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Intervista a Bobo Craxi: Si, mio padre avvertì Gheddafi


Tao
 Tao
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«Sì, mio padre avvertì il colonnello dell'imminente attacco americano. Lo fece per un senso di giustizia e perchè era convinto che la questione mediorientale non andava risolta con le armi». Bobo Craxi ha la cadenza del padre, di Bettino Craxi: voce profonda, linguaggio diretto e molte pause tra una parola e l'altra. Quelle stesse pause che hanno reso inconfondibile la voce del padre, tornato alle cronache politiche dopo la dichiarazione di Abdel-Rahman Shalgam, ai tempi ambasciatore libico a Roma e oggi ministro degli esteri: «Craxi mi mandò un amico due giorni prima per dirmi di stare attenti, perché ci sarebbe stato un raid americano contro la Libia».

«Certo che sapevo questa storia - racconta Bobo Craxi - non l'ho mai rivelata perchè era un affare di Stato e come tale l'ho considerato». Ma ora che la vicenda è di pubblico dominio Craxi Jr. si spinge più in là: «Questo episodio, insieme a quello di Sigonella, non è mai andato giù agli americani. E forse non è un caso che ai tempi di tangentopoli l'amministrazione Usa non abbia mai difeso mio padre, anzi... Fecero così anche in Cile, isolarono i socialisti, li disegnarono come dei corrotti per giustificarne la cacciata».
Nessun intrigo internazionale, nessun colpo di stato. «Non sono mica così sprovveduto. So benissimo che tangentopoli era frutto di una degenerazione reale del sistema partitocratico italiano. Detto questo, è indubbio che l'amministrazione americana di allora, ed Edward Luttwak in prima persona, non hanno mai perdonato l'autonomia di mio padre».

Come andarono le cose in quell'aprile del '86? Suo padre fu davvero l'autore materiale della "soffiata" che salvò la vita di Gheddafi?

La vicenda, grosso modo, andò come l'ha raccontata Shalgam. Gli americani avevano deciso di dare una lezione definitiva al colonnello Gheddafi. I caccia si alzarono in volo dalle basi portoghesi e chiesero il permesso di sorvolo alla Spagna. A quel punto, l'allora primo ministro spagnolo Felipe González, contattò mio padre per comunicargli quanto stava accadendo. Fu lì che mio padre decise negare lo spazio aereo italiano ai caccia americani.

E quale fu la motivazione ufficiale?

Non era un'operazione dell'Alleanza atlantica. E poi non era pensabile che gli americani chiedessero un'autorizzazione quando l'operazione era già iniziata. Questa cosa fece irritare doppiamente mio padre. In secondo luogo quell'operazione non aveva alcun obiettivo militare, ma un obiettivo politico e umano: volevano uccidere il colonnello e lui decise di salvargli la vita. Insomma, fu spinto da un senso di giustizia. Mio padre era un uomo giusto. Purtroppo riuscì ad avvertire il colonnello solo all'ultimo minuto attraverso il leader laburista maltese Dom Mintoff. Se lo avesse saputo prima si sarebbe salvata anche la figlia di Gheddafi.

E come spiega la reazione di Gheddafi a quell'attacco americano. Il colonnello lanciò infatti i due famosi missili Scud contro Lampedusa...
Direi che Gheddafi, consapevole della soffiata, decise il lancio degli Scud per coprire l'indiscrezione di mio padre.

Insomma, una finta reazione? Del resto i due missili mancarono clamorosamente il bersaglio...

Grosso modo mi sembra che una ricostruzione di questo genere possa essere verosimile. Certo, i due Scud avrebbero potuto provocare una strage ma il fatto che non centrarono il bersaglio, forse, non fu del tutto casuale.

Come mai questa storia è rimasta segreta per così tanti anni?

Direi che la cosa è rimasta in serbo per non offuscare l'immagine atlantista dell'Italia. Mio padre era davvero un rigoroso atlantista solo che non ammetteva l'uso indiscriminato della forza per risolvere le questioni politiche. Su questo e sulla difesa delle vite umane era intransigente. Era un socialista, e semplicemente non sopportava il sopruso dei più forti sui più deboli. Nonostante le ambiguità del colonnello, mio padre era convinto che la questione mediorientale non poteva che essere risolta dalla politica e dalla diplomazia. Senza contare che in Libia c'erano ancora 8mila italiani.

Quali erano i rapporti tra suo padre, Bettino Craxi, e Gheddafi?

In realtà i due non si incontrarono mai di persona. Era stato fissato un incontro a Malta ma poi saltò. Si parlavano attraverso il primo ministro maltese Mintoff e più in là, negli anni dell'esilio in Tunisia, attraverso Daniel Ortega che di ritorno dai viaggi in Libia portava sempre i saluti del colonnello. Circa un anno fa, nel corso di un vertice Euromed il ministro degli esteri libico Shalgam, negli anni '80 ambasciatore a Roma, mi vide e mi accompagnò da Gheddafi. E lui, che notoriamente è imperturbabile, mi fece un largo sorriso e mi disse: "Non dimenticherò mai quello che fece tuo padre per me". Nel viaggio di ritorno ne parlai con Prodi ma decisi di non dire nulla pubblicamente. L'ho sempre considerato un affare di Stato che io ho saputo solo incidentalmente, solo per vie familiari.

