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Chi vince in Libia si prende Roma


Tao
 Tao
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IN BALLO 11 MILIARDI DI AFFARI. DIETRO 7.700 KM DI FIBRA OTTICA IN ITALIA C’È LA FRATELLANZA MUSULMANA.

Milano – Gli affari della Libia? Di fatto sono congelati, la situazione è troppo complicata, ogni giorno si rischia la vita negli uffici. Hanno altro cui pensare che alle partecipazioni…”. Così descriveva la situazione libica al Corriere della Sera un banchiere nell’ottobre del 2013, due anni dopo la morte di Muammar Gheddafi. Oggi il copione si ripete. Le speranze della primavera libica si sono spente tra la violenza delle milizie e l’indifferenza dell’Occidente, lasciando il terreno ai jihadisti dell’Isis. Gran parte degli affari beduini se ne sono andati con il colonnello, ma quel che resta dell’antico impero finanziario libico, stando ai documenti ufficiali più recenti, ha ancora un piede nel capitale di alcune importanti società italiane. Il fondo sovrano Libyan Investment Authority possiede l’1,15% dell’Eni e il 2% di Finmeccanica, mentre la Central Bank of Libya sfiora il 3% di Unicredit dove fino a quattro anni fa esprimevano addirittura un vicepresidente nella figura di Omar Farhat Bengdara, allora governatore della Banca centrale. Non solo.

La Libyan Post Telecommunications Information Technology Company possiede attraverso una società lussemburghese il 14,78% di Retelit, società quotata a Piazza Affari che si occupa di telecomunicazioni gestendo in Italia 7.700 chilometri in fibra ottica. Il vertice del gruppo Lptic è considerato vicino alla fazione dei Fratelli Musulmani (islamisti in Egitto ridotti al silenzio dalla dittatura dei generali) e sarebbe intenzionato a tenere aperto il canale d’affari con l’Italia. Lptic è anche socio al 45% della joint venture Sirt con l’Italiana Sirti (al 55%). I padroni dell’oro nero e la fuga a Malta del governatore della Banca centrale Il problema è: chi controlla o controllerà, in mezzo al caos, le quote libiche rimaste in pancia alle big tricolori? Alla comunità degli affari manca un quadro chiaro delle strategie e soprattutto l’interlocutore. Il fondo Lia, gestore dal 2006 degli immensi profitti del petrolio del Paese e controllato per anni da Gheddafi, ha cambiato più volte il suo timoniere negli ultimi anni. A luglio del 2014, il fondo ha infatti nominato Abdurahman Benyezza come presidente e amministratore delegato ad interim. Benyezza, era stato in precedenza ministro del petrolio e del gas e ha preso il posto di Abdulmagid Breish (in passato ai vertici dell’Arab Banking Corporation, istituto finanziario del Bahrain controllato dalla Banca centrale libica). A sua volta, però, Benyezza è stato sostituito alla fine dell’anno scorso da Hassan Ahmed Bouhadi, come nuovo presidente, mentre l’incarico di amministratore delegato è stato affidato a un ex funzionario della Banca Mondiale, Ahmed Ali Attiga. Segno che l’instabilità del Paese si riflette su quella delle poltrone. Anche la Bank of Libya a luglio del 2013 si è messa a cercare un nuovo governatore attraverso un semplice annuncio di lavoro online. Oggi il governatore è Saddek Omar Elkaber e risiede a Malta per motivi di sicurezza dopo che il governo di Tobruk-Bayda ha cercato di sostituirlo per prendere il controllo delle banca centrale. Ma Elkaber si è rifiutato di dimettersi e ha mantenuto la sede della banca a Tripoli. Il governatore è anche volato a Washington nei mesi scorsi per incontrare i diplomatici americani e britannici, dimostrando così che l’Occidente continua a considerarlo come il legittimo presidente della Central Bank of Libya. La Farnesina ha fatto sapere che al momento non c’è nessun soggetto legittimato a rappresentare il governo libico. Certo, le autorità italiane possono “sterilizzare” eventuali effetti indesiderati di queste posizioni. Ma regna l’incertezza. La conciliazione di B. e quei 400 chilometri Alle partecipazioni libiche in società italiane si aggiungono inoltre gli affari stretti sul fronte delle infrastrutture, dell’energia e delle telecomunicazioni. L’interscambio complessivo è di quasi 11 miliardi di euro (ma ai tempi di Gheddafi superava i 15), siamo al primo posto come cliente e fornitore della Libia che a sua volta occupa il dodicesimo posto come fornitore e il 33° come cliente della Penisola.

La ragion di Stato in tempo di crisi ha spinto il piede sull’acceleratore delle alleanze soprattutto per la massa di appalti promessi dalla riconciliazione fra Gheddafi e Berlusconi, nel 2008. Loro, i libici, i soldi, noi il know how. E adesso le macerie. I rischi maggiori li corre l’Eni che potrebbe vedersi stoppare la produzione dalla National Oil Corporation se ci saranno incidenti o minacce agli impianti.

In Libia “stiamo continuamente monitorando la situazione; la nostra priorità è garantire la sicurezza dei lavoratori e le installazioni e al momento non risultano impianti danneggiati”, ha assicurato ieri l’amministratore delegato Claudio Descalzi aggiungendo che il 2014 è stato chiuso con una produzione media di 240 mila barili al giorno “e in queste settimane stiamo producendo vicino ai 300 mila barili al giorno”. Anche Salini Impregilo ha relazioni di affari con la Libia: è a capo di una cordata che si era aggiudicata nel 2013 un contratto da 963 milioni per realizzare 400 chilometri di autostrada costiera. Ma al momento è tutto fermo.

Camilla Conti
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
19.02.2015


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