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Ricorso palestinese alla Corte Penale Internazionale


AlbaKan
Noble Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 2015
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[Nota introduttiva]

Dal momento in cui quest’ultima considerevole operazione militare di Israele contro Gaza ha avuto inizio l’8 luglio scorso, si sono succedute con una certa frequenza proposte per accusare Israele come colpevole di crimini di guerra, e che la Palestina debba fare del proprio meglio per attivare la Corte Penale Internazionale nel proprio interesse. Queste le prove che supportano in maniera schiacciante le fondamentali accuse palestinesi: Israele è colpevole sia di aggressione in violazione dello Statuto dell’ ONU che in flagrante violazione dei propri obblighi come forza occupante, secondo la Convenzione di Ginevra, di salvaguardia della popolazione civile di un popolo occupato; Israele sembra colpevole dell’eccessivo e sproporzionato uso della forza contro l’inerme società della Striscia di Gaza; inoltre Israele, in un vasto insieme di altri reati, sembra colpevole di aver commesso crimini contro l’umanità, data l’imposizione di un regime di apartheid in Cisgiordania e attraverso il trasferimento di popolazione verso un territorio occupato, comè stato il caso col suo massiccio progetto d’insediamento di coloni.

Tenuto conto di questo retroscena nell’evidente criminalità di Israele, potrebbe sembrare un gioco da ragazzi per l’Autorità Palestinese cercare l’aiuto della Corte Penale Internazionale e intraprendere una battaglia per conquistare l’opinione pubblica mondiale per la propria lotta. Dopo tutto, i palestinesi sono privi di risorse militari e diplomatiche per opporsi a Israele. Ed è sulla legge e sulla solidarietà globale che devono appoggiarsi le loro speranze per poter alla fine attuare i propri diritti, in particolare il diritto all’autodeterminazione e il diritto al ritorno. I manifestanti palestinesi in Cisgiordania richiedono che i propri dirigenti in seno all’Autorità Palestinese aderiscano allo Statuto di Roma e diventino membri della Corte Penale Internazionale senza ulteriori deroghe e ritardi. Ciò che è diventato parte del messaggio dei movimenti politici di protesta [“street politics” si riferisce ai manifestanti e alla politica che nasce e si fa per strada, protestando e militando, soprattutto nei paesi arabi; NdT] è che i palestinesi vengono vittimizzati in maniera criminale e che l’Autorità Palestinese, se vuole conservare uno scampolo di rispetto come rappresentante del popolo palestinese, deve condividere questa comprensione del dramma palestinese e smetterla col “gioco corretto” con le autorità israeliane.

Un tale ragionamento dalla prospettiva palestinese viene rinforzato dalla lettera dell’8 maggio spedita al presidente Mahmoud Abbas da 17 rispettabili ONG per i diritti umani in cui si insisteva affinché la Palestina potesse divenire un membro della Corte Penale Internazionale, ponendo fine così all’impunità di Israele. Non è stato un gesto per attirare l’attenzione inventato ai margini dell’irresponsabile politica della società liberale occidentale. Tra i firmatari c’erano decisi sostenitori dei diritti umani come Human Rights Watch, Amnesty International, Al Haq, e la Commissione Internazionale dei Giuristi, organismi noti per la loro prudenza in relazione alle autorità costituite.

Ad aggiungere ulteriore credito all’idea che l’opzione della Corte Penale Internazionale debba essere esplorata c’è stata la veemente opposizione da parte di Israele e degli USA che minacciavano in maniera sinistra l’Autorità Palestinese di spaventose conseguenze se avesse cercato di entrare a farne parte, cercando giustizia attraverso l’attivazione delle procedure d’indagine della Corte. Samantha Power - ambasciatrice usamericana all’ONU ed essa stessa a lungo fautrice di primo piano dei diritti umani – ha scoperto i nervi di Washington quando ha ammesso che la Corte Penale Internazionale “è qualcosa che presenta una profonda minaccia nei confronti di Israele”. Non sono sicuro che la Power voglia convivere con l’idea che, siccome Israele è talmente vulnerabile da montare un processo, allora la sua impunità debba essere sostenuta qualunque sia l’imbarazzo di Washington. La Francia e la Germania hanno agito in maniera molto più cauta, dichiarando assurdamente che un ricorso alla Corte Penale Internazionale da parte della Palestina dovrebbe essere evitato, perché perturberebbe “le negoziazioni sullo status finale”: come se questa pseudo-diplomazia avesse alcun tipo di valore, come se fosse una chimera (ove ne esistesse una) nella vaga ricerca di una giusta pace.

