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Libia: gli omicidi al consolato USA - una casualità?


fasal75
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Originale italiano con link: http://znetitaly.altervista.org/art/7979

di David Edwards – 28 settembre 2012

L’11 settembre quattro statunitensi, tra cui l’ambasciatore USA, sono stati uccisi in un attacco al consolato USA di Bengasi, Libia. Il giorno seguente, il notiziario della BBC delle tredici ha riferito che le uccisioni facevano parte di “disordini” che erano “collegati a un video anti-islamico” (BBC News, 12 settembre 2012). Il notiziario della BBC delle diciotto spiegava che l’ambasciatore USA era stato ucciso “nel corso di una manifestazione”. Era un linguaggio davvero moderato, considerato che il consolato era stato attaccato con fucili d’assalto, bombe a mano, lanciagranate RPG e mortai (secondo il New York Times due addetti statunitensi alla sicurezza erano stati uccisi dal fuoco di mortai).

Possiamo facilmente immaginare la reazione della BBC se le uccisioni avessero avuto luogo sotto Gheddafi, Chavez o qualche altro nemico ufficiale. L’aggettivo preferito, “terroristi”, avrebbe sicuramente fatto presto la sua comparsa.

Come spiegare la reazione della BBC? La chiave sta naturalmente nel fatto che l’attuale governo libico deve la sua esistenza all’intervento militare occidentale. Ha ottenuto il potere perché l’occidente ha sfruttato la Risoluzione 1973 dell’ONU, che autorizzava una “zona d’interdizione al volo”, come scusa per bombardare le forze di Gheddafi fino alla sconfitta. La “zona d’interdizione al volo” in realtà si è tradotta in una “zona d’interdizione agli spostamenti terrestri” per una delle parti in conflitto. Come accade così spesso la BBC aveva preso l’imbeccata da Washington e Downing Street. Obama aveva espresso “apprezzamento per la collaborazione che abbiamo ricevuto dal governo e dal popolo libico in risposta a questo attacco vergognoso … Questo attacco non spezzerà i legami tra gli Stati Uniti e la Libia.”

Come molti altri media la BBC aveva concluso che la “manifestazione” e le uccisioni erano espressioni di odio religioso anziché politico. Ancora il 22 settembre la BBC riferiva: “L’attacco al consolato USA è stato innescato da un video amatoriale prodotto negli USA che deride l’Islam.”

Su un tono analogo, Julian Borger scriveva un articolo sul Guardian dal titolo: “Come un film anti-islamico ha scatenato l’assalto letale al consolato USA in Libia.” Kim Sengupta commentava sull’Independent:

“L’ambasciatore USA in Libia e tre membri del suo personale sono rimasti uccisi in un attacco di una folla armata che ha invaso il consolato del paese a Bengasi in una furiosa protesta contro un film statunitense che deride il profeta Maometto.”

Come poteva, si chiedeva il mondo, un qualsiasi essere umano in possesso delle sue facoltà mentali uccidere a causa di un film di seconda categoria, per l’idea che una religione era stata insultata? Domande ragionevoli. D’altro canto ci si poteva anche chiedere perché chiunque potesse uccidere o morire per una bandiera, o per un’idea come la “Patria, la Terra dei Padri, la Madrepatria” o per inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq.

Notizie successive hanno suggerito che l’iniziale opinione comune dei media che incolpava un film provocatorio era falsa. Il Telegraph ha segnalato:

“Un addetto alla sicurezza ferito nell’attacco … ha insistito nell’affermare che si è trattato di un attacco pianificato di combattenti islamisti e non di una protesta finita fuori controllo.”

“La guardia, che lavora per una società inglese, ha affermato che non c’erano state dimostrazioni contro un controverso film anti-islamico prima che gli estremisti facessero irruzione nell’edificio nella città orientale di Bengasi.”

Matthew Olsen, direttore del Centro Nazionale Antiterrorismo degli Stati Uniti ha dichiarato al Comitato del Senato sulla Sicurezza Nazionale e gli Affari Governativi: “Direi che [i quattro statunitensi] sono stati uccisi nel corso di un attacco terroristico.”

