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Dalla corsa all’oro indizi di una inflazione globale


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Come sono lontani i tempi nei quali la quotazione dell’oro, all’interno del “gold exchange standard” nato a Bretton Woods nel 1944, era fissata a 35 dollari l’oncia e per comprare una sterlina ci volevano 3 dollari. Oggi l’oro quota 1350 dollari. La decisione di Richard Nixon, il 14 agosto 1971 di decretare la non convertibilità del dollaro in oro, vista l’enorme quantità di petro-dollari in circolazione nel mondo, rappresentò una data chiave nella storia del mondo e della finanza internazionale.
Da quella data, il dollaro, che quotava 625 lire, e l’oro cominciarono la loro inarrestabile ascesa che per il biglietto verde in questi 40 anni ha avuto non pochi alti e bassi per la percezione della debolezza insita dell’economia Usa, gravata da un disavanzo commerciale e da un debito pubblico enormi. Ma anche per l’irrompere di due nuove monete come l’euro e lo yuan.

Poi venne la guerra del Kippur del 1973 e il susseguente blocco delle forniture di greggio da parte dei Paesi arabi dell’Opec, per punire apparentemente il sostegno offerto dall’Occidente a Israele. In realtà la crisi petrolifera, che causò un’inflazione superiore al 10%, venne spinta soprattutto dalle compagnie petrolifere anglo-americane che non si accontentavano più di prezzi di vendita troppo bassi per permettergli di lucrarvi alti profitti.
Oggi l’oro quota oltre 1.300 dollari l’oncia e la sua corsa, sia pure con le inevitabili soste e ripartenze, sembra senza fine, dopo aver toccato giorni fa il record dei 1364 dollari. Un’ascesa del 21% rispetto all’inizio dell’anno che però non ha impedito ad investitori e speculatori, le due figure non sono necessariamente coincidenti, di proseguire negli acquisti.

La corsa all’oro resta comunque uno dei fenomeni più ricorrenti dei periodi di crisi e quella in cui siamo immersi è appunto una crisi devastante. Da quando l’uomo esiste l’oro è infatti il bene di rifugio per eccellenza. E allora, per cercare di capire quali sono gli scenari futuri, bisogna vedere chi sono i principali acquirenti del metallo giallo. A comprare, come è noto, è soprattutto la Cina che da anni sta trasformando le proprie riserve valutarie in oro. Pure l’India però non scherza. Ma ci sono anche migliaia di grandi e piccoli investitori privati hanno seguito l’esempio cinese, comprando materialmente i lingotti e non limitandosi alla compravendita dei futures che li rappresentano.

Questo attivismo generalizzato offre due chiavi di lettura coincidenti. La prima nasce dalla convinzione che il prezzo dell’oro continuerà a salire perché sono sempre di più le persone, gli Stati e le società finanziarie e industriali, convinte che esso rappresenti l’unico bene rifugio che risulterà sempre e comunque commerciabile. Una settimana fa, un esperto del settore arrivava addirittura a sollevare l’ipotesi di una quotazione a 10 mila dollari. La conseguenza logica che se ne potrebbe trarre, la seconda ipotesi, è che siamo in procinto di essere travolti tutti una crisi economica spaventosa e da una inflazione caratterizzata da tassi a due cifre e che l’unica strada che può permettere di tutelarsi è quella di investire nel bene di rifugio per eccellenza.

A preoccupare Pechino da anni, che pure la sostiene comprandone i titoli di Stato, è la debolezza dell’economia Usa, tra debito pubblico e disavanzo commerciale. Questo stato di cose si unisce alla difficoltà delle famiglie americane (costrette ad usare i propri risparmi per pagare i debiti e il mutuo per la casa) e al crollo degli investimenti con gli imprenditori che non rischiano più e si limitano ad amministrare l’esistente. L’unico settore industriale che tira è quello degli armamenti. E questo potrebbe essere propedeutico ad una nuova guerra, nella quale l’obiettivo, il nemico da abbattere, verrebbe trovato nell’Iran. Una guerra che potrebbe rappresentare l’occasione per fare ripartire gli investimenti e favorire la crescita economica interna. Nel dicembre 1941, il mese di Pearl Harbor, il New Deal di Roosevelt era sostanzialmente fallito visto che i disoccupati negli Usa erano in numero maggiore che nel gennaio del 1933 quando il nuovo presidente si insediò alla Casa Bianca. Fu soltanto l’intervento in guerra che salvò gli Usa dal disastro. Oggi Obama e i suoi, con i repubblicani al traino, sono tentati dalla stessa opzione, soprattutto in considerazione del fatto che con l’inflazione che si scatenerebbe a livello globale a seguito di una guerra contro l’Iran, si ridurrebbe massicciamente in termini reali l’ammontare del disavanzo e del debito pubblico Usa, seppure con il dollaro ridotto a carta straccia. L’unica obiezione che si potrebbe opporre a tale scenario è che per realizzarsi esso avrebbe bisogno di qualcuno disposto a comprare i titoli di Stato Usa e finanziare in tal modo le strategie di Wall Street e del suo maggiordomo Barack Obama. Ma è difficile che gli investitori europei e cinesi siano disposti a caricarsi il peso di una operazione che va contro i loro interessi e che anzi li danneggia.  
 
Filippo Ghira
Fonte: www.rinascita.eu
Link: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=4310
8.10.2010


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