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Un’ayatollah da 95 miliardi di dollar


Tao
 Tao
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Un’inchiesta superba sull’ayatollah da 95 miliardi di dollari


Reuters scava per sei mesi nel conglomerato finanziario di Khamenei, fondato sugli espropri della rivoluzione

Questa settimana tre giornalisti di Reuters hanno pubblicato in tre parti una lunga inchiesta su Sedat, un conglomerato finanziario iraniano che vale 95 miliardi di dollari e fa capo all’ayatollah Ali Khamenei, autorità suprema del paese. Il lavoro dei tre giornalisti è durato sei mesi e ora è pubblicato in inglese, in farsi – che è la lingua dell’Iran – e in arabo. Ieri è arrivata l’ultima puntata.

Sedat è un impero finanziario nato dagli espropri della rivoluzione khomeinista del 1979. Due mesi prima della sua morte, nel 1989, l’ayatollah Khomeini dispose con un documento lungo due paragrafi la creazione di un ente che mettesse ordine tra i beni confiscati o abbandonati dai proprietari in dieci anni di rivoluzione. Sedat vuol dire “il quartier generale” in lingua farsi ed è un’abbreviazione per “il quartier generale per implementare l’ordine di Khomeini”. In teoria l’ente avrebbe dovuto restare in attività soltanto per due anni, il tempo di fare l’inventario dei beni. Ma il successore della prima Guida suprema, l’ayatollah Khamenei, lo ha fatto crescere fino alle dimensioni attuali (il suo valore stimato è pari al prodotto interno lordo del Marocco nel 2012).

Sedat è un’organizzazione molto grande ma anche molto opaca e i numeri esatti sui suoi affari sono difficili da ottenere: Reuters ha incrociato le cifre dichiarate dagli iraniani nelle poche occasioni pubbliche in cui dichiarano qualcosa con quelle del dipartimento del Tesoro americano, che tiene sotto osservazione Sedat per la questione delle sanzioni contro il programma nucleare. L’ente funziona grazie a un ufficio centrale che ha circa 500 dipendenti, tutti presi dai ranghi delle agenzie di sicurezza e dei reparti militari, quindi di provata fedeltà alla Guida suprema.
Per la prima parte della sua vita Sedat ha tenuto un comportamento passivo e si è limitata ad accumulare i beni sequestrati agli iraniani – Reuters ha documentato molti casi in cui non c’era una ragione legittima per la confisca o in cui i beni non erano stati davvero “abbandonati”, ma sono stati incamerati lo stesso. Poi, a partire dal 2008, c’è stata la decisione di usare la ricchezza enorme – 52 miliardi di dollari soltanto per quanto riguarda le proprietà immobiliari – per investire e per partecipare al controllo delle parti più importanti dell’economia nazionale. La decisione di trasformare Sedat in un investitore attivo è stata presa – spiegano dall’organizzazione stessa – guardando a economie dinamiche come la Corea del sud, il Brasile o gli Stati Uniti.

Oggi Sedat possiede quote di maggioranza nella banca privata più grande del paese, nella fabbrica di cemento più grande del paese, nell’impresa di telecomunicazioni più grande del paese e in altre attività economiche che fanno una lista lunghissima e non conosciuta del tutto, che va dalla farmaceutica all’allevamento di ostriche. Grazie a questi investimenti il conglomerato di Khamenei ha continuato a crescere proprio nello stesso periodo in cui l’Iran ha cominciato a soffrire le sanzioni economiche internazionali contro il programma atomico.

Il governo iraniano, sorvegliato da Khamenei che ha la massima autorità su ogni decisione, ha sistematicamente legittimato le confische e facilitato le attività di Sedat. La Guida suprema, i giudici e il Parlamento nel corso degli anni hanno emesso una serie di provvedimenti burocratici, interpretazioni costituzionali e sentenze tutte favorevoli al conglomerato. Reuters si chiede perché tutta questa attenzione e cautela con l’apparato legale che rende possibile il sequestro dei beni, considerato che Sedat è un’emanazione diretta di Khamenei, vertice dello stato, che ha potere sulla politica e anche sulle Guardie della rivoluzione, l’arma più efficiente delle Forze armate. Il punto è che una delle accuse fatte al regime dello Scià Reza Pahlavi riguarda le espropriazioni di terre fatte dal padre e poi diventate uno dei leitmotiv della rivoluzione khomeinista contro l’establishment laico e corrotto. Reuters calcola che al momento della sua cacciata lo Scià fu accusato per una somma che oggi, aggiustata con l’inflazione, sarebbe di tre miliardi di dollari. Sedat fa capo a Khamenei e controlla 95 miliardi di dollari.

La Guida suprema conduce uno stile di vita frugale e severo che è l’opposto dei fasti dello Scià, ma l’inchiesta sostiene che una parte dei ricavi – che sono privati – va a finire a membri dell’establishment iraniano. Reuters non riesce a specificare chi guadagna da che cosa, ma lascia sospettare un effetto politico di Sedat, oltre che economico. La spinta della rivoluzione khomeinista come causa comune attorno a cui i vertici iraniani si compattano sarebbe andata ormai perduta e sarebbe stata rimpiazzata dalla custodia di questa trama di interessi comuni, alcuni riuniti nel conglomerato. Viene da chiedersi se non è possibile leggere la recente svolta diplomatica dell’Iran – ora più conciliante sul programma nucleare rispetto al passato, almeno a parole – anche alla luce di questi interessi economici fusi dentro Sedat.
Per ora, la notizia che la Guida suprema potrebbe essere l’uomo più ricco del mondo non sta suscitando reazioni visibili in Iran. Il distacco dai beni terreni e l’incorruttibilità hanno un fascino particolare su una parte dell’elettorato iraniano – portarono alla presidenza Mahmoud Ahmadinejad – ma sarà sempre più complicato esercitare questo tipo di richiamo.

Proteggere gli interessi dalle sanzioni
L’ayatollah Khamenei ha dato mandato al presidente eletto a giugno, Hassan Rohani, di negoziare con l’occidente la fine delle sanzioni in cambio di un accordo rassicurante sul programma nucleare. Gli americani stanno pensando di rispondere con un pacchetto di alleggerimento che vale 10 miliardi di dollari l’anno, che l’Iran incasserebbe invece che perdere a causa delle misure punitive internazionali. Il ministro israeliano per gli Affari strategici, Yuval Steinitz, teme però che il pacchetto americano sia molto più consistente di quanto sostiene l’Amministrazione Obama e che potrebbe valere il doppio, venti miliardi di dollari, in una prima fase, per poi arrivare fino a 40 miliardi di dollari. Sarebbe una rimozione significativa, perché secondo i calcoli attuali le sanzioni internazionali bloccano l’Iran dall’accesso a una somma di circa 100 miliardi di dollari ogni anno.

Daniele Raineri
Fonte: www.ilfoglio.it
15.11.2013


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qasiqasi
Reputable Member
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in buona sostanza:se non ci fosse stata la cacciata del burattino scià,questi 95 miliardi ora sarebbero nelle tasche degli amiconi di wall street,non in iran.


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