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Investire è proporre le medesime cause che producon la crisi


Anticapitalista
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Marx e gli economisti classici
Investire è proporre le medesime cause che hanno prodotto la crisi

Ci risiamo. Puntuale come il Big Ben, allo scoccare delle ore più convulse di una crisi generale, qualche dotto economista borghese continua l’opera dei più illustri predecessori, nel vano tentativo di rendere innocuo Il Capitale di Marx. Un consiglio a tutti quanti siano animati dall’intenzione di rendere Marx digeribile alla borghesia: gettate senz’altro Il Capitale nel cestino perché non troverete mai una riga di quell’arma proletaria che non suoni campana a morto per il modo di produzione capitalistico.

Teoria del plusvalore cuore della dottrina marxista

Da oltre un secolo il bersaglio di ogni ideologo di regime che voglia conquistarsi la pagnotta è la base vitale della dottrina marxista: la teoria del valore. Le questioni in merito aprirebbero scenari sterminati che richiederebbero una trattazione approfondita; qui ci limitiamo a qualche richiamo.

Marx attacca frontalmente le teorie degli economisti classici sul plusvalore senza lasciare spazio al dubbio: «Tutti gli economisti commettono l’errore di considerare il plusvalore non semplicemente in quanto tale, ma nelle forme particolari di profitto e di rendita» (Teorie sul Plusvalore, Vol. I). Questo importantissimo concetto, che apre quello che avrebbe dovuto diventare il IV Libro del Capitale dedicato alla Storia delle dottrine economiche e che è classificato dall’autore come “Osservazione generale”, è l’errore principale che non permette di comprendere l’arcano della fattura del plusvalore. In altre parole quella grandezza non è trattata per quello che realmente è – una maggiorazione nel valore derivante dalla produzione immediata – ma per il tramite di forme specifiche che quel plusvalore assume alla superficie dell’economia; perciò lo si fa derivare di volta in volta o dal capitale complessivo (o come si dice oggi dall’insieme dei “fattori produttivi”) anticipato dal capitalista (il profitto), o da proprietà naturali della terra (la rendita).

Anche gli economisti classici non si sottraggono a questo abbaglio, come rileva Marx nei capitoli che dedica alle teorie sul plusvalore e sul profitto di Smith e Ricardo. Un abisso separa la scienza marxista dai protagonisti del pensiero classico.

Marx e ad Engels non attribuirono a quei grandi economisti del passato gli strafalcioni dei loro epigoni contemporanei. Peggio ancora stati sono i successivi, che hanno mischiato i principi dell’economia classica con le assurdità prese a prestito dai “professori” dell’economia marginalista o degli “istinti animali” di keynesiana scoperta.

Niente di simile agli strali contro la misurabilità e prevedibilità delle leggi di sviluppo del modo di produzione capitalistico sarebbe potuto uscire dalla mente di un Ricardo, il quale, anzi, venne ripetutamente accusato di non interessarsi – nei suoi studi – al comportamento degli “uomini” ma solamente allo sviluppo delle forze produttive. Oggi si sente dire che l’economia sarebbe una scienza sociale e pertanto anti-deterministica per eccellenza. È vero il contrario! Le leggi che determinano il collasso del sistema borghese di produzione sono rintracciabili proprio nel suo peculiare meccanismo di funzionamento; non agiscono come cause esterne, ma come contraddizioni immanenti, e pertanto non sanabili sulla base delle norme capitalistiche.

Orrore della scienza borghese è sempre stato la impersonale legge della caduta tendenziale del tasso di profitto medio, formula che condanna il modo di produzione più mostruoso che la storia abbia mai conosciuto ad essere semplicemente transitorio. È secondo Marx stesso la legge più importante del capitalismo.

Un modo di produzione che si qualifica per quello che è, ovvero non l’unico mezzo storico per produrre ricchezza. Ecco un altro chiodo che la teoria marxista delle crisi viene a ribadire: fatta passare, come niente fosse, l’identità tra la dottrina marxista e le teorie dell’economia classica sul plusvalore, è giocoforza trasformare il capitalismo nella “produzione in generale” (Marx, Introduzione del ’57 a Per la critica dell’economia politica). E per incanto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo si tramuta nella crescita della società; la valorizzazione del capitale diventa sinonimo di società dinamica in grado di migliorare se stessa, ed altri simili giochi di specchi borghesi.

Ben altrimenti il marxismo tratta la dottrina dei modi di produzione:

«Quando si parla di produzione, si parla sempre – ad un livello determinato di sviluppo sociale – della produzione di individui sociali. Dunque appare che, in generale, per parlare della produzione, o dobbiamo seguire il processo storico di sviluppo nelle sue diverse fasi, oppure dobbiamo chiarire subito che ci limitiamo ad una determinata epoca storica, ad es. quella della moderna produzione borghese.
«La produzione in generale è sì un’astrazione, ma un’astrazione sensata, nella misura in cui mette effettivamente in evidenza ciò che è comune. Poiché questo generale, comune, è esso stesso variamente articolato e si snoda in diverse determinazioni, ne consegue che alcune appartengono a tutte le epoche, altre sono comuni solo ad alcune, altre ancora appartengono sia all’epoca più moderna sia alla più antica. La differenza da quel generale, comune, da quelle determinazioni, che valgono per la produzione in generale, deve essere individuata, in modo che, per l’unità – che deriva dal fatto che il soggetto, cioè l’umanità, e l’oggetto, cioè la natura, restano gli stessi – non venga dimenticata l’essenziale diversità».
Ed ecco la sentenza che sbattiamo volentieri sul grugno dei rifondatori: «In tale dimenticanza consiste l’intera saggezza dei moderni economisti, che vogliono dimostrare l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti» (Introduzione del ’57).
La crisi da sovrapproduzione

Un modo di produzione storico è destinato a scomparire quando si profilano nuovi più elevati rapporti sociali di produzione; è questa la condanna più dura per l’economia volgare! Per esorcizzare la paura, gli ideologi dell’imperialismo raffigurano il capitalismo come un sistema attraversato sì da periodici squilibri di funzionamento, ma in grado di ritrovare l’equilibrio per il tramite o della “mano invisibile” o dell’intervento dello Stato.

