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Strage di Bologna: Confessioni di un capro espiatorio


alcenero
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Sergio Picciafuoco, 14 anni dopo l’assoluzione definitiva per la strage di Bologna, si racconta
Mi chiamo Sergio Picciafuoco e sono stato ladro, ricettatore, detenuto e latitante; ma soprattutto sono stato un capro espiatorio. Oggi ho sessantacinque anni e un passato desertificato dalle condanne, dal carcere, dai reparti psichiatrici e dallo sguardo ostile delle persone. Il sospetto che ha gravato su di me per quindici lunghi penosi anni,

fino all’assoluzione definitiva dei giudici, è quello che mi voleva tra gli esecutori materiali di una strage. Che, detto fuori dai denti, significa essere ritenuto l’assassino di moltissime persone, ammazzate tutte in una volta. Non sono mai stato uno stinco di santo e non faccio mistero dei continui espedienti e dei piccoli reati di cui ho campato per anni; e per cui ho pagato il mio tributo alla giustizia. Ma non ho mai ucciso nessuno, nè avrei mai potuto solo immaginare di farlo. Per natura.
Il giorno più importante della mia vita risale a trent’anni fa. Si tratta del 2 agosto del 1980. E non fu un bel giorno. Quel 2 agosto fu nefasto per tutto il paese. Ma per me lo fu in maniera paradossale, grottesca, come in uno scherzo del destino. Erano le 10,25 di mattina e nella stazione di Bologna fu un attimo lungo e folgorante: una bomba deflagrò nella sala d’aspetto di seconda classe e ottantacinque persone morirono, mentre duecento rimasero ferite. Io ero lì, quel giorno a quell’ora, all’altezza del quarto binario, seduto a gambe penzoloni sul muretto delle scale per il sottopassaggio. Al quarto binario, a pochi metri dalla morte, che sfogliavo Gente Motori, in attesa di un treno per Milano. Ma -e ancora oggi non so se fu fortuna o sfortuna- io sopravvissi. Io sopravvissi, eppure da allora, lungo i mesi e gli anni che seguirono, per me fu un po’ come essere morto senza essere morto.
Ero latitante allora, scappato 10 anni prima dal carcere di Ancona, dove mi trovavo per reati contro il patrimonio, ed avevo con me documenti falsi che mi spacciavano per Eraclio Vailati, l’alter-ego che ero diventato dopo l’evasione. Ricercato e sotto falsa identità avrei dovuto dileguarmi all’istante, svanire per l’ennesima volta -me lo sono ripetuto per anni- lasciare a tutti gli altri l’orrore di quello spettacolo, come forse avrebbe fatto chiunque si trovasse nelle mie condizioni e fosse dotato dell’istinto di sopravvivenza minimo degli umani. E invece, dopo l’esplosione, non solo rimasi là ma, incredulo e allucinato seppure intero, mi diedi da fare per prestare i primi soccorsi. Non ricordo ancora cosa pensai, perchè rimasi. Ma quello che vidi, quello strazio di corpi e di sangue, nella luce diafana della stazione devastata, tra la polvere sospesa, non ha più abbandonato i miei occhi; e avrebbe tolto la pace per sempre anche al più efferato e sanguinario dei terroristi. Mi feci medicare, più tardi, le lievi ferite che avevo riportato, fornendo il mio nome falso. Ero troppo sprovveduto per immaginare quanto mi sarebbe costata quell’ingenuità. Lasciai così una traccia inequivocabile del mio passaggio nel luogo dell’attentato, assolutamente inconsapevole di quanto la mia presenza nel posto sbagliato al momento sbagliato sarebbe stata trasfigurata, ben presto, in inequivocabile segno di colpevolezza. Così, quando nell’aprile dell’81 venni arrestato al confine del Tarvisio, inizialmente fui tirato dentro l’inchiesta solo come testimone; sino a che non mi ritrovai incriminato, come membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari, l’organizzazione eversiva di destra ritenuta responsabile della strage, seguendo una dinamica che Marco Bezicheri, il mio legale bolognese, avrebbe in seguito descritto come la “metodologia del sospetto”. I tempi stringevano, le indagini non avevano ancora fatto abbastanza luce sui fatti e la strage urgeva di responsabili ufficiali: il mio profilo si prestava bene per dare un volto verosimile ad un tassello mancante nel mosaico dei presunti terroristi. La mia candidatura a colpevole forse era utile a coprire altre ipotesi, piste più spaventose; era comunque sicuramente adatta a chiudere il cerchio accusatorio che avrebbe placato l’opinione pubblica e additato un altro nome e cognome alla disperazione dei familiari delle vittime. “I tentativi di inserire a forza il Picciafuoco nelle vesti di un elemento clandestino della cosiddetta destra eversiva, si sono ripetuti fino al secondo processo d’Appello, ma hanno dato tutti un ben misero risultato” scriveva il mio avvocato.
