda della "Uno bianca" fu un servizio televisivo Rai di due anni fa che acquisiva come verità storica il solo punto di vista della banda Savi, unica responsabile di 82 delitti, 22 omicidi, centinaia di feriti e un bottino di quasi due miliardi di lire.

Un fiume di sangue che per sette anni ha terrorizzato l'Emilia Romagna, regione simbolo nell'Italia delle stragi di stato e di mafia, a metà tra gli anni '80 e '90. Perciò oggi, diciassette anni dopo, l'ex pm della procura di Bologna che per primo venne incaricato di seguire l'inchiesta fino a quando la sua pista non cozzò contro la "verità" dei fratelli Savi, ricostruisce i crimini in modo quasi maniacale utilizzando, nel libro «L'Italia della Uno bianca, una storia politica e di mafia ancora tutta da raccontare» (ed. chiarelettere), solo gli atti processuali. Un lavoro certosino che forse, per essere giudicato, avrebbe bisogno di un contraddittorio. Ma è proprio questo che il giudice Spinosa chiede: riaprire le indagini, per riscrivere la storia vera della Uno bianca.

Cosa c'è di nuovo nel suo libro?

La ricostruzione dell'intera storia, il superamento della parcellizzazione dei processi derivata da indagini parcellizzate. I fatti sono già acquisiti; per esempio la sentenza del processo Medda assume che Marco Medda (esponente della Nco, ndr ) e i Santagata fossero assieme ai Savi in occasione dell'eccidio del Pilastro (tre giovani carabinieri uccisi senza movente nel 1991, ndr ) ma vennero assolti perché non si poteva provare la prevedibilità della furibonda reazione dei fratelli Savi. Credo di aver dato prova che le sistematiche bugie dei Savi erano frutto di un accordo precedente. E questo apre scenari terrificanti su come la vicenda della Uno bianca si colloca nello sfondo criminale che va da giugno '88 a novembre '94, anno in cui finisce l'epoca dello stragismo di matrice mafiosa.

Lei sostiene che la banda Savi non equivale a quella della Uno bianca, ma che su di loro c'è un «terzo livello»... In sette anni cambiano molte cose ed è una follia logica considerare i personaggi sempre uguali a se stessi.

Schematicamente si possono individuare tre fasi nella storia della Uno bianca: la prima è quella della banda delle Coop, con contestuali assalti alle Coop e ai caselli autostradali: penso di avere dimostrato che nelle Coop i fratelli Savi si limitavano a fornire le armi, pur continuando a fare altre rapine in forma incruenta. Lo ammette anche Alberto Savi. Una seconda fase è quella del furore omicida senza finalità di lucro, degli assalti razzisti ai campi nomadi, dell'omicidio dei senegalesi, dell'eccidio del Pilastro, ecc, dove esplode un terrorismo spaventoso: è una fase in cui i fratelli Savi dimostrano una partecipazione più diretta ma sempre insieme ad altre persone non identificate. Ma soprattutto è la fase delle rivendicazioni della Falange armata che sponsorizzerà l'azione criminale dei fratelli Savi dal 1990 al 28 agosto del 1991, giorno della sparatoria contro i poliziotti a Gradara.

Su 500 rivendicazioni della Falange armata 221 sono riferibili alla Uno bianca, secondo i dati dello Sco. Nell'agosto '91, dopo la sparatoria di Gradara, la Falange armata anticipa con un comunicato che il «commando» Uno bianca viene «disattivato». E in effetti da quel momento la Uno bianca cambia radicalmente condotta ed entra nella fase delle rapine in banca. È la fase conclusiva e anche la più fruttuosa. L'unica, io ritengo, in cui l'azione dei fratelli Savi coincida con quella della Uno bianca. In questa terza fase però la Falange armata prende sistematicamente le distanze dall'azione della Uno bianca; dal '91 invece - anno in cui il pentito Pulvirenti colloca la scelta di Cosa nostra di avvalersi della Falange armata - sponsorizza le azioni stragiste, smette di essere l'interfaccia mediatico della Uno bianca e diventa l'interfaccia mediatico dello stragismo di Cosa nostra.

Ai tre argomenti in sostegno della verità processuale - li hanno arrestati, hanno confessato tutto, dopo non è accaduto più nulla - lei contrappone la "evidenza" dei Savi che invece si sono di fatto consegnati, e che hanno confessato più di ciò che avevano commesso. Però è vero che dopo il loro arresto la banda della Uno bianca cessa l'attività. Una "scelta politica»?

Nel '94 una certa strategia di terrorismo di Cosa nostra, e dei suoi referenti, va a esaurirsi. Supporre che Cosa nostra, ma ancor più i corleonesi, abbiano agito sempre da soli, senza referenti interni alle istituzioni, è smentito dai fatti. Era il periodo della trattativa statomafia.

Quali interessi aveva la mafia in Emilia Romagna e perché questa regione era così importante nella strategia eversiva?