Dopo questa vicenda, e dopo quella di Sigonella, Craxi subì pressioni dall'amministrazione Usa guidata, allora, da Ronald Reagan?

Mio padre era molto amico di Max Raab, ambasciatore americano a Roma in quegli anni, e, nonostante non parlasse inglese, aveva molta simpatia umana per Ronald Reagan. "Non ha mai dimenticato di essere stato un attore", soleva dirci. Insomma, i due avevano familiarizzato. Ma nulla a che vedere con i rapporti tra Bush e Berlusconi. Voglio dire che mio padre aveva una linea di condotta molto chiara. Il rapporto dentro l'Alleanza era assolutamente rigoroso, ciò non toglie che di fronte alla potenza americana i rapporti non dovevano mai diventare di sudditanza. Mio padre, ma anche personaggi come Moro e Andreotti, aveva chiaro in mente l'importanza dell'alleato statunitense: il suo ruolo nel dopoguerra e la sua influenza nelle cose italiane negli anni della guerra fredda. Nessun pregiudizio anti americano dunque, ma chiarezza nei rapporti. L'autonomia ed il rispetto erano dunque fondamentali per difendere l'interesse nazionale ed evitare qualsiasi forma di subalternità.

I rapporti ressero anche dopo la vicenda di Sigonella?

Anche in quel caso, mio padre si mosse secondo le regole del diritto internazionale. Nessuna linea di rottura, dunque.

E rispetto alla vicenda palestinese? Qual era la linea di Craxi?

Ripeto, mio padre aveva un profondo senso della giustizia. Sapeva bene che quella palestinese era un lotta di liberazione di un popolo. Una lotta giusta e necessaria. Per questo fece quel famoso discorso alla Camera in cui paragonò la lotta palestinese al nostro Risorgimento. I repubblicani si arrabbiarono ma la sua non fu una provocazione: quando i popoli sono in lotta per la propria libertà si spingono fino ai confini della violenza come arma politica. "Quando il Mazzini dell'esilio - disse l'allora presidente del consiglio Craxi - si macerava sulle sorti dell'Italia, lui, uomo così nobile, religioso e idealista, concepiva e disegnava e progettava gli assassini politici come forma di lotta politica. Per questo ritengo legittimo l'utilizzo dell'uso delle armi del popolo palestinese per liberarsi da un'occupazione straniera". I comunisti applaudirono ma la cosa, purtroppo, rimase isolata.

Questa affermazione non piacque invece ai repubblicani, ma soprattutto non piacque agli alleati statunitensi...

Certo, e la fine politica di mio padre non fu certo opera esclusiva di tangentopoli.

Cosa intende dire?

Io sono certo che tangentopoli fu il frutto di un sistema partitocratico degenerato, ma l'eliminazione politica dei protagonisti della cosiddetta prima Repubblica fu sorretta, per così dire, da una mano invisibile e da settori internazionali che avevano tutto l'interesse di liberarsi di personaggi del calibro di Craxi e Andreotti. Io non dico che gli assessori che rubavano erano spie o provocatori della Cia. Ma non c'è dubbio che qualcuno
può aver approfittato della situazione per liberarsi di qualche personaggio che riteneva scomodo.

Insomma, lei dice che gli americani esasperano tangentopoli per far fuori un'intera classe dirigente. Si tratta di sensazioni oppure può provare quello che dice?

Diciamo che sono sensazioni molto nette.

E come mai gli Stati Uniti consideravano esaurita l'utilità dei vari Craxi e Andreotti?

Ci sono molte ragioni. Tangentopoli nasce in un periodo di interregno dell'amministrazione statunitense. Personaggi come Edward Luttwak avevano molta influenza, soprattutto sugli affari italiani, e, nonostante Craxi fosse un atlantista convinto, era comunque un socialista ed un europeista . A quel punto, qualcuno d'Oltreoceano, decise che la campagna mediatica contro la prima Repubblica non solo non andava smentita, ma sostenuta. Niente di originale. E' una tecnica utilizzata in Cile, per esempio, dove, per giustificare il golpe, gli Usa sostennerono la campagna diffamatoria contro i dirigenti socialisti e democratici di allora.

Insomma, la manina, o manona, statunitense?

Gli Stati Uniti avevano l'autorevolezza per difendere i leader italiani di allora. Mi chiedo come mai non lo fecero. Decisero invece di isolarli e lo fecero come si deve: Craxi in esilio, disegnato come il pericolo pubblico numero uno, e Andreotti alla sbarra con l'accusa di essere un boss mafioso.

Ma come mai Craxi e Andreotti non erano più considerati affidabili, come mai decisero di scaricarli?

Il mondo stava cambiando e loro continuavano a rappresentare un ostacolo su diverse questioni, soprattutto questioni economiche: penso alle privatizzazioni e all'europeismo, fumo negli occhi per gli americani. E poi la questione mediorientale. Le persone che avevano umiliato gli Stati Uniti, quelli che dialogavano con il mondo arabo andavano tolti di mezzo. Un'operazione riuscita visto che ora, con Berlusconi, possono contare su un sistema politico assolutamente subalterno.

Davide Varì
Fonte: www.liberazione
2.11.08


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