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Cristo delle peggio borgate, delle vite sprecate


Tao
 Tao
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Sono nato quarantuno anni fa in una borgata a nord di Roma. La borgata si chiama Settebagni, sorge in una zona che dista un chilometro dal Grande Raccordo Anulare, tra un’ansa del Tevere e un tratto della A1, ed è trafitta dalla ferrovia Roma-Firenze. Il nome deriva dal latino Septem Balnea, che compare per la prima volta in un atto risalente alla fine del XIII secolo. Terra abitata fino agli anni Trenta da agricoltori e pastori, sostituiti progressivamente da un ceto di piccoli commercianti, operai, artigiani e sottoccupati.

Italo Insolera, in Roma Moderna (Einaudi), a proposito della parola borgata ha scritto:

“C’è qualcosa di dispregiativo in questo termine che deriva da borgo: un pezzo di città cioè che non ha la completezza e l’organizzazione per chiamarsi ‘quartiere’ […], un pezzo di città in mezzo alla campagna che non è realmente né l’una né l’altra cosa”.

Settebagni non è citata tra le borgate ufficiali – gli insediamenti urbanistici di edilizia popolare voluti dal fascismo e realizzati dal 1924 al 1937 in quelle che allora erano le zone dell’Agro Romano – né tra le borgate spontanee che si sono costituite nel secondo dopoguerra. Settebagni fa parte del comune di Roma, ma non ha “la completezza e l’organizzazione” per chiamarsi quartiere né borgata.

E allora cos’è il posto in cui sono nato e in cui ho vissuto per i primi ventitré anni della mia vita?

Mi rendo conto che la domanda può apparire oziosa, e che forse basterebbe dire che sono nato e ho vissuto una buona metà della mia vita in una frazione di Roma e probabilmente la questione si chiuderebbe lì. Ma in realtà la domanda investe qualcosa di più profondo; ha a che fare, credo, con la cosa che chiamiamo identità.

Per stabilire l’identità di una persona occorre che quella persona sappia rispondere con precisione alla domanda: “Da dove vieni?”. Per molto tempo, a questa domanda, io non ho saputo opporre una degna risposta.

Il motivo è che Settebagni non la conosce nessuno. Neppure a Roma. Ai tempi delle superiori, ai miei amici dicevo: “Abito sulla Salaria”, mantenendo un grado di indeterminatezza inaccettabile, perché “abito sulla Salaria” può voler dire tutto e niente (la Salaria lambisce tanto i Parioli quanto Monterotondo Scalo). Sapevo che se avessi risposto dicendo “Abito a Settebagni” la prima reazione sarebbe stata un mezzo ghigno di derisione (in molti trovano il suono del toponimo particolarmente spassoso).

La questione dell’identità è fondante – dicevo – perché non mi sono mai ritrovato nell’immagine ortodossa della borgata dalla luce “lercia e bituminosa” canonizzata dai film di Pasolini, e più di recente dai romanzi di Walter Siti. Non perché a Settebagni non ci fossero le pasoliniane “povere, umili, sconosciute stradelle, perdute sotto il sole, in una Roma che non era Roma”, e non perché nel tempo in cui sono cresciuto – la seconda metà degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta – le borgate fossero già diventate un’altra cosa, ma perché il paesaggio che ricordo era più un anywhere carveriano, un sobborgo popolato da un motel, una ferrovia, un gommista, un fioraio, una pizzeria, tre bar, una chiesetta degli anni Trenta, il tutto circondato da filari di vite, marane, terre acquitrinose, e tramonti scarlatti che sembravano urlare di autentica rabbia.

Proverò perciò a spiegare cos’era questo anywhere, da chi era abitato, cos’è diventato nella mia percezione attuale, dopo che ho sedimentato il tutto nella segreta e misurata ubriachezza dei ricordi, e dopo che sono tornato a percorrerne le strade a distanza di vent’anni.

