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Cile, il prezzo della modernità


Tao
 Tao
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Dopo i funerali di Pinochet Il golpe del 1973 ha aperto la strada all’attuale benessere Ma questo è avvenuto “nonostante” il regime dittatoriale, non “grazie” a esso

Il caso ha voluto che mi trovassi a Santiago del Cile nelle ore delle esequie del generale Augusto Pinochet. Con una giusta decisione Michelle Bachelet non gli ha concesso un funerale di Stato e l’ex dittatore ha ricevuto solo gli onori delle istituzioni militari in qualità di ex comandante in capo dell’esercito. Ma neppure le forze armate cilene hanno voluto identificarsi appieno con lui, come dimostra il fatto che abbiano fatto dimettere su due piedi suo nipote, il capitano Augusto Pinochet Molina, per aver pronunciato un incongruo discorso al funerale del nonno. Benché parecchie migliaia di nostalgici siano sfilati davanti alla salma esposta nella Scuola militare, tutti i sondaggi di questi giorni dimostrano che la maggioranza dei cileni condanna quel regime segnato da violazioni dei diritti umani, corruzione e illeciti arricchimenti. Ma la gran parte dell’opinione pubblica cilena e internazionale la sua condanna l’aveva già espressa e Pinochet passerà alla storia non come «il generale che salvò il Cile dal comunismo» (così dicevano alcuni striscioni dei suoi sostenitori), bensì come il caudillo d’una tirannia che ha assassinato almeno 3500 oppositori, ne ha torturati e messi in carcere a migliaia, ne ha obbligati altrettanti all’esilio e, per 17 anni, ha governato con una brutalità senza attenuanti un Paese che aveva alle spalle una tradizione di legalità e di convivenza democratica difficile da trovarsi in America Latina. Il mito che lo ha dipinto come un dittatore «onesto» s’è ormai eclissato da tempo, da quando s’è scoperto che aveva conti segreti all’estero - nella Banca Riggs di Washington - per circa 28 milioni di dollari. In questo incarnando perfettamente il prototipo del dittatore latino-americano assassino e ladro.

I violenti incidenti che si sono verificati nelle strade di Santiago tra sostenitori e avversari il giorno della sua morte sono la prova lampante delle ferite e delle divisioni lasciate nella società cilena dalla dittatura militare e di quanto siano lenti i processi di cicatrizzazione e di riconciliazione. Ancora adesso che il Cile è una democrazia moderna e ricca, in piena espansione economica - uno Stato molto diverso da quello nel quale Pinochet prese il potere con un golpe militare - i rancori e gli odi sotterranei nati durante il suo governo (e alcuni anche durante quello precedente, nella stagione di Unidad Popular) continuano a dividere il Paese e basta il minimo pretesto per agitare la minaccia che tornino in superficie. La condanna ferma e univoca di quel tirannello di Pinochet e del suo infame sistema di governo non deve, comunque, né giustificare né far dimenticare i gravissimi errori compiuti da Salvador Allende, senza i quali non si sarebbe creato quel clima di governo vacante, di violenza e di demagogia che portò molti cileni ad appoggiare il putsch di Pinochet. Allende fu a capo d’un esecutivo legittimo, nato da ineccepibili elezioni, ma appoggiato solo da poco più d’un terzo dell’elettorato. Il suo mandato non gli attribuiva l’autorità di realizzare quella rivoluzione socialista che tentò di costruire - guardando al modello cubano - e che produsse un’iperinflazione, causa d’insicurezza e di rabbia nella classe media, e una polarizzazione politica che, a differenza di altri Paesi sudamericani, il Cile non aveva mai conosciuto. Ciò spiega perché il golpe militare non sia stato respinto dal nucleo più consistente d’una società che, sino ad allora, sembrava avere solide convinzioni democratiche e che invece, in buona parte, o incrociò le braccia o si schierò a favore della sollevazione militare. È anche vero che la vergognosa dittatura di Pinochet aprì al Cile, in modo insperato, un percorso di miglioramento sotto il profilo dell’economia e della modernizzazione. Non bisogna stancarsi di ripetere che ciò avvenne non grazie al regime dittatoriale, ma nonostante esso: per una concatenazione di circostanze, specifiche del Cile, che portarono a una situazione inconcepibile in qualsiasi satrapia militare: e cioè che il regime affidasse la gestione dell’economia a un gruppo di economisti civili - i Chicago Boys - e consentisse loro di varare riforme radicali - apertura delle frontiere, privatizzazione di pubbliche imprese, integrazione nei mercati mondiali, distribuzione della proprietà, incentivi a investire, riforma del lavoro e della sicurezza sociale - che indirizzarono il Paese lungo quel cammino che l’ha condotto alla prosperità di cui gode ora.