Le prime bombe terroristiche di Cosa nostra al di fuori della Sicilia risalgono al dicembre '84 (Rapido 904) e non al '93, come normalmente si pensa. Vi è, dunque, una accettazione di una strategia terroristica che risale nel tempo, non riconducibile alla sola Cosa nostra. Perché terrorismo vuol dire destabilizzazione dello Stato, paura, incertezza, sconcerto, senso d'impotenza, simbolismi finalizzati a affermare soggettività criminali. Ma anche distrazione e delegittimazione di risorse investigative, proprio mentre la grande criminalità organizzata espandeva i propri interessi economici. In quegli anni, ad esempio, i casalesi s'insediavano in un ricco territorio fra le province di Modena e Bologna. Desta, allora, inquietudine e sconcerto scoprire che i Savi erano legati ai casalesi. Ed ancora più sconcerto desta la delegittimazione delle indagini che l'avevano dimostrato. L'Emilia Romagna era un terreno vergine da conquistare ma anche un simbolo politico. Come era un simbolo la stessa Uno bianca che Alberto Savi descrive come «un timbro», o le Coop, emblema culturale della regione. Ma per capire i simboli bisogna saper distinguere tra le rapine riconducibili ai modesti rapinatori che erano i fratelli Savi, e quelle della banda delle Coop dove si sparava veramente, con le armi dei Savi.

La banda delle Coop, secondo la corte d'Assise del processo Amato, si riuniva a Parco Covignano che, allora, era un noto locale frequentato da fascisti condannati per il depistaggio dell'Italicus, capi mafia provenienti da Catania per preparare queste rapine con alibi di ferro, massoni che poi vengono arrestati, latitanti calabresi, rapinatori. E vi erano collegamenti con poliziotti che telefonavano e avvisavano. Questo è il contesto che era stato individuato, e che viene travolto con una totale delegittimazione delle indagini e di chi le faceva. Che è lei.

Sì, ma guardi, mi hanno accusato di cercare rivincite. I processi che ho fatto mi hanno dato anche ragione, oggi faccio il presidente di Tribunale, non ho nessuna rivincita da cercare. Credo solo che ci sia un pezzo di storia che deve essere riscritta perché la vicenda della Uno bianca è importante per l'Italia. Dire che i Savi hanno fatto tutto da soli, non solo nell'ipotesi della "impresa criminale di natura familiare" ma anche nell'ipotesi delle "schegge impazzite", ingaggiati da qualcuno, non sta in piedi. E' una vicenda molto più complessa.

Oggi, alla luce di un nuovo sguardo d'insieme, ci sarebbero i presupposti per riaprire il processo?

Penso di si, se si ha la capacità di capire che Cosa nostra non era un partito siciliano e che in quegli anni ha agito in combutta con pezzi deviati dello Stato.

Ma perché i Savi non parlano?

Intanto i Savi hanno già par
lato ma non li hanno ascoltati, né sono state approfondite le loro rivelazioni. Inoltre, hanno la garanzia che tra un po' potranno uscire perché non è stato contestato loro alcun reato di associazione mafiosa; sono stati condannati solo come associazione per delinquere, insomma un'impresa criminale familiare senza alcun collegamento esterno.

Se fosse accertato il loro rapporto con ambienti mafiosi la loro posizione cambierebbe. Alcuni depistaggi - lei approfondisce quelli del carabiniere Macauda e del poliziotto stravagante di Bologna - sono stati accertati. Anche in questi casi si tratta di iniziative autonome di singoli? Cosa avveniva nella questura di Bologna?

No, senta, non commettiamo l'errore di localizzare su Bologna questa vicenda che non è un fenomeno locale. Non credo che la questura di Bologna sia peggiore di tante altre, come la descriveva la relazione Serra. Si potrebbe parlare allora di cose strane avvenute nel commissariato di Rimini, come il fucile di Alberto Savi che erroneamente risultava ceduto con un mese di anticipo, in modo da non apparire nelle sue disponibilità alla data dell'estorsione Grossi (1987). Analizzando invece il depistaggio di Macauda, che usa la medesima tecnica dei collegamenti balistici messi in atto dalla stessa banda della Uno bianca, non si può più pensare che sia un visionario. C'è stata un'operazione di depistaggio spaventosa e raffinatissima. Ma non è stata un'operazione locale.

Nel 1995 lei ebbe un diverbio con Antonio Di Pietro che aveva stilato una relazione per la Commissione stragi. C'è stata anche la volontà politica di chiudere in fretta questa vicenda? Di Pietro in pochi mesi ricostruisce una storia su cui si indagava da anni, ritenendo che i Savi avevano fatto tutto da soli e negando qualsiasi legame con la criminalità organizzata.

L'impressione è che Di Pietro si sia molto fidato dello Sco che aveva coordinato l'arresto dei fratelli e le indagini successive. Certamente lo ha fatto in buona fede, senza alcuna volontà politica.

È un libro un po' dietrologico, il suo.

No, guardi, è un libro che racconta una realtà davvero complessa attraverso atti dei processi. Racconta fatti: non ho mai citato fonti giornalistiche, non ho mai usato un confidente né punti di vista personali. Se avessi usato quello che mi raccontavano in quegli anni e che non ho mai potuto dimostrare avrei scritto un altro libro, forse anche più di uno. E mi sarei divertito di più.

Eleonora Martini
Fonte: www.ilmanifesto.it
23.09.2012


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Truman
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Già nel 2005 qualcuno ci segnalava un qualche senso nei fatti citati

www.comedonchisciotte.org/site//modules.php?name=News&file=article&sid=640


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