In un mondo diverso, l’Autorità Palestinese non esiterebbe a invocare l’autorità della Corte Penale Internazionale. Ma, nel mondo in cui siamo, la decisione non è così semplice. Tanto per cominciare, c’è il problema dell’accesso limitato agli Stati. Già nel 2009, l’Autorità Palestinese cercò di aderire allo Statuto di Roma – ovvero il trattato che governa la Corte Penale Internazionale – e venne respinto dal procuratore che girò l’istanza al Consiglio di Sicurezza, sostenendo una mancanza di autorità nel determinare se l’Autorità Palestinese rappresentasse uno “Stato”. Successivamente, il 29 novembre l’Assemblea Generale dell’ONU riconobbe in maniera schiacciante la Palestina come “uno Stato osservatore non membro”. Luis Moreno–Ocampo che aveva rappresentato la Corte Penale Internazionale nel 2009, mentre adesso parla nelle vesti di ex-procuratore, asserì che secondo lui la Palestina, in vista di un’azione dell’Assemblea Generale dell’ONU, ora potrebbe essere qualificata come uno Stato, potendo godere dell’opzione di membro della Corte Penale Internazionale. Normalmente, la giurisdizione della Corte è limitata ai crimini commessi dopo che lo Stato ne diventi membro; ma esiste una clausola che abilita una dichiarazione resa, accettando la giurisdizione per crimini commessi in qualsiasi momento nel proprio territorio, purché avvenuti dopo la fondazione della Corte stessa, ovvero dopo il 2002.

Non è abbastanza? Israele non è mai diventato parte dello Statuto di Roma creando la Corte Penale Internazionale. E certamente si rifiuterebbe di cooperare con un procuratore che ha cercato di indagare sulle accuse di crimini di guerra con la possibile intenzione di avviare un processo. In questo senso, un ricorso alla Corte Penale Internazionale potrebbe apparire futile anche se venissero emessi dei mandati d’arresto dalla corte – come accaduto per Gheddafi e suo figlio nel 2011 - ci sarebbero poche possibilità che i personaggi politii e militari di Israele accusati vengano consegnati e, senza la presenza di simili imputati al tribunale de L’Aja, il processo non potrebbe andare avanti. Tutto ciò illustra il problema fondamentale con l’applicazione delle leggi sui crimini internazionali: queste sono risultate efficaci solo nei confronti di chi ha perso guerre combattute contro gli interessi dell’Occidente e, in un certo senso, contro coloro i cui crimini avvengono in territori situati nell’Africa sub-sahariana. Questa forma prevenuta e/o parziale dell’attuazione delle leggi sui crimini internazionali ha costituito il modello fin dal primo significativo sforzo fatto dopo la Seconda Guerra Mondiale a Norimberga e a Tokyo. Capi tedeschi e giapponesi sopravvissuti vennero processati per i loro crimini mentre si esoneravano i vincitori, nonostante la responsabilità degli alleati per il bombardamento sistematico della popolazione civile per mezzo di una precisa strategia e nonostante la responsabilità degli USA nell’aver sganciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Sfortunatamente, finora la Corte Penale Internazionale non è stata capace di liberarsi di questo retaggio di “giustizia dei vincitori”, fatto che ne ha danneggiato credibilità e reputazione. Tutte le cause trattate dalla Corte finora hanno coinvolto accusati provenienti da nazioni africane sub-sahariane. Il rifiu
to da parte della Corte di avviare indagini per le accuse di crimini di guerra degli aggressori nella guerra dell’Iraq del 2003 rappresenta una drammatica conferma che gli Stati-guida – in special modo gli USA – posseggono un veto geopolitico su ciò che la Corte può fare. Le mancate indagini sui crimini di Bush e di Blair, così come per i loro entourage di alti ufficiali complici, mostra in maniera vivida il sistema di due pesi e due misure adottato. Forse, il grado dell’opinione si è evoluto al punto che si avrà un impulso alle indagini basate sulle accuse contro Israele, anche se esistono degli ostacoli procedurali che impediscono che il caso venga portato a compimento. Ogni tentativo serio di indagare la responsabilità criminale dei dirigenti politici e militari israeliani aggiungerebbe legittimità alla lotta palestinese e potrebbe avere un positivo effetto straripante sul movimento di solidarietà mondiale, così come intensificare la campagna di BDS [Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni contro Israele; campagna supportata da Tlaxcala; questo il link al portale italiano].

