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Dopo la Fed, c’è un nuovo stimolo in arrivo per il pil Usa


Tao
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Shale gas e shale oil: l’energia a basso costo rilancia la manifattura. Studio per Harvard di Maugeri (ex Eni)

Nelle prossime settimane la volatilità dei mercati si potrà anche accentuare, complice un’interpretazione fin troppo pessimista delle mosse della Federal reserve, ma nel medio-lungo termine gli Stati Uniti avranno a disposizione un’arma (affatto segreta) per sostenere l’economia reale: la duplice rivoluzione energetica dello shale gas e dello shale oil, cioè il gas e il petrolio ottenuti da scisti bituminosi. E se le politiche straordinarie della Banca centrale guidata da Ben Bernanke sono state seguite e reinterpretate in tutto il mondo, con più baldanza nel Regno Unito e in Giappone e con maggiore cautela in Europa, è certo che il nuovo boom energetico americano non sarà replicabile negli altri paesi occidentali. E’ questa la conclusione di uno studio che Leonardo Maugeri – dal 2002 al 2010 direttore dell’area Strategie e Sviluppo dell’Eni, fino a metà 2011 presidente della branca petrolchimica del Cane a sei zampe (Polimeri Europa) e oggi Research Fellow al Belfer Center for Science and International Affairs di Harvard – pubblicherà la prossima settimana per l’università statunitense.

Maugeri, in una conversazione con il Foglio, spiega che “oggi i mercati interpretano in modo estremo ogni parvenza di notizia” e che soltanto così è spiegabile il repentino ribasso delle Borse dopo gli annunci di Bernanke di mercoledì scorso: “Il governatore della Fed non ha detto nulla di nuovo, in fondo. Le politiche di Quantitative easing rientreranno gradualmente non appena saranno raggiunti gli obiettivi di riduzione della disoccupazione. Ma i poli di incertezza nell’economia mondiale sono troppi, dalla bolla del credito in Cina alla ripresa che non c’è in Europa, e così la tensione speculativa prevale”. Ciò detto, lo stimolo monetario prima o poi finirà, e così lo studioso di Harvard torna a parlare del nuovo motore dell’economia nordamericana, l’energia: “Il tema dello shale gas, soprattutto negli Stati Uniti, è stato oramai sviscerato. L’ultima frontiera è quella dello shale oil”. Al petrolio intrappolato negli scisti bituminosi, rocce e argille di cui gli Stati Uniti sono ricchi, e al suo impatto sull’economia reale, è dedicata la sua ultima ricerca.

C’è un numero e una comparazione che aiutano a comprendere l’entità della rivoluzione energetica in corso, secondo Maugeri: “Nel 2007 la produzione di shale oil negli Stati Uniti era praticamente a zero. Oggi 1 milione e 700 mila barili di petrolio di questo tipo vengono estratti ogni giorno. Così ora il paese produce più petrolio della Libia e si avvicina ai ritmi dell’Iraq”. Il tandem shale gas-shale oil “finora non sarà stato rilevante come il sostegno della Fed, ma per l’economia reale lo sarà in futuro anche di più”. Con il gas si producono infatti elettricità e calore: “Gas e carbone sono le due principali fonti per l’energia elettrica. Fino a due anni fa il carbone era all’origine del 50 per cento della produzione di elettricità negli Stati Uniti, oggi la sua quota è scesa al 35 per cento, il resto viene dal gas naturale. E in prospettiva il valore del petrolio è anche maggiore”. Costi energetici tanto contenuti, con il gas che è passato da 8 dollari per mille piedi cubici nel 2005 a meno di 3 dollari nel 2012, “sono irripetibili nel mondo. Il risultato è che i settori ‘energy intensive’ sono avvantaggiati. Di conseguenza assistiamo a un revival della petrolchimica e dell’acciaio in particolare. Tale mutamento è all’origine del processo di ‘inshoring’ dell’industria manifatturiera, cioè del processo di rientro dopo anni di delocalizzazioni o ‘off-shoring’”. Da una parte dunque gli Stati Uniti potrebbero tornare presto a “esportare plastiche e quant’altro grazie a investimenti milionari”, dice l’ex manager dell’Eni, dall’altra – come si leggeva in un reportage di questa settimana sul Financial Times – anche aree industriali in declino come quelle dell’Ohio o del North Dakota tornano ad attrarre capitali stranieri per produrre acciaio e rifornire di macchinari il laborioso processo di estrazione dagli scisti. 
Maugeri da tempo sostiene però che tale svolta sarà irripetibile in altre aree del mondo, “se si esclude forse la Cina”. Perché? “E’ troppo alta l’intensità di perforazione del nuovo processo di estrazione”. Spiega: “I pozzi di shale gas e shale oil raggiungono subito il loro picco produttivo, a differenza dei giacimenti convenzionali.Il pozzo di shale, dopo un solo anno, può essere già al 50 per cento della sua produzione”.

“Per sfruttare shale gas e shale oil, dunque, bisogna continuamente perforare e aprire nuovi pozzi – dice Maugeri – Faccio un esempio: oggi in North Dakota si producono 800 mila barili di petrolio da shale al giorno. Soltanto per mantere questo livello produttivo, occorreranno altri 1.000 pozzi l’anno. In tutta Europa 1.000 pozzi si fanno in circa 10 anni. In Basilicata si può procedere al ritmo di 8-9 pozzi l’anno”. E’ un problema di barriere tecnologiche (“il 60 per cento dei mezzi di perforazione più sofisticati sono prodotti negli Stati Uniti”), e poi soprattutto di opinione pubblica che si potrebbe rivoltare contro le tecniche di estrazione, considerate invasive e pericolose: “In stati densamente popolati, perfino negli Stati Uniti, è difficile proporre quell’intensità di perforazione. Si può fare in North Dakota, o nel Texas dove c’è praticamente lo stesso numero di pozzi scavati complessivamente in tutto il resto del mondo, ma già in Pennsylvania o a New York l’opposizione è fortissima”. Figurarsi in Europa. In America sono all’ordine del giorno, infatti, appelli per stabilire moratorie contro il “fracking”, o “fratturazione idraulica”, cioè lo sfruttamento della pressione dell’acqua per creare fratture in uno strato roccioso e liberare gli idrocarburi: “In realtà il fracking è perfettamente gestibile, anche se errori da parte dell’industria petrolifera ci sono stati. Contrariamente a quanto si crede, questa tecnica viene usata dal 1947, in passato per sfruttare al meglio giacimenti convenzionali già maturi”. Se il fracking è stato responsabile del 14 per cento dell’incremento della produzione statunitense di petrolio nell’ultimo anno, secondo un intervento apparso ieri sul Wall Street Journal a firma Joel Kurtzman, lo si deve infine al fatto che “l’America è uno dei pochi paesi dove i diritti di proprietà di un individuo o una società si estendono sulle risorse che si trovano nel sottosuolo”. In Europa gli idrocarburi sotto terra sono pubblici per definizione. La rivoluzione energetica, dunque, è anche merito di “Adam Smith” e dei suoi epigoni, secondo il giornale edito da Rupert Murdoch. Il che rende tutto ancora più “irripetibile” in Europa.

Marco Valerio Lo Prete
Fonte: www.ilfoglio.it
22.06.2013


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