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Da Ken Loach la coerenza che scontenta


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Anche ieri a Roma il regista si è discostato dagli schemi del conformismo dominante

Ken Loach è stato alfiere cinematografico della sinistra e dell'estrema sinistra fra gli anni Sessanta e gli Ottanta. Dalla fine della Guerra fredda Loach lavora sempre con successo - ottiene il Leone d'oro alla carriera e la Palma d'oro per Il vento accarezza l'erba - ma larga parte degli ambienti che lo vedevano icona non ne reggono il rigore. La sua posizione in Italia è forse paragonabile a quella di Luciano Canfora. E, come Canfora, Loach è un interlocutore garbato, signorile, tenace.
Ieri a Roma ha parlato alla manifestazione "Il mio amico Ken" al Centro di cultura ecologica. Esiste infatti un "caso Loach", nel senso che la sua collocazione è ben più complessa rispetto a un tempo. Sono infatti legione gli estremisti, per non dire i moderati (questo male del secolo, li chiamava Abel Bonnard) di sinistra e di destra, che oggi diffidano a pelle di Loach, rifluiti come sono dal marxismo o dal nostalgismo a forme più o meno rudi del "politicamente corretto" e, peggio, alla sua derivazione neo-imperialista: l'interventismo umanitario. Quanto detto ieri da Loach non gli è infatti piaciuto.

Conoscendo l'ipocrisia britannica meglio di chiunque, lettore attento di George Orwell nel suo 1984, Loach non s'è mai fatto incantare dalla guerre solo perché ora vengono chiamate pacificazione. Oppure, più sonoramente, operazioni di polizia internazionale. Anche i tribunali, sempre internazionali, per i diritti dell'uomo non l'hanno mai convinto, specie quando lasciano che gli imputati muoiano in cella, come Milosevic. Per capire Loach, occorre ricordare a che cosa s'è sottratto. Gli ex fautori della fantasia al potere sono diventati adepti del Nuovo Ordine Mondiale, abbracciando sfrontatamente - venalmente, talora - l'ideologia del Partito democratico degli Stati Uniti. E ciò fin dall'epoca di Jimmy Carter. Di qui la loro approvazione per l'assedio all'Iran, che ha comportato nel 1980 l'aggressione irachena; di qui la destabilizzazione dell'Afghanistan per obbligare i russi a intervenire; di qui l'adesione ai bombardamenti sulla Serbia nel 1995 e nel 1999, sino allo sbarco in Somalia, al bombardamento del Sudan, all'invasione di Afghanistan e Iraq. Nell'elenco di costoro non trovate di certo Loach. Questa svolta nell'orientamento dei pacifisti di una volta è passata senza troppi ostacoli. Solo in Gran Bretagna l'opposizione di sinistra e quella di destra hanno ottenuto di mettere sotto accusa il primo ministro dell'epoca. E ciò anche grazie al cinema, per l'azione di Loach, poi del romanziere Robert Harris, già vicino a Blair e autore della sceneggiatura di L'uomo nell'ombra di Polanski, dove il personaggio del primo ministro britannico condizionato dalla Cia è evidentemente Tony Blair. Invece Loach insiste nella lotta di classe, che a tanti pare una categoria superata proprio quando è più attuale che mai nell'ultimo trentennio. Chi voleva cambiare il mondo, ma dal mondo era stato cambiato, ha così lasciato a Loach - come a Bauman e Chomsky, a Michéa e Latouche, a Sloterdijk, a Zizek, Danilo Zolo e Perrone - non il testimone dell'oltranzismo, ma quello della coerenza.

Anche prima di ieri avevo già incontrato più volte Loach nei grossi festival, ai quali partecipa con invidiabile regolarità, raccontando vicende diverse con uguale brio. In queste manifestazioni, che generalmente accolgono ogni tipo di film purché ambizioso (cioè spesso velleitario negli esiti) e schierato (cioè spesso fazioso), succede per lo più di annoiarsi. Anche e soprattutto le manifestazioni a vocazione estetica - "d'arte cinematografica" si definisce la Mostra di Venezia - transigono dunque volentieri sull'arte, se scorgono nell'opera un contenuto politicamente e moralmente congruo all'ideologia dominante fra cinefili, critici e cineasti. Ma c'è una spiegazione, anche se non è una giustificazione. Il sottinteso è che un festival è un'agorà, il posto dove ogni dichiarazione di principi è ammessa. L'ala "estremista di centro", qualunquistico-moderata o populistico-televisiva, della maggioranza governativa italiana, quelli che si appoggiano solo sulla cultura così relativa del "popolo dell'Iva", s'oppongono grossolanamente (e naturalemente) a questo modo di ragionare. Non hanno tutti i torti, infatti della libertà d'offrire libertà si è abusato. Ma il loro discorso non ha quasi mai il tono della conversazione o del dibattito: ha il tono del rutto. Il recente principio fatto proprio dal ministro proprio della Cultura italiano - l'erario paga la Mostra di Venezia, i giurati s'adeguino - è forse la prova che un'area sociale e politica italiana intende ogni manifestazione culturale, se sostenuta dal denaro pubblico, come promozione pubblicitaria, svincolata dal merito e vincolata al consenso.

La grandezza di Ken Loach è di stile, personale prima che cinematografico. Nelle sue decine di Festival, ne ha vinto uno; negli altri non s'è abbandonato a capricci. Non ha disprezzato i colleghi. Non s'è sottratto alle interviste. E a Cannes ha alzato la Palma d'oro fra la rabbia di tanti britannici, ma aveva narrato una guerra civile, la peggiore, nel migliore dei modi. Fischiato da inglesi (e anche da certi italiani) perché aveva saputo esprimere simpatia agli irlandesi e rispetto ai loro oppressori secolari, perché le origini non si rinnegano mai. Benvenuto a Roma, Ken Loach.

Maurizio Cabona
Fonte: http://www.secoloditalia.it
22/09/2010


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