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Ecco cosa intendeva Gesù quando parlava di povertà

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La povertà materiale è davvero la condizione per essere perfetti agli occhi di Dio? Ecco il testo evangelico dell’incontro tra Gesù e il giovane ricco:

“Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Egli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». Ed egli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso». Il giovane gli disse: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?». Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze. Gesù allora disse ai suoi discepoli: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: «Chi si potrà dunque salvare?». E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile». Allora Pietro prendendo la parola disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi”. Mt 19, 16-30

Gesù sapeva che il denaro era per quel ricco la cosa più importante della sua vita, più importante di Dio, quindi la prova di essere un vero discepolo era costituita per lui nel rinunciare alla sua ricchezza. Non era una prova universale e Gesù non ha fatto la stessa richiesta ad altri, neanche se erano ricchi. Infatti Gesù e i suoi discepoli erano anche sostenuti da alcune delle donne benestanti che li accompagnavano:

“In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni.” Lc 8, 1-3

Gesù non aveva chiesto a queste donne di distribuire tutta la loro ricchezza ai poveri. La povertà non viene imposta da Gesù per essere un suo seguace.

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.” Mt 5, 3

La parola ebraica adoperata da Gesù per indicare i poveri era anawîm: questi ultimi sono i “poveri di Dio”, nel senso di persone con una particolare spiritualità, le persone che si fidano di Dio e si affidano a lui. Il concetto di anawîm, tipicamente semitico, non è assolutamente reso bene in greco con ptochòs (povero); si tratterebbe di una traduzione “a calco”, una parola che ne rende un’altra meccanicamente; ma cambiando cultura non si può fare questo passaggio meccanico. Ecco allora che il redattore greco di Matteo, proprio per essere fedele all’originale, deve aggiungere qualcosa e decide di aggiungere un dativo di relazione: poveri to pneumati. Quello “spirito” è inteso proprio in senso greco: “poveri in spirito” indica una ben precisa specie di povertà, dove lo spirito determina la condizione, l’ambiente, il pensiero. Non è un discorso di tipo economico o sociale, non è una povertà determinata dal conto in banca o dalla condizione sociale, dal mestiere o da altre situazioni del genere: è una povertà “in spirito”, cioè il riconoscimento della propria povertà personale. Il concetto di anawîm dunque è quello di colui che, riconoscendo la propria povertà e debolezza, riconosce di dipendere da Dio. http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio23.htm

Il benessere economico e l’istruzione impediscono la costituzione di una società organizzata gerarchicamente che basa il suo potere sulla povertà e sull’ignoranza della popolazione.

http://conoscererendeliberi.wordpress.com/2013/11/20/ecco-cosa-intendeva-gesu-quando-parlava-di-poverta/

Grazie delle osservazioni

Non sono assolutamente d'accordo con queste interpretazioni.

"...è una povertà “in spirito”, cioè il riconoscimento della propria povertà personale. Il concetto di anawîm dunque è quello di colui che, riconoscendo la propria povertà e debolezza, riconosce di dipendere da Dio."

Questo concetto può averlo tirata fuori solo un prete cioè uno che ha bisogno di farti sentire una schifezza per poterti manipolare e controllare. Gesù parlava due millenni fa a pescatori, pecorai e contadini senza la minima istruzione. Parlava per metafore, concetti semplici comprensibili da tutti. Oggi se orde di teologi con fior di studi universitari si accapigliano per dare spiegazioni vuol dire che sono fuori strada tutti, dal primo all'ultimo.
Il povero in spirito è semplicemente colui che non vive esclusivamente in funzione dei beni materiali, si accontenta di quello che ha e mira ad accrescere la propria sfera spirituale. Colui che non butta via la vita per possedere sempre più oggetti inutili ma nutre il proprio essere.
Certo che nell'epoca del consumismo è come spiegare ad una cozza che non ci sono solo gli scogli...

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L'interpretazione di Coilli mi piace di più e, mentre leggevo, speravo che fosse quella proposta da novaragiacomo. Naturalmente non sop dire quale sia quella filologicamente corretta.

Non intendevo dire che bisogna vivere per possedere oggetti inutili o che bisogna vivere esclusivamente in funzione dei beni materiali. Anzi invece sostengo che il povero in spirito è proprio colui che mette Dio al primo posto ma non necessariamente deve essere per forza povero...

Si è sempre discusso su questo passo del vangelo, laddove altri, giustamente , dicono di lasciare perdere i quattro vangeli e considerare semmai gli apocrifi o il vangelo ,salvo errore, di Tommaso: ed in particolare è vero che alcuni preti mettono l'accento sulla povertà intesa in senso spirituale, facendo star tranquillo chi ,seduto al primo banco, ha molto denaro e disponibilità, ma è anche vero che altri sacerdoti invitano proprio chi ha di più a dare di più.
Per contro ci sono altri preti che invitano tutti a essere poveri e a restare tali: certo non lo dicono come ho scritto io, ma se uno ti dice di rassegnarti per la tua situazione economica, aggiungendo che il denaro non è tutto, che c'è altro nella vita, non può certo dire queste cose a un fallito, a un disoccupato, a uno cui stanno slacciando la corrente e l'acqua e che gira in auto senza assicurazione.Uno che non può presentarsi ai colloqui di lavoro come uno straccione , sporco e maleodorante. Tuttavia il mio commento non è nè vuole essere un'apologia della ricchezza, ma un invito invece, rivolto anche ai cristiani o a chi si arroga il diritto di essere portavoce di Cristo, a che tutti possano vivere meglio e non , al contrario, a che tutti vivano in povertà materiale. E qui di seguito alcune osservazioni in ordine sparso: la povertà materiale spingendo le persone a ricercare il modo di vivere meglio, porta inevitabilmente o quasi a scegliere se comprarsi un libro, se praticare yoga o fare sport, se partecipare a riunioni politiche eccetera, oppure a ricercare il modo di avere o riavere un lavoro, mangiare e dormire e stare un po' rilassati. Per contro certa chiesa invita quasi o senza quasi alla rassegnazione: per quanto educato fino alle medie in una scuola cattolica, per quanto sia stato catechista, non credo che Cristo volesse persone rassegnate , così come non credo che sia il volere di Dio a vederci morire di freddo o a essere infelici o a chiedere l'elemosina.

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