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Otto per Mille, la Cei deve fare i conti con la realt&agrave


Stodler
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Otto per Mille, la Cei deve fare i conti con la realtà

La pubblicazione dell’inchiesta della Corte dei Conti sull’Otto per Mille ha suscitato un certo interesse dei mass media e le inevitabili controrepliche dell’establishment cattolico, l’imperatore scopertosi improvvisamente nudo. Il tutto a caldo e senza aver letto il documento integrale. Che è corposo, dettagliato, istruttivo e pieno di considerazioni assennate. Meriterebbero una lettura attenta da parte di tutti.

Una sorta d’impegno dello Stato a provvedere alle necessità della Chiesa
Secondo la Corte non c’è quasi nulla, nel meccanismo dell’Otto per Mille così come è applicato ora, che si possa salvare. E lo fa capire senza giri di parole. I fondi destinati alle religione sono “gli unici che, nell’attuale contingenza di fortissima riduzione della spesa pubblica in ogni campo, si sono notevolmente e costantemente incrementati”. L’Otto per Mille era nato “per garantire, anzitutto, il sostentamento del clero”, ma “nel corso del tempo, il flusso di denaro di è rivelato così consistente da garantire l’utilizzo di ingenti somme per finalità diverse, non finanziate, in precedenza, con le risorse statali”, dando così vita “a un rafforzamento economico senza precedenti della Chiesa italiana”. È dunque tempo di mettervi mano, perché “le difficoltà di autofinanziamento della Chiesa cattolica non possono gravare sulle finanze pubbliche attraverso il rinvio sine die del ridimensionamento dei contributi statali: le risorse provenienti dall’8 x mille non possono essere intese come l’assicurazione di una sorta d’impegno dello Stato a provvedere alle necessità della Chiesa”. Che peraltro gode di “un trattamento di favore” (l’anticipo delle somme) che inevitabilmente produce “una disparità di trattamento” rispetto alle altre confessioni religiose.

Continuiamo a scorrere il documento. Il meccanismo è giudicato così “peculiare” che “i cittadini — anche dotati di diligenza media — possono essere indotti a ritenere che solo con una scelta esplicita i fondi vengano assegnati”. “Opacità” a monte, ma anche a valle: “manca trasparenza nelle erogazioni”, “mancano controlli sulla correttezza dell’agire degli intermediari” (specie quelli “collegati ad alcuni beneficiari”, come i Caf cattolici), ci sono “carenze nei rendiconti” e “non ci sono verifiche sull’utilizzo dei fondi erogati”. Si opera dunque “in violazione dei principi di buon andamento, efficienza ed efficacia della Pubblica Amministrazione”. “Molti credenti contribuenti sono oggi esclusi”, a beneficio dello Stato e — soprattutto — della Chiesa cattolica: occorre pertanto “realizzare forme di contribuzione non discriminatoria, destinata ad un più vasto numero di confessioni, al fine di evitare ogni forma di violazione del principio di ugual rispetto, eventualmente anche a favore di enti che perseguono un fine di religione “negativo”, anche perché “risulta del tutto frustrato l’intento di fornire una valida alternativa ai cittadini che, non volendo finanziare una confessione, aspirano, comunque, a destinare una parte della propria imposta a finalità sociali ed umanitarie”. Il confronto è con il meccanismo del Cinque per Mille, “più rispettoso dei principi di proporzionalità, di volontarietà e di uguaglianza”, “più inclusivo e democratico”.

Non è ancora finita: il fiume è sempre più in piena. Lo Stato è definito “l’unico competitore che non sensibilizza l’opinione pubblica sulle proprie attività”, manifestando in tal modo “un completo disinteresse che ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore”. Per contro, si devono constatare “le notevoli risorse spese dalla Chiesa cattolica”, che “rischia di creare un mercato della domanda e dell’offerta religiosa e del solidarismo, che pone il problema dell’equilibrio tra costi sostenuti e realizzazione degli scopi prefissati”, stante” “il significativo divario fra la misura degli interventi umanitari e il complesso di risorse disponibili” per la Chiesa cattolica. La Corte raccomanda che, “al fine di garantire la piena esecuzione della volontà di tutti, la decurtazione della quota dell’8 per mille di competenza statale” per altri fini, come avvenuto in passato, sia “eliminata”. Si ponga inoltre rimedio “all’irrazionale impiego delle risorse”, alla sua “ripartizione del tutto sperequata”, all’”incoerente propensione al finanziamento di opere di restauro di edifici di culto e di beni di proprietà delle confessioni” (circostanza che genera “effetti distorsivi”, visto che “i contribuenti hanno voluto escludere tale destinazione”), al “rischio di duplicazione dei contributi” in favore delle confessioni religiose, alla “ricorrente concessione ai comuni di contributi per la conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico di proprietà ecclesiastica”.

Un testo impressionante. E non è nemmeno il primo. Ma, a ben vedere, è semplicemente un’alluvione di dati di fatti commentati con banale buon senso. Il fiume di denaro che affluisce ogni anno ai vescovi italiani è ormai imbarazzante, tanto che anche la ben nota clericale Ombretta Fumagalli Carulli ha chiesto “un gesto” da parte dell’episcopato. Gesto che puntualmente non è arrivato. Il quotidiano dei vescovi Avvenire ha ospitato soltanto critiche ai magistrati contabili, affidate al giornalista Umberto Folena e all’ex presidente della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli.

Il primo, già noto per essersi lanciato nella spericolata mission impossible di smentire il contenuto del libro La Questua di Curzio Maltese, non entra nel merito delle critiche, ma si limita ad accusare la Corte di “far propria la querelle di gruppi politici ben noti”, accusandola “di incrinare il clima di collaborazione con le religioni”. Che nessuno nega, peraltro: se ne contesta semmai l’ingiustificato costo. Mirabelli vola ancora più basso: quello della Corte sarebbe solo “un giudizio politico”. L’intervistatore sembra addirittura fargli dire che il meccanismo è “guardato con ammirazione e imitato da altri Stati”, ma non scrive che chi l’ha fatto — come la Spagna — vi ha prontamente rimesso mano, abolendo le scelte inespresse.

Superato i due terzi delle risorse destinate per la conservazione del patrimonio artistico
I dati di fatto non sembrano interessare, ai vertici cattolici. E un fatto estremamente significativo è anche la mancata risposta, da parte della Cei, alla convocazione inoltrata dalla Corte dei Conti. Probabilmente i vescovi si sentono talmente circonfusi da un’aura di sacro da ritenersi intoccabili e inavvicinabili. O forse pensano che esista ancora il privilegio del foro. Certo, i privilegi di cui godono tuttora non sono affatto pochi. Se tuttavia non riescono a fare i conti con i dati di fatto, li facciano almeno con il buon senso. Tutti — irrazionalmente, a mio parere — parlano del turismo come della principale ancora di salvezza del paese. Ebbene, la Corte dei Conti ha giustamente fatto notare che “la contribuzione alle confessioni religiose ha superato i due terzi delle risorse destinate per la conservazione del patrimonio artistico del Paese”. Una semplice constatazione che appare un autentico schiaffo nei confronti di chi lo governa, il Paese, e che di fronte ai rilievi della Corte dei Conti ha mantenuto invece un silenzio assordante. Altro che religione: siamo alla parrocchietta di Stato.

Raffaele Carcano

http://www.uaar.it/news/2014/12/05/otto-per-mille-cei-deve-fare-conti-con-realta/


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