Sono figlio di un gruppo sociale tipicamente tardo novecentesco. Un ceto di tecnici, di commessi, di ferrovieri, di impiegati, immune da posizioni di privilegio, ma che poteva godere di un benessere diffuso e del vacuo senso di sazietà che ai primordi degli anni Ottanta concedeva la corsa all’appagamento consumistico. Una classe che allora andava a colonizzare quartieri di nuova costruzione nelle ultra-periferie di Roma. Coppie giovani che formavano, insieme ad altre coppie, dei nuclei condominiali aperti in sobborghi-isole senza identità, dove si parlava un romanesco diluito e temperato dal gergo televisivo, e dove noi ragazzini crescevamo in piccoli cortili, senza mai avvertire l’attrazione gravitazionale della città, perché abituati fin dalla nascita a considerare la televisione come luogo, e perciò come centro.

Un universo ovattato in cui le grandi questioni non arrivavano mai a toccarci – il terrorismo, la Guerra Fredda, Chernobyl, l’Aids – e in cui tutto lentamente si assopiva con lo scorrere sempre uguale degli anni, le smanie dell’adolescenza, i desideri contraffatti, le piccole ambizioni.

Non saprei collocare la mia famiglia di origine in nessuna delle classi sociali di cui parlavano i libri di storia. Era una classe, quella, indefinibile, che non si contrapponeva a niente e a nessuno, che non aveva una mentalità specifica né un’etica, che non praticava i riti religiosi se non in modi inconsapevoli e sbiaditi – i battesimi, le comunioni e le cresime, le feste del santo patrono con le bancarelle, i concerti delle orchestre revival, le giostre, i calcinculo, i fuochi d’artificio –, la cui unica peculiarità era l’esposizione ai consumi di massa.

Una famiglia, la mia, innestata in un sistema di valori ereditato da una civiltà antica e ancora di ascendenza contadina, ma contaminato dalla vicinanza di altre famiglie, a loro volta discendenti da quella specie di piccola borghesia migrante che proveniva da altre regioni e che aveva ingrassato la cinta di Roma a partire dagli anni Cinquanta. Un ibrido senza tempo e senza luogo al quale ho demandato la mia formazione di uomo.

Né cittadino né provinciale, ho orbitato per tutta l’infanzia e per buona parte dell’adolescenza – e come me altre migliaia di ragazzini delle mie parti e della mia generazione – come una molecola insignificante intorno a un pianeta, Roma, che mi è sempre parso troppo vasto e troppo incomprensibile.

La mia borgata era questo.

Ci sono tornato un anno fa, ho accompagnato un amico scrittore che voleva farsi raccontare questo brandello satellitare di Roma. Abbiamo fatto un giro in macchina per quelle “stradelle perdute sotto il sole”, ho rivisto la ferrovia, il gommista, il fioraio, la pizzeria, i tre bar, la chiesetta degli anni Trenta.

Ho rivisto il campo di calcio in cui il mio compagno di squadra Francesco vide per l’ultima volta sua madre. Era una sera d’inverno dell’86, e nevischiava. Noi correvamo intorno al campo di pozzolana, tutti ricoperti di fango, a testa bassa, sotto le torri-faro sfavillanti di luce color ghiaccio. E mentre correvamo, all’improvviso, notammo quella donna. Era ferma nel buio, vicinissima alla rete, al freddo. Flottava nell’oscurità come un’ombra dolce e chiara, con le mani infilate nel cappotto color cammello, un cappotto con la cintura. Quella donna ci guardava mentre correvamo come un branco di lupi sfiatati. Un’ora più tardi si sarebbe impiccata nel bagno di casa.

Ho rivisto il nucleo condominiale e il cortile in cui sono cresciuto, e ho scoperto che la via oggi è chiusa da una sbarra elettrica, il sintomo di un avanzamento sociale, o perlomeno di una percezione di avanzamento sociale che si è fatta largo nella coscienza degli attuali residenti.