Olsen ha aggiunto:

“Numerosi elementi diversi sembrano essere stati coinvolti nell’attacco, tra cui individui collegati a gruppi militanti prevalenti nella Libia orientale, particolarmente nell’area di Bengasi. Stiamo anche esaminando indicazioni che individui coinvolti nell’attacco possano avere collegamenti con al-Qaeda o con gruppi affiliati ad al-Qaeda, compresa al-Qaeda nel Maghreb.”

Anche il senatore statunitense Joe Lieberman ha contestato l’affermazione del regime statunitense che l’attacco sia stato spontaneo:

“Vi dirò che, in base agli aggiornamenti che ho ricevuto, sono arrivato alla conclusione opposta e che concordo con il presidente della Libia che questo è stato un attacco premeditato, programmato che è stato associato… all’anniversario dell’11 settembre. Semplicemente non penso che le persone si presentino a una manifestazione con lanciagranate e altre armi pesanti.”

Tra giugno e agosto a Bengasi ci sono stati attacchi con bombe, granate e lanciagranate al consolato USA, al corteo di automobili dell’ambasciatore britannico, al consolato tunisino e al quartier generale locale del Comitato Internazionale della Croce Rossa, con volantini che avvertivano che altri ne sarebbero seguiti. La CNN ha riferito che Chris Stevens era “preoccupato di quelle che chiamava le infinite minacce alla sicurezza” e che il suo nome era citato “su una lista dei bersagli di al-Qaeda”.

L’attacco ha anche dato un’idea del ruolo statunitense nel paese che aveva contribuito a “liberare”. Il New York Times ha osservato:

“Tra le più di due dozzine di collaboratori statunitensi evacuati dalla città dopo l’attacco alla missione statunitense e a una struttura vicina, c’è stata circa una dozzina di operativi e contrattisti della CIA che svolgevano un ruolo cruciale nel condurre la sorveglianza e nel raccogliere informazioni su una serie di gruppi militanti armati nella città e attorno a essa.”

Il loro ruolo, in una Libia che ci è raccontata ‘libera’ e ‘indipendente’:

“Dirigenti hanno riferito che gli operativi dei servizi statunitensi hanno anche assistito i contrattisti del Dipartimento di Stato e i dirigenti libici nel rintracciare missili lanciati a spalla sottratti agli ex arsenali dell’esercito del colonnello Gheddafi; hanno contribuito ai nostri sforzi per mettere al sicuro le scorte di armi chimiche della Libia e hanno contribuito ad addestrare i nuovi servizi d’informazione libici.”

Come ha segnalato Glenn Greenwald, la prova che l’attacco è stato attentamente programmato e politicamente motivato, invece di essere uno scoppio d’ira religiosa, è il genere sbagliato di notizie per molti sostenitori dell’intervento NATO in Libia:

“Critici della guerra in Libia hanno ammonito che gli USA si stavano affiancando (e armando e dando potere) a estremisti violenti, compresi elementi di al-Qaeda, che alla fine avrebbero costretto gli Stati Uniti a dichiarare di dover tornare in Libia per combattere contro di essi, proprio come il loro armare e finanziare Saddam in Iraq e i mujaheddin in Afghanistan ha giustificato nuove guerre contro quegli alleati d’un tempo.”

La realtà dell’attacco “sottolinea quanto instabile, senza legge e pericolosa sia diventata la Libia”. In realtà, come abbiamo segnalato a luglio, i media hanno fatto un lavoro eccellente nel seppellire un rapporto di Amnesty International che descriveva “il montante pedaggio di vittime di una Libia sempre più senza legge, dove le autorità transitorie non hanno potuto o voluto mettere un freno alle centinaia di milizie formate nel corso del conflitto del 2011 e dopo di esso.”

Questo caos post i
ntervento è qualcosa che i sostenitori dell’intervento occidentale sono naturalmente ansiosi di nascondere; indirizzare l’attenzione su un film “derisorio” è servito allo scopo.