Alla seconda schiera appartengono in genere coloro i quali credono che il marxismo sia soltanto una versione antiquata del pensiero di Keynes. Chissà cosa direbbe il Lord inglese a proposito, sostenitore convinto che socialismo e sindacati fossero il «microbo patogeno della civiltà». Engels a ragione sosteneva di preferire gli aperti nemici ai falsi amici!

Oggi che la crisi generale da sovrapproduzione fa sentire i suoi effetti tornano in auge le teorie più disparate. C’è chi sostiene che la colpa – cristianamente – sia della “cattiva finanza”, chi dei mercati emergenti privi delle “tutele sociali” proprie dei paesi sviluppati, dimenticando dell’identico percorso seguito da questi nel passato...

Il marxismo solo ha saputo trovare la risposta completa per i fenomeni che ciclicamente sconvolgono la società intera e tornano a gettare nella miseria i proletari, ricordando la loro natura di semplici venditori di forza-lavoro nullatenenti.

Marx nella Sezione III del Terzo Libro del Capitale affronta proprio la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto, connessa al determinarsi delle crisi; dimostra che tale saggio decresce storicamente in rapporto all’aumento della composizione organica del capitale: il rapporto tra la parte costante del capitale e quella variabile:

«Ciò significa che lo stesso numero di operai e la stessa quantità di forza-lavoro, corrispondenti a una data quantità di capitale va
riabile, in conseguenza dei metodi particolari di produzione che si sviluppano nella produzione capitalistica, mettono in movimento, impiegano, consumano produttivamente durante il medesimo periodo di tempo una massa sempre crescente di mezzi di lavoro, di macchinario e capitale fisso di ogni genere, di materie prime e ausiliarie e, per conseguenza, un capitale costante di sempre maggiore valore. Questa progressiva diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante, e per conseguenza al capitale complessivo, è identica al progressivo elevarsi della composizione organica del capitale complessivo considerato nella sua media. Del pari, essa non è altro che una nuova espressione del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo dell’impiego crescente di macchinario e di capitale fisso in generale, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotto da un eguale numero di operai nello stesso tempo, cioè con un lavoro minore».
Il capitale cresce più velocemente della classe operaia, la sola che, vendendo la sua forza lavoro, produce plusvalore. Il capitale progressivamente contrae la fonte stessa della sua esistenza. L’effetto ultimo di questa contraddizione è che al culmine di un periodo di prosperità il meccanismo dell’accumulazione s’inceppa e la macchina produttiva, turgida di merci, s’ingolfa e fatica a ripartire. È la sovrapproduzione generale, il fenomeno che attanaglia il presente capitalistico.
Qual è la ricetta dei cosiddetti “keynesiani di sinistra” per salvare il capitalismo dalla morsa della sovrapproduzione? L’intervento statale nella economia, volto a far “ripartire la domanda interna” per mezzo di grandi investimenti in opere pubbliche. Secondo questa visione tale meccanismo (il New Deal di Roosevelt) avrebbe risvegliato il gigante americano dalla crisi generale del ’29; in realtà l’accumulazione poté ripartire solo a causa del macello imperialista della Seconda Guerra mondiale in cui venne distrutta la quantità di capitale in eccesso, milioni di esseri umani compresi, solo capitale variabile per la borghesia.

Che significa investire per il capitalismo? Niente altro che un ulteriore aumento della composizione organica, un nuovo accumulo di lavoro morto pronto – alla bisogna – a sottomettere il lavoro vivo, la classe operaia mondiale. Investire è riproporre le medesime cause che hanno originato la crisi.

Al contrario, per i moderni sostenitori della “green economy” il problema sarebbe solo del capitale “senile”, per la sua “pigrizia” l’accumulazione si sarebbe bloccata con la fine del “capitalismo innovatore”. Scopo del capitalismo è la valorizzazione del capitale, la sua misura è il saggio del profitto. Quale migliore occasione se non i settori a bassa intensità di capitale, dove, proprio per tale ragione il tasso di profitto è più elevato? La crisi attuale sarebbe dovuta al “declinare di un paradigma senza che se ne sia affacciato un altro”.

In realtà il capitalismo è tale e quale a se stesso dal suo sorgere al tramonto, è un meccanismo di pompaggio del plusvalore, medesimo sotto tutti i cieli, tanto nei paesi a capitalismo ultramaturo quanto in quelli più giovani.

Altri, i più, snocciolano il rosario della crisi partita dal mondo della finanza per poi trasmettersi all’economia “reale”. Con tale espressione fumosa si commettono due colossali errori: 1) Si cercano le cause prime delle crisi nel circuito della circolazione del valore, superficie che nasconde quanto si verifica nelle profondità del meccanismo della produzione; 2) Si ritiene la speculazione un fenomeno immaginario, irreale, contrapposto al buon profitto dell’imprenditore, mentre l’insegnamento marxista è ben altro e ammonisce sulla complementarietà d’interessi tra capitalisti produttivi e rentier, entrambi “reali”.

Nulla potrà risollevare le sorti di questo mondo infame dalla sua orribile infinita agonia se non il risveglio rivoluzionario della classe operaia mondiale.
http://www.international-communist-party.org/ItalianPublications.htm


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