Ma esistono ancora degli ostacoli. Innanzitutto, l’Autorità Palestinese dovrebbe certamente essere preparata a trattare con la reazione furiosa di Israele, indubbiamente supportata dagli USA e, meno incisivamente, da diverse nazioni Ue-ropee. La spinta indietro potrebbe andare in due direzioni: Israele che formalmente si annette la maggior parte o tutto il territorio cisgiordano – cosa che pare sia decisa a fare in ogni caso – o, più probabilmente, a breve termine la trattenuta del trasferimento dei fondi necessari all’Autorità Palestinese per il sostegno alle proprie azioni di governo. Il Congresso usamericano seguirà senz’altro la guida di Tel Aviv, anche se la presidenza di Obama potrebbe essere più incline a limitare la propria opposizione a una bacchettata diplomatica all’Autorità Palestinese, come ha fatto di recente reagendo alla formazione del governo ad interim di unità nazionale – passo importante verso la riconciliazione tra Fatah e Hamas – superando la frammentazione che ha ostacolato la rappresentanza palestinese nelle sedi internazionali negli ultimi anni.

Un secondo probabile ostacolo riguarda l’autorità giurisdizionale della Corte Penale Internazionale, che si estenderebbe a tutti i crimini di guerra commessi su un territorio di un membro del trattato, e che significherebbe che anche i dirigenti di Hamas potrebbero essere indagati e incriminati a causa del lancio indiscriminato di razzi verso obiettivi civili israeliani. Esiste anche una certa ipotesi secondo cui, data la politica della Corte, potrebbero essere perseguiti esclusivamente i crimini contro Hamas.

Supponendo che questi ostacoli siano stati presi in considerazione e che la Palestina voglia ancora andare avanti con gli sforzi per attivare l’indagine per i crimini di guerra di Gaza, ma allora nel resto della Palestina occupata che cosa accadrà? E bisogna supporre, inoltre, che la Corte Penale Internazionale reagisca responsabilmente e conceda il grosso della propria attenzione alle accuse rivolte contro Israele, l’attore politico che controlla la maggior parte degli aspetti delle relazioni. Vi sono diversi significativi crimini contro l’umanità enumerati negli artt. 5-9 dello Statuto di Roma. Secondo questi, esistono tante prove da produrre incriminazioni e condanne per i dirigenti israeliani pressoché inevitabili se la Palestina usasse il proprio privilegio di poter attivare un’indagine e se qualcuno fosse capace di presentare gli imputati davanti alla corte: uso eccessivo della forza, imposizione di un regime di apartheid, maltrattamento collettivo, trasferimento della popolazione in merito agli insediamenti, mantenimento del muro di separazione in Palestina

Il crimine di fondo della recente aggressione associata al Protective Edge (il nome israeliano per l’attacco di Gaza del 2014) a questo punto non può essere indagato dalla Corte Penale Internazionale. E questo limita gravemente la sua autorità. Era appena il 2010 quando venne adottato un emendamento dai 2/3 richiesti per la maggioranza dei 122 membri del trattato al riguardo della definizione di “aggressione” concordata. Ma non entrerà in vigore prima del 2017. Perciò, esiste una grande lacuna nella copertura dei crimini di guerra da parte dell’autorità della Corte Penale Internazionale.

Malgrado tutti questi problemi, il ricorso alla Corte Penale Internazionale rimane un prezioso asso nella manica nell’esiguo mazzo di carte a disposizione dell’Autorità Palestinese: giocarselo potrebbe voler dire l’inizio del cambiamento dell’equilibrio di forze in rapporto al conflitto che, da decenni, ha negato al popolo palestinese i propri diritti basilari secondo le leggi internazionali. Se ciò dovesse accadere, significherebbe anche una grande sfida a e una grande opportunità per la Corte Penale Internazionale affinché non tenga definitivamente in alcun conto il veto geopolitico che ha finora mantenuto la responsabilità criminale dentro la stretta cerchia della “giustizia dei vincitori” e quindi ha solamente concesso alle popolazioni mondiali un’esperienza di giustizia stracarica di poteri forti nonché molto prevenuta e parziale.

Tradotto da Francesco Giannatiempo
Editato da Fausto Giudice Фаусто Джудиче فاوستو جيوديشي

Fonte: http://richardfalk.wordpress.com/2014/07/21/palestinian-recourse-to-the-international-criminal-court-the-time-has-come/

Versione italiana: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=12918


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