“Uccidere personale dell’ambasciata USA è una ficata” – La posizione di Media Lens. Ovviamente.

David Aaronovitch del The Times ha condiviso l’idea generale che fossero stati fanatici religiosi ad attaccare l’ambasciata, aggiungendo:

“I dimostranti dimostrano. Ci serve un altro termine per chi vuole invadere edifici e ridurli in cenere.”

Forse ci serve un altro termine anche per Aaronovitch. Nel 2003 egli ha scritto:

“Il Kosovo, la maggior parte di noi concorda, “è valso la pena”. E’ valsa la pena di colpire il treno sul ponte a Leskovac facendo dieci morti e il convoglio di profughi a Prizren in Kosovo massacrando più di settanta persone. “E’ valsa la pena” sia per Robin Cook (allora segretario agli esteri) sia per me. E lo stesso dicasi del bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999 o, in Afghanistan, del famigerato attacco missilistico alla festa di nozze armata.”

Dopo che abbiamo diffuso un messaggio Twitter segnalando l’entusiasmo di Aaronovitch per l’incendio dell’ambasciata, un piccolo numero di lettori lo ha contestato. La sua reazione:

“Non sono riuscito a scoprire da dove è venuto fuori il pugno di teste di cazzo del messaggio Twitter “uccidere il personale dell’ambasciata USA è una ficata”. Poi ha scritto Media Lens.”

A suo merito, Glenn Greenwald – che aveva cominciato a seguirci su Twitter alcuni giorni prima – si è espresso a nostra difesa (un caso raro tra i giornalisti convenzionali di alto profilo) osservando che Aaronovitch aveva “semplicemente diffamato @medialens con una menzogna” e “una miserabile falsità”.

Greenwald ci ha scritto: “Siete davvero più dentro le teste dei cronachisti al servizio dell’establishment britannico di chiunque altro. Congratulazioni.”

Su Twitter egli ha notato che avevamo in realtà contestato l’analista politica Sharmine Narwani sullo stesso punto dopo che lei aveva chiesto:

“Centinaia di migliaia di arabi e mussulmani massacrati dai soldati statunitensi. Ditemi di nuovo perché dovrei preoccupare per come-si-chiama e altri tre? #Libya.”

Avevamo risposto: “Perché le sofferenze sono tutte uguali”. (David Edwards, Twitter, 12 settembre 2012).

La Narwani non aveva colto il senso, replicando: “Se fossero uguali il NYTimes parlerebbe ogni giorno di arabi morti … spesso morti a causa delle politiche USA.”

Avevamo controbattuto: “Vero. Certamente loro non considerano uguali le sofferenze. Sto dicendo che il nostro motivo per preoccuparci di tutti comprende quei quattro”. (Edwards, Twitter, 12 settembre 2012).

Non ci siamo mai del tutto abituati allo sbalorditivo cinismo delle calunnie scagliateci contro da Aaronovitch e altri. Chiunque abbia letto anche un piccolo campione di ciò che abbiamo scritto sa che non avalleremo mai l’idea che “uccidere personale dell’ambasciata USA è una ficata” (Aaronovitch ha certamente familiarità con il nostro lavoro; una volta ha sollecitato uno di noi a incontrarlo, insistendo: “non sono così cattivo”).

Avevamo scritto in precedenza su Twitter:

“E’ terribile quando chiunque muore (così tanti hanno sofferto in Libia) ma si noti il particolarissimo sconvolgimento e orrore quando è colpito l’Impero.” (Edwards, Twitter, 12 settembre 2012).

Ci siamo diffusi su questo in un messaggio Twitter citato da Greenwald nel suo articolo sul Guardian:

“Un compito cruciale consiste nel percepire come la nostra compassione sia incanalata verso alcuni e via da altri. E’ la base della violenza di massa.” (Edwards, Twitter, 12 settembre 2012).