Ho rivisto il giardino della mia infanzia, dove non ci sono più gli alberi malamente sfrondati da me undicenne che provavo a fare ordine nella vegetazione, dopo che mio padre ci aveva abbandonati, e dopo che mia madre per sopravvivere si era messa a fare mille lavori che la tenevano impegnata lontano da casa per tutto il giorno. Al posto di quella giungla malsana oggi c’è un praticello verde smeraldo e una pianta di limoni che spicca in un angolo del gia
rdino come una scultura minimalista.

Ho ritrovato ancora vecchie scritte tracciate ai miei tempi col gesso, e ho mostrato al mio amico il posto in cui giocavo a pallone con Diego Anemone, l’imprenditore finito in carcere a seguito dello scandalo dei Grandi Eventi che ha coinvolto, tra gli altri, Scajola e Bertolaso (ricordo Diego come un ragazzo gentile, un autentico fenomeno del calcio, non l’ho più rivisto da quando me ne sono andato dalla borgata).

La percezione più forte che ho ricavato da questa scampagnata a ritroso nella nostalgia è che tutto, col tempo, si sia come rimpicciolito, che le strade, le palazzine a tre piani, i vecchi cortili, la scuola, si siano miniaturizzati. Sarà perché, nel frattempo, mi sono trasferito a Roma, e ho ampliato i miei orizzonti, e tutto ciò mi ha tramutato, forse, in una specie di Gulliver capace di guardare i fantasmi del proprio passato come lillipuziani alti quindici centimetri.

Nonostante le ristrettezze in cui sono cresciuto, ho avuto una buona istruzione, ho appreso il gusto del bello, ma ho sempre giudicato i fatti e i comportamenti delle persone da una prospettiva deformata dal livore sociale. Mi vanto di essermi fatto una cultura, di avere delle aspirazioni, di essere scampato al destino che ha accomunato i miei amici d’infanzia, un destino di poco studio, di precoci lavori manuali, di matrimonio e figli prima dei trent’anni. Mi rendo conto che l’eredità più pesante che mi ha lasciato la borgata è questo: un rancore segreto per il benessere esibito, per tutto ciò che rientra nello spirito borghese. Ma mi sono convinto un po’ alla volta di quanto sia ridicolo il mio atteggiamento, di quanto il mio risentimento derivi dal fatto che non sono né carne né pesce, che mi trovi a disagio tanto nel centro quanto nella periferia.

Oggi a Roma, quando sento parlare di zone periferiche, mi accorgo che spesso si intendono quartieri semi-centrali come Pigneto e Tor Pignattara. La parola ha assunto una sottigliezza semantica che sovrasta il semplice dato della distanza geografica dal centro, e che va a sostituirsi al concetto di zona di degrado. La ragione è che le borgate, nel loro significato canonico, non esistono più. O se ancora esiste qualcosa che gli somiglia, allora bisogna andare in quei quartieri, o al contrario spostarsi molti chilometri al di là del Raccordo, nei paesi dell’hinterland romano, dove si trovano ancora le botteghe dei ciabattini e dei pizzicaroli, dove si fanno le feste popolari, dove c’è un continuo, violento rimescolamento sociale, dove si sviluppa fin da piccoli una capacità di resistenza al mondo e di autoinganno, come quella che sviluppavo io nei miei anni a Settebagni.

Periferia, oggi, è tutto ciò che è oltre il mondo, che è magma, lotta, legge della strada.

Se tutto questo risponde al vero, allora qualcosa delle vecchie borgate sopravvive anche il sabato pomeriggio, nei centri commerciali spuntati come funghi a ridosso del GRA, dove si riversano sfrontati i nuovi coatti con addosso le tute delle squadre di calcio, le sopracciglia ad ala di gabbiano, i tribali sul collo, per rimorchiare, o per imbruttire alle famiglie di immigrati, dove passa il nuovo Dio cantato dai Baustelle, il “Cristo delle peggio borgate, delle vite sprecate”.

E dove ogni tanto passo io, borgataro, periferico, semi-romano, o sa il diavolo cosa.

Andrea Pomella
Fonte: www.minimaetmoralia.it
Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/cristo-delle-peggio-borgate-delle-vite-sprecate/
26.03.2015


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