Ho ripetuto senza mai stancarmi, tutte le volte che mi è stata concessa la parola, che so molto poco di politica, di destra, di sinistra. Che io con i NAR non ho mai avuto niente a che fare. A parte l’origine comune dei miei documenti falsi con quelli di alcuni membri dei NAR, tra cui Giusva Fioravanti. Il che significa solo che gli stessi falsari avevano confezionato anche il loro, oltre che il mio passaporto. Io ero un latitante, l’ho già detto; e mi ero procurato i documenti falsi da gente professionista, in carcere è facile sapere a chi rivolgersi per queste cose; e quei professionisti avevano il loro giro, io non ero certo il loro unico cliente. “Ma tu chi cazzo sei?”, questo mi sussurrò proprio Fioravanti, principale imputato insieme a Francesca Mambro, attraverso le sbarre della gabbia in Aula, quasi all’inizio del processo di primo grado, che si concluse nell’88 con una mia condanna come esecutore materiale. Fu solo dopo un mese di udienze, quattro per settimana, e di sguardi pieni di sfida e di sospetto (ero un infiltrato?), che un giorno Fioravanti mi rivolse nuovamente la parola, forse dopo aver raccolto le sue informazioni. Fu la prima volta che mi chiamò per nome. “Sei uno sfigato, Sergio. Ecco chi sei”. Da allora quella qualifica mi si è appiccicata addosso e nella testa, sfigato, fino a sentirla come una specie di apprezzamento, un elemento di resistenza psichica, sicuramente un’alternativa accettabile al ruolo di stragista che tutti gli altri volevano cucirmi addosso. Quelli che mi difendevano non avevano migliore argomento che ribadire che ero solo un balordo, uno sbandato, uno sfortunato. Meglio che un assassino.
Fui condannato, dunque. Al carcere, ma soprattutto alla sfiducia, alla disperazione, allo sconforto davanti a una forza avversa che percepivo spaventosamente più grande di me. Le persone e le cose, tutto mi si accaniva contro. Quasi a prescindere. Il Pubblico Ministero Libero Mancuso, una volta, addirittura azzardò che forse avevo agito sotto ipnosi. Ero colpevole a tutti i costi. Mi chiedo se i giudici avessero avvertito nel mio nome un presagio, un destino, un’attitudine originaria a seminare ordigni, ad accendere il fuoco; perchè, per il resto, l’impianto probatorio era debolissimo. Soprattutto, come scrisse ancora l’avvocato, “a nulla valse il ricordare che se Picciafuoco avesse avuto una qualche parte nell’esplosione alla stazione di Bologna, quale emissario di una occulta organizzazione, avrebbe cercato di sgusciare via subito ed inosservato ed avrebbe evitato di andare a farsi medicare in un posto pubblico e poi di rimanere per vario tempo presente a Modena e Bologna, frequentando persone con le quali aveva allacciato normali rapporti di amicizia e conoscenza”.
Mi ha sempre colpito che gli stessi Mambro e Fioravanti, pur rei confessi di altri omicidi, abbiano tenacemente continuato a professarsi innocenti riguardo a Bologna. Non posso dire se sia così davvero, ma non posso nemmeno escluderlo. Negli anni ho dovuto imparare ad affinare lo sguardo e il giudizio, per pura necessità. E dall’interno della mia condizione di presunta colpevolezza e di impotenza, ho intuito, percepito, intravisto che la vicenda tragica di Bologna ha livelli più complessi, contorni più grandi, collegamenti e coincidenze più inquietanti della pura e semplice violenza ideologica di un gruppo eversivo fascista. Lo lasciano sospettare i massicci tentativi di depistaggio che l’inchiesta ha costantemente subito.
“L’imputato è assolto
. Per non aver commesso il fatto”. Era il 18 giugno del 1996. Per sentirmi pronunciare questa frase ho dovuto affrontare un doloroso percorso giudiziario, tra condanne e assoluzioni, durante il quale il mio disagio psichico è gradualmente cresciuto; un percorso che mi ha condotto, fino all’ultimo grado del Processo, all’assoluzione definitiva, poi confermata nel ’97 dalla Cassazione. Ma già, a quel punto, molta parte di me era compromessa. Per un certo periodo, nuovamente libero, ebbi anche a commettere altri piccoli reati, rimediando persino un buco nella pancia e rischiando la vita. Ma questa è un’altra storia e all’epoca io già vagavo tra un ricovero psichiatrico e l’altro. Poi fu grazie ad alcuni familiari che le cose presero un altro verso ed io diventai un operaio, una persona di poche pretese, domiciliata in una pensioncina.
Oggi sono sulla soglia del pensionamento e vivo nelle Marche, dove sono nato. Il mio monolocale è piccolo ma accogliente. Il tempo ha ammorbidito l’effetto velenoso del sospetto altrui, senza mai però spegnerlo. Lo stato non mi ha mai risarcito per gli errori giudiziari che mi hanno devastato l’esistenza. E nessuno si è fatto mai carico di una mia riabilitazione pubblica, davanti agli occhi del mondo. Oggi, però, malgrado tutto, ho un solo vero desiderio. Vorrei fosse cancellata per sempre anche la sola ombra di quel sospetto e di quelle accuse che per anni mi hanno soffocato e ancora oggi mi tengono sveglio di notte. Vorrei che anche i parenti delle vittime accettassero la mia innocenza, anzi che ne diventassero certi. Vorrei la verità anch’io, in fondo. È paradossale ma vorrei che tutti vedessero, quando mi guardano, lo sfigato, il malcapitato.
A Bologna io sono stato l’ennesimo ferito, un ferito non conteggiato. Sono rimasto invalido nell’anima, nella dignità. La mia piaga ha il diritto di rimarginarsi.