Ci stavamo ovviamente esprimendo contro l’idea che le morti al consolato fossero una “ficata” e a favore di una compassione uguale per tutti.

Greenwald ha commentato: “C’è una chiara gerarchia della vita umana costantemente rafforzata da questa mentalità, ed è molto importante.”

Un’attenzione chiave nel nostro lavoro nel corso dell’ultimo decennio è stata riservata a mostrare come i pregiudizi mediatici rafforzino questa “gerarchia della vita umana”. Essa svolge un ruolo cruciale nell’alimentare la barbarie del nostro mondo.

Aaronovitch ha reagito all’espressione di sostegno di Greenwald a Media Lens, ricordandogli che noi eravamo “stravaganti”, prima di aggiungere la sua idea delle probabili conseguenze per la reputazione di Greenwald: “Il tuo funerale.”

Concludendo, Aaronovitch ha avvertito Greenwald: “Un ultimo pezzetto d’informazione. Ti sei schierato a fianco del settore più stupido e più estremo della sinistra britannica. Divertiti.”

Ma, ha chiesto qualcuno, certamente Greenwald era al corrente che Media Lens “nega le atrocità serbe” (non è vero). Non riteneva che tali accuse fossero corrette? Greenwald ha replicato: “Non seguivo le loro posizioni all’epoca ma da quello che ho visto in seguito si tratta di una falsità”.

Il giornalista premiato del Guardian Jonathan Cook ha commentato:

“Il commento di David Aaronotivch su Twitter “il tuo funerale” rivolto a Glenn Greenwald è stato eccezionalmente rivelatore, non trovate? Tra altre cose, ha suggerito che lui considera i media liberali inglesi un circolo esclusivo di vecchi compagni di scuola – e non si sbaglia al riguardo, a quanto sembra – di cui si considera il presidente. Ciò farebbe di Nick Cohen [dell’Observer] il tesoriere e di Peter Beaumont [dell’Observer] l’addetto all’accoglienza?” (email a Media Lens, 14 settembre 2012).

Cosa dobbiamo fare, dunque, del riflesso condizionato dei media di riferire e accettare alla lettera le affermazioni del potere, e persino di adottarne lo stesso esatto tono, nel reagire a eventi controversi? Immaginiamo, noi di Media Lens, che i caporedattori e i giornalisti si riuniscano a cospirare per ingannare il pubblico?

La verità è molto più prosaica e ancor più inquietante. I pregiudizi del sistema del potere sono incorporati nella struttura stessa, nello stesso DNA del giornalismo professionale. Robert McChesney e John Nichols lo spiegano nel loro libro “Tragedy and Farce: How the American Media Sell Wars, Spin Elections and Destroy Democracy” (The New York Press, 2005)

:

The truth is much more prosaic and even more disturbing. Establishment bias is built into the very structure, the very DNA, of professional journalism. Robert McChesney and John Nichols explain in their book Tragedy and Farce: How the American Media Sell Wars, Spin Elections, and Destroy Democracy (The New Press, 2005):

“Il giornalismo professionale dà valore a articoli legittimi su storie basate su quanto dice e fa chi sta al potere. L’attrattiva è chiara. Rimuove la sfumatura di controversia dalla scelta della narrazione: “Ehi, lo ha detto il governatore e perciò dobbiamo raccontarlo”, e questo rende il giornalismo meno costoso. Basta piazzare i giornalisti vicino a chi sta al potere e far loro riferire quello che viene detto e fatto. Dà anche al giornalismo un orientamento molto conformista in quanto chi sta al potere ha molto controllo su ciò che è riferito e ciò che non lo è. Gli articoli spesso diventano un dettato a giornalisti che detestano opporsi alle loro fonti, dipendendo da esse, come fanno, per le notizie.”

Non sono necessarie teorie cospirative. Il sistema industriale tende naturalmente a generare il conformismo in tutto lo “spettro” mediatico.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/us-consulate-killings-spo
ntaneous-religious-or-planned-political-by-david-edwards

Originale: Medialens

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2012 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0


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