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Ceronetti - Hiroshima e Fukushima: un risorgente gesto di bu


Tao
 Tao
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Hiroshima e Fukushima: un risorgente gesto di bushido

Ecco, il 15 marzo 2011, terremoto e tsunami hanno provvidamente aperto il ventaglio di un’altra via. Quale? Quella di Mishima si ferma alle grida delle scuole di arti marziali. Ma nel suicidio di Mishima, avvenuto nel modo che sappiamo il 25 novembre di quello stesso anno, affiora qualcosa di più di una frustrata nostalgia guerriera. Qui sono tutti pronti a lodare il «Giappone che si riprende» (come grande produttore «inorganico e vuoto» ovviamente) ma volendo capire e sperare di meglio, guardiamoci dall’unirci a questa cantoria di castrati. Per forza, in mancanza dei segni e delle voci della lingua, dobbiamo ricorrere a categorie e termini arrischiatamente occidentali. Può essere utile (con riserva) il freudiano Todestrieb (pulsione di morte) per pensare il Giappone negli ultimi mesi della mostruosa guerra del Pacifico, tra marzo 1945 (data del primo attacco aereo suicida contro portaerei americane) e la resa (14 agosto).

Pulsione o istinto o volontà di morire, che dai piloti shinpu (non usava ancora il gonfiatissimo, e quanto distorto, kamikaze), che staccandosi da un bombardiere Mitsubishi madre si dirigevano su un aliante contro le navi americane, si era estesa all’intero popolo in vista di una guerra di sterminio casa per casa finché fosse piaciuto all’imperatore. Senza la resa non si sarebbe mai visto nulla di simile. Stupefacente è il seguito: l’aggavignarsi pronto, del popolo e delle autorità votati alla morte, al vincitore, il più forte, e anche il più disposto ad aiutare il vinto, a studiarne e a curarne anche le spaventose ferite dei bombardamenti nucleari. Si stabilisce da allora un misterioso legame, che definisco volentieri amoroso, tra l’anima profonda di una nazione che ha un’anima e un destino, gli Stati Uniti, e l’anima profonda di una nazione che, ben più antica, specifica e consolidata, ha un’anima e un destino: lo Yamato, il Giappone. Il paradossale ruffiano di questa unione nippo-americana che dura ininterrottamente dal 1945, fino a Fukushima, è il pikadon (lampo-tuono), il bombardamento del 6 agosto di Hiroshima, in coppia con quello di Nagasaki del 9, eventi che persuasero gli stati maggiori e l’imperatore, senza turbare la determinazione del popolo a sacrificarsi.

Nei teatri, in quello strano dopoguerra, racconta Georges Banu, l’entusiasmo degli spettatori per la bravura degli attori si esprimeva con grida come queste: «Sei bravo, sei il più bravo, sei McArthur!» . McArthur era lo sterminatore, il medico e il granaio. McArthur era il più forte. Nel bushido, la via del samurai, non esiste l’odio per il nemico: il samurai vincitore non vanta la sua vittoria (preferisce lodare i ciliegi in fiore) e se sopravvive vinto ammira e loda la forza del McArthur vincitore. Arrivo così a spiegarmi un perché tormentatore dai giorni dell’ultimo tsunami. Che cosa ha spinto (significativamente, mi pare, senza contrasto ambientalista) il Giappone a richiamare lungo le sue coste — e senza volersi detentore di quella Cosa Senza-Nome impropriamente detta «l’arma nucleare» , ottusa, ignobile, eppure fascinatrice più di Medusa— così tante centrali produttrici della stessa Energia in cui dorme, dovunque sorgano per fini industriali, una perpetua minaccia alla salute e alla specie umana? Le ragioni pratiche non m’interessano. Non indago che le psicologiche. La scelta del Giappone, che ha sparso cinquantacinque (finora) centrali nucleari in zone tutte a rischio di tsunami, viene dal Todestrieb, dalla stessa pulsione di morte dei disperati piloti suicidi, in travestimento pacifico, ma teschio uguale. E qui purtroppo devo ricorrere ulteriormente alla nostra più banale terminologia psicanalitica, vedendo l’istinto di morte generarsi da un irresistibile, più forte e segreto fantasma-madre soggiacente nei fondi di psiche: il drago sadomasochistico, il bisogno di autopunizione, di autoflagellazione, di essere «il coltello e la ferita» , il ventre aperto e il colpo di scimitarra finale. Mishima ha la vista lunga, ma non ha colto questa connotazione tragica nello stesso Giappone produttore «inorganico, vuoto, neutrale e neutro» che con la sua veemenza stilistica deplora. Se i concetti sono quelli della traduzione (Lezioni spirituali per giovani samurai, a cura di Lydia Origlia, 1988 SE), il Giappone da lui disprezzato era in realtà un produttore forsennato, con masse umane marcianti alla fabbrica (vedi Metropolis di Fritz Lang), tutt’altro che neutrale e neutro per la sua fortissima partecipazione all’inquinamento planetario (morte della terra, terricidio) sulle orme sempre del vincitore americano, e distruttore di cetacei nonostante il divieto della caccia baleniera, rovina mercuriale dei propri mari (memorabile il crimine del morbo di Minamata, che avvelenava i crostacei, consumato dai costieri): un grande «suicida» desacralizzato ma non deritualizzato. Molte vie ha, e può prendere, la pulsione di morte.

Di erotismo sadomasochistico è impregnato il romanzo giapponese del XX secolo. Da quale altra letteratura avrebbe potuto una favola luttuosa come La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata, essere concepita? Dai romanzi puoi ricavare più d’un motivo di stupore e di smarrimento per il comportamento giapponese di fronte all’amore, mai separato dalla pulsione di morte. Enigmatico è anche quest’altro tratto, che riporta alla cruciale guerra del Pacifico e a un dopoguerra vaginalmente erotico di assorbimento del Vincitore: non ci trovi odio per il nemico, né durante né dopo. Neppure di amore, come l’Occidente se lo figura e lo vive. In categorie propriamente estremo-orientali (lo Yin e lo Yang) ecco il Giappone è tutto, spiritualmente e fisicamente, Yin: dominio dell’ombra, spiegamento del principio femminile, onnipotenza dell’acqua, incesto con la madre, attrazione suicida. L’Ombra è la generatrice di quelle cinquantacinque centrali. In questa disposizione di passività femminile, che è dello Yamato di sempre, Tsunami del 15 marzo e incendi dei reattori si possono dire, a prezzo anche di molte vite intrepidamente votate a morirne, accolti, seminalmente rappresi nel baratro di psiche. Ma se il bisogno inconscio di compensare il mondo per la propria follia si farà luce, il Giappone, come obbedendo a un ordine imperiale, potrebbe trasgressivamente ricavare dalla peste radioattiva che ha suscitato il dono esemplare di una totale rinuncia ad ogni forma di risorsa energetica nucleare; potrebbe addirittura, per più e più cedere al vincitore Tsunami, convertire impoverendosi la sua immensa capacità produttiva alla causa della conservazione e dell’abitabilità planetaria: la più difficile, la più disperata di tutte.

Un simile evento chiuderebbe, in un risorgente gesto di bushido, il ciclo simbolico esistenziale che dai piloti suicidi, passando per Hiroshima, dopoguerra frenetico, democrazia e smania di arricchirsi, arriva al denudamento di Fukushima.

Guido Ceronetti
Fonte: www.corriere.it
22.04.2011


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