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Dalla “deideologizzazione” all’astensionismo


MatteoV
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Molto si è detto, molto si dice e molto si dirà nei giorni a venire, come sempre del resto, sulle ultime elezioni. Torme di commentatori, analisti, politici e politologi si affanneranno attorno alle percentuali per indicare direzioni e tendenze, crescite, cali e tenute dei vari partiti e dei singoli candidati. Eppure, come sempre, un dato viene ignorato, forse il più importante, il più basico, quello senza il quale tutto il resto diventa un garbuglio di chiacchiere senza senso. Quello che dichiara se il popolo che secondo la Costituzione sarebbe il titolare della sovranità decida o meno di esprimere una preferenza, di partecipare alle elezioni; se quel popolo reputi di dovere e potere scegliere una delle “offerte politiche” che l’industria mediatica in maniera persino forsennata gli propone.
Eppure, a dispetto di tutta la pubblicità e del marketing elettorale che hanno colonizzato ormai la politica, facendo dell’elettore un consumatore, ormai da qualche anno in Italia (come nel resto dei paesi occidentali) si registra una costante riduzione di coloro che si recano alle urne. Durante le ultime regionali poco più della metà degli aventi diritto ha partecipato al voto. In occasione delle elezioni in Emilia dello scorso novembre, invece, l’affluenza è stata di appena il 37,7%. Viene da domandarsi come si fa a rallegrarsi per una presunta vittoria, in queste condizioni. Sembra lontano quel 1976, l’anno in cui il 93% dei cittadini partecipò al voto. Dopo di allora un calo lento ma inarrestabile. Comunque per altri trent’anni le percentuali si mantennero superiori all’80%, fino alle politiche del 2008, proprio quelle in cui, ironicamente, videro l’esordio di un partito che si definisce democratico.
Ma lo spartiacque è stato il biennio ’78-’79, in cui i votanti scendono al di sotto di quel 93% che sembrava un dato consolidato. Se si leggono le vicende storiche di quell’epoca è facile capire il perché. Sono gli anni, infatti, del fallimento del “compromesso storico”. I berlingueriani del PCI e le correnti più progressiste della Democrazia Cristiana avevano cercato di trovare un accordo tra i due partiti che prevedesse l’ingresso dei comunisti al governo o quantomeno in una maggioranza parlamentare. Berlinguer aveva teorizzato l’impossibilità per il PCI di governare da solo con il 51%, quindi quell’accordo diventava cruciale, vitale, per la sinistra italiana. Il suo fallimento, dunque, avrebbe segnato il fallimento di un’epoca. Non solo della sinistra, che aveva cercato di proteggere “socialdemocraticamente” il lavoro, schierandosi con le lotte operaie in sede sindacale, ma cercando la mediazione e il compromesso in sede politica e giungendo infine alla piattaforma dell’accordo con la DC; l’omicidio Moro segnò la fine delle speranze, delle illusioni di quegli anni. Decretò che un’alleanza di governo tra comunisti e democristiani non era possibile, ma per di più sancì che gli americani non avrebbero mai accettato il PCI al governo, a nessuna condizione, confutando la strategia berlingueriana, tutta protesa a tentare di sedare i timori d’oltreoceano... [CONTINUA]


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