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"Mio figlio kamikaze? Un capro espiatorio"


Tao
 Tao
Illustrious Member
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La madre del 20° uomo delle Torri

«Una notte venni svegliata dal campanello. Era mio marito, mi aveva trovata. Tremavo, avevo paura per i bambini. Ma lui, da fuori, mi disse dolcemente di avvicinarmi alla porta. 'L'ho fatto', gli risposi piegandomi leggermente. E un punteruolo entrò dalla serratura fermandosi a tre centimetri dalla mia faccia. 'Spero di averti ammazzata', urlava Omar con la voce da ubriaco, mentre urinava contro la mia porta». Sembra un film dell'orrore, ma per Aicha El-Wafi, nata in Marocco nel 1947, è stata una scena di ordinaria persecuzione. Di storie simili, vissute in prima persona, ne racconta al manifesto una impressionante collezione: il fratello tradizionalista che le ha impedito a botte di andare a scuola; il matrimonio combinato a 14 anni con un uomo che si rivela uno psicopatico e la fa abortire a suon di pugni; la dura vita dell'emigrazione in Francia nei primi anni '60; l'interminabile corsa per fuggire alla furia del marito-persecutore... Aicha in Francia ha fatto tutti i mestieri, ha frequentato le scuole serali, è stata assunta alle poste di Narbonne, nel sud, si è iscritta al sindacato, ha collaborato con l'associazione femminista «Ni putes, ni soumises», né puttane né sottomesse. «A opprimere le donne - dice ora - non è la religione, ma la tradizione chiusa, il conformismo». E racconta con orgoglio di «aver rifiutato i soldi del padrone quando il governo decise di privatizzare France Telecom» anche se non navigava certo nell'oro.

Eppure questa bella signora bruna, tutt'altro che velata e sottomessa, che ci viene incontro a Roma nel giardino dell'Hotel Locarno, ha ricevuto dalla vita il colpo più duro. Il 13 settembre 2001, due giorni dopo l'attentato alle Torri gemelle negli Stati uniti, ha visto la foto di suo figlio Zacarias Moussaoui sparata a tutto schermo nei telegiornali: Zacarias, il «ventesimo kamikaze» delle Twin Towers? Come poteva succedere questo a lei? Una tragedia che sembra un paradosso. «Dopo l'arresto di Zacarias - racconta ora Aicha - molti giornalisti hanno chiesto al mio avvocato se volevo scrivere un libro insieme a loro, ma ero troppo sconvolta e non sapevo cosa fare. Sono andata per un po' da una psicologa, poi ho cominciato a parlare con un registratore. Alla fine del processo, avevo inciso più di sessanta cassette. Ho pensato che così potevo spiegare a tutti chi è Zacarias: non uno spietato terrorista, ma un capro espiatorio che Bush ha gettato in pasto ai parenti delle vittime di un attentato orribile compiuto l'11 settembre. Una facile preda di ideologie fanatiche, che hanno messo del sale sulle sue ferite e gli hanno fatto entrare odio nel cuore».

E così, dopo il processo e la condanna all'ergastolo di Zacarias Moussaoui, esce il libro «Mio figlio perduto», di Aicha El Wafi, scritto con i giornalisti Matthias Favron e Sophie Quaranta, e appena tradotto da Piemme. Il capitolo 12 racconta «le prime ferite di Zacarias», l'impatto con gli stereotipi coloniali della «France profonde»: «L'altra faccia di quel paese accogliente e aperto di cui ormai facevamo parte», spiega ora Aicha, e ricorda gli episodi di razzismo subiti da suo figlio: i bambini che lo chiamano «sporco negro»; i professori che, malgrado i voti brillanti, «in quanto arabo» non lo ritengono adatto al liceo ma solo a una scuola professionale; il padre della ragazza francese che lo scaccia in malo modo «perché non si siederà mai a tavola con quell'arabo».

Altre pagine raccontano il processo negli Stati uniti, dove Aicha ha potuto recarsi grazie alla solidarietà dei suoi colleghi di lavoro e di alcune associazioni umanitarie. Racconta Aicha: «Mi hanno detto che Zacarias è stato in Pakistan, in Afghanistan, che fa parte di movimenti fanatici che io non condivido affatto, però capisco le sue ferite anche se so che lui non capisce le mie. Quando parlo a nome delle donne che non hanno voce, è per evitare che soffrano come me, non perché abbassino la testa di fronte ad altre ingiustizie. Certo, avrei preferito che mio figlio esprimesse le sue idee con la penna, ma ho almeno una certezza: che con gli attentati alle Torri non c'entra. L'11 settembre 2001, Zacarias era già in carcere per un visto scaduto».

Per trovare altre prove dell'innocenza del figlio, Aicha si reca in Inghilterra, rintraccia uno di quegli imam che avrebbero «plagiato» il figlio: «Al Qaeda - dice Aicha - ha fatto sapere che mio figlio non era il ventesimo uomo. E poi si è saputo che il pilota che avrebbe dovuto guidare il quinto aereo contro la Casa bianca, era già stato arrestato in Afghanistan». Ma il detenuto Moussaoui, prigioniero di una macchina giudiziaria che non si fa scrupoli per estorcere confessioni, in aula ricusa gli avvocati, urla le sue convinzioni, rivendica azioni che non ha commesso. «Mio figlio - dice Aisha - credeva di non aver più niente da perdere e voleva morire con dignità. Chissà cosa gli hanno fatto, quando l'hanno portato in aula era così gonfio da sembrare irriconoscibile. Appena ha cercato di dire: Allah è grande, da una cintura che portava addosso gli è arrivata una scarica elettrica. Quando gli ho chiesto se l'avevano torturato, mi ha risposto: lascia stare mamma, adesso il peggio è passato. Durante il processo, nessuno ha parlato di prove, di accuse concrete, era già tutto impostato perché andasse a finire in quel modo: mio figlio doveva essere ucciso o sepolto vivo». Negli Stati uniti, Aicha ha fatto amicizia con alcune madri che hanno perso i figli nell'attentato alle Torri gemelle: «Alcune associazioni di famigliari - dice - pensano che Bush sapesse dell'attentato e che non l'abbia fermato per poter invadere l'Iraq, anche se Saddam Hussein era un pericolo solo per il suo popolo, non per l'Occidente».

In cosa spera oggi Aicha El-Wafi? «Spero che venga accolto l'appello presentato dai difensori di Zacarias, sepolto nel sottosuolo di un carcere senza nessun contatto umano. Spero anch'io, come molti americani, nell'elezione di Obama. Ma ho paura a dirlo pubblicamente. Anche gli Stati uniti hanno una destra fondamentalista, molto pericolosa».

Geraldina Colotti
Fonte: www.ilmanifesto.it
Link: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/30-Ottobre-2008/art46.html
30.10.08


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