Memoria di Sergio Picciafuoco scritta da Giampaolo Paticchio

La strage nel mistero

Il 2 agosto 1980, una bomba esplode nella sala d’aspetto di 2ª classe dell’affollata stazione di Bologna. Crolla un’ala dell'edificio e il colpo investe anche il treno Ancona-Chiasso, sul 1° binario. Moriranno 85 persone, oltre 200 rimarranno ferite. La pista investigativa più seguita è quella che porta all’eversione di destra e più precisamente ai Nuclei Armati Rivoluzionari. Ma i vari processi lasceranno emergere una vicenda molto più complessa; e l’interesse a depistare le indagini si rivela alto e diffuso. L’alternarsi delle sentenze, lungo i vari gradi, è contraddittorio. E le condanne definitive del 1995 non colpiscono solo Fioravanti e la Mambro (NAR) per la strage, ma anche, stavolta per opera di depistaggio, l'ex agente del Sismi Pazienza e gli ufficiali Musumeci e Belmonte, oltre a Gelli, il capo della P2.
Nel ’96 la corte d'Assise d'Appello di Firenze assolve Sergio Picciafuoco dall' accusa di strage, ''per non aver commesso il fatto'' e nel ‘97 la Cassazione conferma l'assoluzione.
Nel 2000 la corte d’Assise di Bologna emetterà nuove condanne per depistaggio.
Del 2007 è la condanna definitiva per Ciavardini, ex NAR.
Ma già nel 2005 la procura di Bologna aveva confermato l’apertura di un'inchiesta bis, con al centro la pista palestinese e il terrorismo internazionale.
E le piste investigative non finiscono qui. L’agenzia Ansa ne ha censite almeno 6 tra quelle ipotizzate in 30 anni, tra cui anche la Libica, la Libanese, l’Americana.

Fonte: http://www.whymarche.com/
Link:
http://www.whymarche.com/index.php?option=com_content&view=article&id=32%3Aconfessioni-di-un-capro-espiatorio&catid=44%3Aperche&Itemid=90&lang=it


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Anonymous
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bell'articolo...


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