La vera modernizzazione del Cile, comunque, ebbe inizio dopo, con la caduta della dittatura. Allora il primo governo di concertazione democratica, nel 1990, mentre da un lato distruggeva l’intero apparato di repressione e di censura realizzato da Pinochet, dall’altro manteneva in piedi gli elementi essenziali - sebbene perfezionati nei particolari - del modello economico. Quando l’elettorato cileno ratificò con i propri voti quella politica e, di fatto, si manifestò un consenso nazionale su queste linee direttrici - democrazia politica ed economia di mercato - il Cile incominciò a lasciarsi finalmente alle spalle quel sottosviluppo nel quale ancora è impantanata la maggior parte dei Paesi sudamericani.

Ci sono dei folli convinti che, affinché un Paese sottosviluppato incominci a progredire, occorra un Pinochet. È stata la certezza espressa dai «pinochetisti» peruviani seguaci di Fujimori. È vero che Fujimori realizzò qualche riforma economica, ma tutte - senza eccezione alcuna - furono rese inutili dalle vertiginose ruberie e dalle dementi violenze che le accompagnarono. La stessa cosa, con qualche variante, si può affermare per tutti quei regimi che hanno preteso di ispirarsi al modello «pinochetista». Non esiste un modello «pinochetista». Un Paese non ha bisogno di vivere una dittatura per diventare moderno e raggiungere il benessere. Le riforme compiute da una tirannia sono realizzate a prezzo di atrocità e d’una serie di conseguenze etiche e civili infinitamente più costose dello status quo. Perché non esiste vero progresso senza libertà e legalità, né senza un chiaro appoggio alle riforme da parte d’una opinione pubblica convinta che i sacrifici che queste comportano sono necessari se si vuole uscire dalla stagnazione e prendere il volo. La mancanza di questa persuasione e la resistenza passiva della gente ai timidi o maldestri tentativi di modernizzazione spiegano il fallimento dei cosiddetti «governi neo-liberali» in America Latina e di fenomeni come quello del tracotante comandante Chavez in Venezuela.

Il cadavere del nonagenario Pinochet è, ormai, una figura archeologica, come certamente sarà, più prima che poi, quella di Fidel Castro? Sparirà con essi la spaventosa genia della quale entrambi sono figure emblematiche? Niente potrebbe rallegrarmi di più, ma non ne sono tanto sicuro. È vero che oggi, in America Latina, tutti i governi - quello di Chavez compreso - con l’eccezione di Cuba, sono nati legittimamente. Ed è anche vero che gran parte dei governi di sinistra attualmente al potere rispettano le regole della democrazia e le costituzioni. Si tratta, indubbiamente, d’una novità positiva. Il problema è che la democrazia politica senza lo sviluppo dell’economia ha vita breve. La povertà, la disoccupazione, l’emarginazione minano il sostegno popolare d’una democrazia che non riscuota successi in campo sociale e provocano frustrazioni e rancori così forti da poterne, addirittura, causare il crollo. Il populismo messo in mostra con vanto da parecchi di questi governi è un ostacolo insuperabile per raggiungere il vero progresso, anche in Paesi come il Venezuela, che pure la provvidenza ha beneficiato con l’oro nero. Voglia il cielo che la tragica storia di Allende e di Pinochet non si ripeta, né in Cile, né in nessun altro luogo.

MARIO
VARGAS LLOSA
Fonte: www.lastampa.it
28.12.06


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